Pistoia, 29 novembre 2009

Da 27 anni qui a Pistoia grazie al Centro Donati e a Giancarlo Niccolai, che ne è il Presidente, nel nome di Giorgio La Pira, si vive una giornata dedicata alla  pace e alla solidarietà. Mi sono ogni volta rappresentato questa esperienza, alla quale quasi sempre ho partecipato, come un seme posto nel terreno, uno dopo l’altro, anno dopo anno, in preparazione di un raccolto copioso.
Ognuno di noi, è legittimo, preferirebbe partecipare alla mietitura, alla raccolta dei frutti: non ci è dato però di scegliere il tempo della nostra vita.
Quella che è di fronte a noi è la possibilità di decidere di non sprecarla, di impegnarla un po’ anche per gli altri, per la comunità; di non rassegnarsi a vedere il mondo dominato dalle ingiustizie, dalla violenza, dalle disuguaglianze scandalose, dalle guerre.
Un altro mondo è possibile; sì, lo è e dipende anche da noi. Da quanto sappiamo costruire, da quanto sappiamo cambiare noi stessi.
La mia convinzione è che a noi, ora, tocchi  vivere la stagione della semina, che – a differenza delle fasi dell’agricoltura – non è dato di sapere quanto sia lunga, se qualche anno o decennio o un tempo ancora più ampio.
Con pazienza, umiltà, coerenza è necessario lavorare per relazioni di pace nel mondo, costruite attorno ad una visione della unicità della famiglia umana, del suo comune destino e dunque della solidarietà e ricerca di giustizia che devono accompagnare il suo cammino.
Questa nostra stagione è quella della realizzazione di un nuovo umanesimo, che non a parole ponga al centro della vita della società – dell’economia, della finanza, della politica – la persona, nella sua interezza e complessità, nella sua concreta, visibile fisicità e nelle sue aspirazioni, vocazioni spirituali. La persona con le sue domande di promozione umana e il suo bisogno di senso, di risposte su questioni che si pongono nello scorrere della storia, non archiviabili per lo straordinario irrompere delle conquiste tecnologiche,  sul “chi siamo”, sulla origine ultima della vita, soprattutto “sul dopo”, su un futuro dopo la morte.
La risposta a tali questioni non può essere imposta né può essere univoca: ma quelle domande, il confronto attorno ad esse, le scelte che in ognuno si compiono hanno piena cittadinanza e legittimità nella società moderna, se quest’ultima voglia fondarsi davvero sulla centralità della persona.
Questa consapevolezza e questa convinzione stanno avanzando, facendosi strada: lo si vede se attorno a noi non si fissa lo sguardo solo sugli aspetti – che vi sono e purtroppo sono pesanti – di segno negativo.
Già i mezzi di comunicazione, concentrando solo su questi ultimi la loro attenzione, rischiano di generalizzare la persuasione che non è possibile, non è nelle nostre mani l’impegno per rendere il mondo e la nostra convivenza migliori.
Nei momenti di sconforto, di delusione che pure ci accompagnano, dovremmo saper fare ricorso a quel grido, mite e forte, di Giorgio La Pira, spes contra spem, così da non venir meno al dovere del nostro impegno.
Quest’anno, la XXVII Giornata della Pace e della Solidarietà, ci impone di guardare anche qui, vicino a noi, non solo alle tante guerre ancora combattute o dimenticate.
Non si tratta di una scelta alternativa ma del porsi dal punto di visuale giusto.
La crisi sta colpendo fortemente il diritto al lavoro, un diritto fondamentale, insopprimibile perché fonda la dignità, l’autonomia della  persona, la sua non esclusione dalla vita della società.
Restiamo pure a Pistoia, anche se la nostra città non rappresenta un’eccezione.
Licenziamenti o addirittura chiusura totale di industrie come la Mas, la Radicifil,, l’Answers, la Breda, tante altre piccole imprese o negozi di cui neppure veniamo a conoscenza, se non per rapporto diretto con quanti hanno perduto l’occupazione.
