Romano Prodi con il suo articolo su Il Messaggero ha posto una questione  centrale, se si vuole una riscossa del Partito Democratico: quello del modello politico – organizzativo attraverso cui radicarsi nel territorio. Non è vero che il problema non esiste o sia stato risolto. Al contrario, il PD è nato senza una riflessione approfondita sul suo modo di organizzarsi e vivere. A differenza della destra, le forze progressiste non possono vivere senza partecipazione.
La scelta del partito federale è condivisa da tutti: bisogna essere coerenti.
Prodi ha il merito di aver posto con forza il tema ma, con sincerità, aggiungo che non condivido le sue conclusioni: segretari regionali eletti dai cittadini che costituiscono l’esecutivo nazionale ed eleggono il segretario nazionale. Io ho un’altra idea di partito federale.
Prima, però, dobbiamo chiederci: a cosa deve servire? A mio giudizio, a sollecitare la partecipazione, la responsabilità di scelte politiche nei vari territori, a costruire  una forte proposta di governo e di iniziativa anche nazionale. E a selezionare la classe dirigente in base a qualità, impegno, serietà, concretezza.
Esistono forze progressiste in Europa che si sono date un modello di tipo federale: riflettiamo sulle loro esperienze. A me convincono quei modelli – cito l’esperienza dei socialisti spagnoli – che costruiscono i livelli superiori di direzione con una forte presenza e protagonismo di quelli immediatamente inferiori.
Mi spiego: i congressi dei circoli territoriali dovrebbero decidere non solo una parte prevalente della platea di quelli comunali, ma almeno la metà della loro direzione politica; lo stesso i congressi comunali per i provinciali e così via. I congressi regionali eleggeranno almeno metà della Direzione nazionale. Questa è  la via per far assumere a città e territori peso e autonoma responsabilità politica.
Un secondo aspetto riguarda le cariche di partito – segretari provinciali, regionali, nazionali – da eleggere a voto segreto, da parte degli iscritti. Non ha senso che i cittadini decidano gli incarichi di direzione di un partito al quale, legittimamente, non vogliono iscriversi. Superare l’attuale confusione tra cariche di partito e cariche pubbliche serve anche a costruire quel sentimento di appartenenza, indispensabile ad una forza politica moderna.
Terza considerazione. I candidati a ruoli di primo piano nelle istituzioni – sindaci, presidenti di provincia e di regione, presidente del Consiglio – vanno scelti attraverso le primarie, aperte ai cittadini che si riconoscono nel centro sinistra.
Occorrono però regole valide ovunque. Non si possono semplicemente sommare i voti ma bisogna riferirsi alla popolazione residente, ai voti, agli iscritti.
Se guardiamo alle primarie negli Usa, ogni territorio esprimerà un certo numero di delegati, collegati ai candidati, per le convenzioni comunali, provinciali, regionali, nazionale. Sarà candidato del PD chi otterrà la maggioranza del 50% più uno dei delegati.
Queste sono le scelte che dovremmo rapidamente varare, accompagnandole – ha ragione Chiamparino – ad una vera messa al bando delle correnti. Finiti i congressi, restano gli organismi dirigenti: le mozioni devono scomparire. Compilare sulla base delle mozioni anche le presidenze e vice-presidenze dei gruppi parlamentari è stato un errore.
Sono certo che Bersani vorrà farsi interprete di questo bisogno di innovazione e saprà promuoverlo. E’ così che il PD saprà conquistare la fiducia della maggioranza dei cittadini e batterà la destra.