– Camera dei deputati, 13 novembre 2009

Signor Presidente della Camera dei deputati, Signor Presidente dell’Unione interparlamentare, Signor Direttore generale della FAO, Signor Ministro degli Esteri, Signore e Signori.

All’inizio del mio intervento desidero rivolgere un saluto particolarmente caloroso all’On. Pier Ferdinando Casini, primo italiano a ricoprire la carica di presidente dell’Unione interparlamentare, ruolo ricoperto con l’apprezzamento e il plauso di tutti e che ha dato lustro al nostro paese.

Venendo al tema di questa giornata.

La riduzione del numero di persone che soffrono la fame, come è noto,  costituisce uno degli obiettivi più ambiziosi tra quelli del Millennio varati nel 2000.
Quanto ai risultati, purtroppo, i dati ad oggi non sono confortanti.
Il rapporto di quest’anno sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio (come è stato ricordato), per quanto riguarda la fame e la denutrizione, è infatti preoccupante. Negli anni Novanta si era registrato un qualche progresso nella lotta alla fame nel mondo. Tra il 1990 e il 2005 il numero di persone che vive con meno di 1,25 dollari si è ridotto dal 42% al 25%. Ma il decremento annuale delle persone denutrite, purtroppo, è sceso: si è passati da  -20% l’anno del 1994 a -16% del 2006.
Ora la tendenza ad un lento miglioramento della situazione si è addirittura invertita. Più di un quarto dei bambini nelle aree in via di sviluppo è sottopeso. E si stima che il numero delle persone che vivono in condizione di povertà estrema sin dai prossimi mesi possa crescere di un numero che oscilla tra i 55 e i 90 milioni.
E’ uno dei tanti effetti negativi della crisi economica attuale: quello che nei paesi più ricchi e avanzati è pioggia battente e forte, nei paesi più poveri è disastro e uragano.
Avviene così anche per la pandemia.

In questa cornice preoccupante va ricordato come proprio dall’Italia sia giunto un segnale importante: il vertice G8 de L’Aquila del luglio scorso – al quale per la prima volta hanno partecipato 8 paesi africani (Nota: Sono Sudafrica, Egitto, Nigeria, Angola, Senegal, Etiopia, Algeria) – si è chiuso con l’impegno di stanziare 20 miliardi di dollari in tre anni per combattere la fame nel mondo. Forse non sarà sufficiente, ma dovremo comunque tutti vigilare affinché almeno il solenne impegno de L’Aquila venga rispettato.
Tutto ciò impone anche all’Italia uno sforzo finanziario ulteriore, per recuperare il ritardo rispetto agli obiettivi dello 0,5% del PIL per il 2010 e dello 0,7% per il 2015, dando così seguito con serietà ai nuovi impegni promossi proprio dalla Presidenza italiana del G8.

Il Vertice delle Nazioni Unite dell’anno prossimo offrirà un’opportunità unica per analizzare lo stato d’attuazione di questo specifico obiettivo e, in generale, degli Obiettivi di sviluppo del Millennio; sarà anche l’occasione per avviare nuove e più ampie iniziative.

Di questo e di molto altro, voglio ricordarlo in questa sede, si è discusso qui, alla Camera dei deputati, lo scorso 2 luglio in un seminario interparlamentare promosso dal Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Il Comitato, presieduto dal collega Enrico Pianetta, sta svolgendo in questo senso un lavoro di estremo interesse e di indubbia utilità.

Il lavoro del Comitato sta mettendo in evidenza un dato che emerge tristemente nelle riflessioni che vengono fatte da noi in Italia e a livello internazionale quando ci si confronta con il problema drammatico dell’alimentazione mondiale. Il dato è che la globalizzazione non ha fino ad oggi dato risposta ai problemi dello sviluppo mondiale.

Né del resto può farlo se non si consolidano regole condivise per governarla e non si assumono realmente come priorità da parte della comunità internazionale la centralità della persona, il suo diritto ad una vita degna.

Quando fu avviato l’Uruguay round, nel 1986, l’atmosfera era di fiducia e di speranza.
C’era chi pensava che gli accordi costituissero un nuovo inizio per l’umanità; l’opportunità – attraverso il mercato e il libero scambio – di avviare a soluzione anche problemi drammatici e complessi come lo sviluppo, la fame nel mondo, la povertà.
Si era pensato che la creazione di un grande spazio comune, un grande “mercato” comune, a livello mondiale, avrebbe velocizzato la crescita.
Non si inventava certo la globalizzazione, che era già in atto (all’avvio dell’Uruguay round), ma si sperava che essa diventasse il passepartout dello sviluppo, di una crescita economica e civile del pianeta.

Come è noto le intese avrebbero richiesto ben sette anni e mezzo di negoziati lunghi ed estenuanti. Il tempo trascorso tra l’inizio e la fine delle trattative dà conto delle difficoltà, delle resistenze, delle preoccupazioni manifestate da parte di molti circa gli effetti reali della globalizzazione.