Ho partecipato ad incontri con questi lavoratori: un’età abbastanza giovane e comunque lontana dalla pensione; un grande numero di donne; mutui accesi per la casa, che non si sa come pagare; la preoccupazione per i figli. Vi è dunque una urgenza: quella della solidarietà, con un impegno per porre al primo posto nella attività delle istituzioni – dal comune al governo nazionale – il tema del lavoro.
Mi ha molto colpito la lettura della recente Enciclica di Papa Benedetto XVI, Caritas in Veritate.
Ritengo importante un confronto ed un approfondimento, che dovrebbe interessare una politica che voglia avere un riferimento, meglio un orientamento nei valori, al tempo stesso non privandosi di un sguardo sul futuro, attorno a quelli che un tempo venivano definiti “pensieri lunghi”.
Lo sviluppo delle tecnologie e la rivoluzione antropologica, con al centro la persona; una visione della società, nella quale non si può separare una economia dominata da spiriti selvaggi, dalla ricerca di un profitto al di fuori di ogni responsabilità nei confronti dei lavoratori, della collettività,  dell’ambiente, e il welfare, regno di una solidarietà residuale, con risorse marginali e calanti, di tipo risarcitorio e non più universalistico.
Economia e welfare, cioè l’intera società devono essere umanizzati cioè resi a misura della persona, della sua dignità, della sua promozione. Le istituzioni hanno il compito di creare le condizioni perché i cittadini e le loro associazioni possano assumere le responsabilità, ovunque possibile, per intervenire nella vita economica e sociale.
Sono titoli, in questa circostanza, ma definiscono assi portanti per una rivoluzione nella cultura politica.
Una seconda questione di solidarietà si riferisce agli immigrati che vivono e lavorano legalmente in mezzo a noi.
Nessuno, quale che sia il colore delle pelle, l’etnia, la religione può essere al di sopra delle leggi: la legalità è un principio  invalicabile, per  chi è in Italia, vi sia nato o meno.
E tutti, senza eccezione, siamo al di sotto della Costituzione, che deve unire nel rispetto di comuni diritti e comuni doveri il nostro popolo.
Ma non può sfuggirci che nel Paese si sta diffondendo – talora per responsabilità di settori politici – un atteggiamento di rifiuto, di ostilità verso gli immigrati.
Non può sfuggirci che alcune milioni di persone, legalmente presenti tra noi, sono private dal diritto di voto anche alle elezioni amministrative; che i loro figli con procedure complicate divengono cittadini italiani soltanto alla maggiore età.
Non può infine sfuggirci che sta già mutando – certo sono primi segnali, ma guai a sottovalutarli – il dato che aveva segnato una straordinaria conquista dell’Italia repubblicana: quello dei bimbi morti durante il parto o nel primo anno di vita.
La mortalità infantile può essere assunta come un indicatore di civiltà. Il tasso di mortalità, in Italia nel 2008  è del 5,61 su mille contro il 29,2 del 1970.  E’ il Paese, tra quelli dell’Europa Occidentale che ha presentato uno dei miglioramenti più significativi. Le cifre parlano chiaro e testimoniano un netto miglioramento delle condizioni materiali di vita, della cultura, dei servizi sanitari. Il Paese nel suo insieme dedica più cura a attenzione ai suoi bambini.
All’interno di questo quadro positivo, si segnalano tuttavia due emergenze molto serie, alle quali occorre dedicare un impegno collettivo. Mi riferisco agli squilibri territoriali, che continuano a penalizzare il Mezzogiorno anche dal punto di vista della vita di un neonato (ad esempio: un neonato che dovesse nascere a Reggio Calabria, oggi, ha la probabilità di morire tre volte superiore a quella di un neonato di Pistoia o addirittura più di quattro volte di un neonato di Trieste); al tempo stesso alle famiglie degli immigrati, nelle quali, per minore attenzione e cultura della prevenzione, per rischi di emarginazione sociale e condizioni di maggiore povertà, la morte dei bimbi durante il parto è quasi doppia di quella che si ha nelle famiglie italiane.
Il volto dell’Italia sta cambiando rapidamente. È indispensabile ripensare e ridisegnare l’intero sistema di cure per i neonati ad alto rischio, definendo livelli e standard di assistenza, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Occorre impostare azioni mirate per la tutela della gravidanza delle donne immigrate. Non vedere questa realtà o non intervenirvi con efficacia, presi magari da scontri ideologici datati e astratti, è una grave colpa, anche da un punto di vista morale.
Mons. Antonio Maria Vegliò – concludendo i lavori del VI Congresso mondiale sulle migrazioni svoltosi in Vaticano – ha ribadito “la prioritaria importanza della centralità della persona umana, l’esigenza di tutelarne  sempre la dignità, a prescindere dal suo status giuridico, nella regolarità o nella irregolarità, e promuovendo il suo sviluppo integrale. La persona, orientata a valori trascendenti, vale più di tutte le strutture e le istituzioni”.
Viviamo una fase segnata da una crisi economica che colpisce tutto il mondo, nonostante ciò, ogni anno si spendono 1,340 miliardi di dollari in armi. Mentre non si trovano le risorse sufficienti ad assicurare il cibo alle persone, compresi i bambini.
La fame nel mondo colpisce ancora più di 1 miliardo di persone, cioè un sesto della popolazione totale: il numero è cresciuto del 9% quest’anno, arrivando al livello più alto dal 1970. Si stima che il numero delle persone che vivono in condizione di povertà estrema sin dai prossimi mesi possa crescere di un numero che oscilla tra i 55 e i 90 milioni.
Come si vede la pace e la solidarietà richiedono impegno e coerenze qui, nelle nostre città, e in aree del mondo sconvolte da conflitti, violenze, malattie e povertà da noi inimmaginabili.
Nel febbraio del 1964 Giorgio La Pira invitava i giovani a seguire la strada della pace: “non solo strada del disarmo, della cessazione delle guerre e della genesi della pace universale, ma soprattutto la strada della fioritura della civiltà: della conversione delle spese per gli armamenti che distruggono, in spese per aratri che seminano e per falci che mietono! Astronavi invece di missili. Spese per la fioritura della terra e della civiltà!”
Il Premio Giorgio La Pira per la Pace si propone di far vivere il messaggio dell’indimenticabile Sindaco di Firenze: la pace scopo dell’umanità.
Come afferma il preambolo della Dichiarazione Universale dei diritti Umani: ” il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
Il diritto alla pace è troppo spesso calpestato: molti popoli vivono nel terrore della guerra e noi, che ci troviamo in condizioni privilegiate, abbiamo il dovere di proteggerli, di non coprirci gli occhi di fronte alla violazione di diritti umani, di sconfiggere il terrorismo, di accogliere quanti sfuggono a dittature, alla violenza delle armi, a catastrofi ambientali. Questo è il diritto di asilo politico, che l’Unione Europea intende assicurare.
In una lettera indirizzata a Papa Paolo VI nel 1970 La Pira scriveva: “unificare il mondo: ecco il problema – unico – di oggi: unificarlo facendo ovunque ponti ed abbattendo ovunque muri…”.
Abbattere i muri, questo è il senso più profondo della pace.
Il 9 novembre scorso abbiamo celebrato il ventennale della caduta del Muro di Berlino. Fu un evento di portata storica. Coronò un lungo periodo di lotta e di resistenza, sconfiggendo con una rivoluzione non violenta, un impero – l’Urss – nato con promesse di emancipazione e divenuto un regime di oppressione di persone e di nazioni. In modo pacifico i popoli riconquistarono dignità e sovranità, venne cancellata la guerra fredda in Europa. Riprese così con più forza lo stesso cammino di costruzione dell’Europa, che si era dovuto fermare ai confini disegnati da Yalta.
Tuttavia molti sono i muri che restano ancora da abbattere.
Nel giorno del ventennale della caduta del muro che separava la Germania dell’Est e la Germania dell’Ovest è stata praticata una piccola breccia in un tratto di muro della barriera che separa la Cisgiordania palestinese da Israele. Un gesto simbolico compiuto da 150 manifestanti palestinesi, peraltro subito respinti dalle forze israeliane.
Nel 1965 La Pira scriveva, elencando le quattro tesi per la pace nel Mediterraneo e nel mondo, della necessità di “operare, in ogni settore, perché il muro che ancora separa il popolo di Israele dai popoli arabi sia abbattuto, e perché la pace torni davvero a prendere sede stabile nella città della pace: a Gerusalemme!”.
Il mondo globale, il Mediterraneo chiamano in causa  il ruolo dell’Europa.
La costruzione della dimensione politica dell’Unione Europea è una esigenza per avere voce nel XXI secolo, una funzione non simbolica nella affermazione della pace, di una cooperazione giusta e solidale, dei diritti umani, ovunque.
Tra pochi giorni entrerà in vigore il Trattato di Lisbona. Una coincidenza importante e significativa.
Non è il passo avanti necessario, ma è un progresso reale. L’Europa potrà avere una sola posizione nella  politica estera, di sicurezza, mi auguro un suo seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La sussidiarietà stessa ne esce rafforzata, coinvolgendo nella sua valorizzazione e tutela i Parlamenti nazionali.
Accanto all’impegno politico, alle scelte delle istituzioni, alla promozione della solidarietà è indispensabile far crescere una nuova cultura. Bisogna superare il binomio amico-nemico come asse della convivenza all’interno delle nazioni e nelle relazioni internazionali.
È giunto il momento di cambiare: sta qui una svolta epocale, che deve illuminare l’avvio di questo nuovo secolo.
Ieri il nemico era il comunismo per l’ovest e il capitalismo per l’est. Oggi ci viene presentato lo scenario dello scontro tra civiltà, il pericolo Islam per l’Occidente, Europa e Stati Uniti regno del male per il mondo musulmano.  Quello che è necessario è una integrazione positiva, rispettosa cioè di differenze culturali, che arricchiscono il nostro essere cittadini, all’interno di ogni nazione; obiettivi comuni, da realizzare insieme, per il mondo reso villaggio globale.
Mi riferisco alla messa al bando degli armamenti nucleari, alla riduzione delle spese militari, ad un nuovo sviluppo finalizzato alla persona, all’ambiente.
Mi riferisco alla costruzione di una etica mondiale condivisa, un minimo comun denominatore di valori, di libertà e responsabilità, di diritti e di doveri.
Questa dicotomia amico-nemico deve essere cancellata anche nel dibattito politico all’interno delle nazioni, compresa l’Italia.
Il bipolarismo è una conquista delle democrazie moderne, se affida ai cittadini la scelta – con il voto – delle maggioranze di governo e dei rappresentanti nelle istituzioni.
Non deve vivere come contrapposizione frontale, conflitto continuo, assenza di un comune riferimento a principi guida, in primo luogo la Costituzione, al rigoroso rispetto di regole, di procedure, della legalità.
Scriveva La Pira (La nostra vocazione sociale, Roma, AVE 1945 – I edizione): “Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa ‘brutta’! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’economico è un impegno di umanità e di santità”. Il fine della società – sosteneva – è quello stesso della persona: “creare quelle condizioni esterne (bene comune) adeguate alla conservazione, allo sviluppo e al perfezionamento della persona. Produzione per opera di tutti, comunità del prodotto, distribuzione proporzionata a tutti: ecco i tre pilastri dell’edificio della comunità umana”.
Non può esistere una vera cittadinanza se diritti e doveri vengono separati anziché essere indissolubilmente connessi: non si svolge pienamente il proprio ruolo di cittadini se non ci si fa carico delle proprie responsabilità.
Costruire la pace significa anche e soprattutto credere nella pace e lottare per la pace, significa mettere il bene delle popolazioni al di sopra di qualsiasi tornaconto politico.
La pace deve essere considerata un valore universalmente riconosciuto che sia in grado di superare qualsiasi barriera sociale, religiosa, ideologica.
Concludo, con una citazione di Sandro Pertini: L’Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa è la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire. (8 luglio 1978 dal discorso d’insediamento alla Presidenza della Repubblica)