Ora su questo tema occorre riflettere. La globalizzazione è un fenomeno molto complesso, che divide le persone, da taluni condannato, da altri esaltato, ma sempre in modo acritico. L’attuale crisi economica ha messo in evidenza non poche difficoltà in ordine al modello di sviluppo globale che si è andato affermando in questi decenni. Una crisi finanziaria nata in un luogo ben preciso del pianeta ha finito per coinvolgere le economie di tutto il mondo, con conseguenze negative sulla vita dei singoli individui.

Il punto è che la globalizzazione mettendo in comunicazione fra loro territori e mercati diffonde gli scompensi di un particolare sistema economico con una velocità alla quale non eravamo abituati. Sul piano dei mercati globali – è questo quanto stiamo sperimentando – si può assistere ad una “pandemia” finanziaria che scoppia a New York, e travolge in poco tempo le economie reali non solo a Roma, Londra, Berlino, ma anche a Bangkok, Sydney, Johannesburg e ovunque nel mondo.

In questi mesi sono stati promossi numerosi vertici internazionali organizzati allo scopo di migliorare il coordinamento tra le diverse politiche nazionali. E’ in corso di evoluzione lo stesso formato dei vertici. La formula del G8 non appare più sufficiente.

Sempre più spesso, ormai, i grandi appuntamenti internazionali viaggiano con il format G8 + 5. Sono incluse le realtà cosiddette “emergenti” del pianeta (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica). In realtà ormai devono essere considerate realtà emerse. Del resto anche la formula G8 + 5 non sembra sufficiente. Tutti abbiamo in mente il vertice di questi giorni a St. Andrews, il recente vertice G20 di Pittsburgh, e quelli che nello stesso formato lo hanno preceduto a Londra e a Washington.
Il G20 rappresenta al tempo stesso la soluzione in questa fase più adeguata e una sfida per l’Europa, che se non procede ancora sulla strada dell’unità politica è destinata a veder ridurre il suo ruolo.

Voglio dire questo: la globalizzazione ci costringe a pensare ai problemi in termini mondiali, ad affrontarli in chiave multilaterale, a costruire per quanto ci riguarda una democrazia sovranazionale forte e funzionante.

Non è questa la sede per approfondire questi temi, come pure meriterebbero. Tuttavia dobbiamo porci in questa prospettiva affrontando i problemi che sono oggi sul tappeto, primo fra tutti il diritto di ciascun essere umano ad avere cibo sufficiente per nutrirsi.

Ecco, il punto. La dimensione da affermare della globalizzazione, processo che si intreccia con la modernità  e dunque da governare non da rifiutare, deve oggi essere rappresentato dai diritti.

La globalizzazione, se guidata, potrà riunire aree del mondo che prima erano separate, creando un unico spazio nel quale potrebbero – anzi dovranno – consolidarsi comuni diritti, essere affrontate e vinte la sfida della povertà, della fame, di inaudite ed insopportabili disuguaglianze.

Siamo al grande tema affrontato da John Rawls dei diritti umani come “Legge dei popoli”, vale a dire di una piattaforma giuridica essenziale, comune alle nazioni e ai popoli, destinata a rappresentare il minimo comune denominatore della convivenza civile internazionale.

Se si vuole, la costruzione di un’etica mondiale condivisa.
Deve essere chiaro, comunque, che senza una robusta tutela dei diritti umani i problemi che oggi abbiamo, tutti i problemi, anche il problema drammatico della fame nel mondo, cui è dedicata la giornata di oggi, non possono trovare soluzione.

In questo contesto ciascuno deve cercare di fare la sua parte.
Il Senato della Repubblica ha istituito nel  2001 una Commissione per i diritti umani; una Commissione “inventata” da Giulio Andreotti e – ancora – dal collega Enrico Pianetta, quando era membro del Senato. La Commissione rappresenta il proseguimento istituzionale del Comitato contro la pena di morte che ha lavorato tra il 1996 e il 2001 sotto la guida intelligente di Ersilia Salvato, la quale all’epoca svolgeva l’incarico che oggi ricopro io di Vice Presidente del Senato. Quel Comitato – e poi la Commissione diritti umani – hanno dato il loro piccolo contributo, così come l’intero nostro Paese, perché si giungesse dopo qualche anno all’approvazione di una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la moratoria delle esecuzioni.
Ho ricordato la nostra Commissione per i diritti umani anche perché alla fine del 2005 ebbe luogo una audizione con il Direttore generale Diouf. Mi ha molto colpito leggere il resoconto dell’intervento del Direttore generale, come al solito  lucido e interessante, e scoprire che dal 2005 ad oggi ben poche cose sono cambiate e che ancora molto, moltissimo lavoro deve essere fatto. Nonostante il grande impegno profuso in questi anni dalla FAO, la comunità internazionale non è stata in grado di contenere gli effetti drammatici della crisi economica e finanziaria in atto. La fame nel mondo colpisce più di 1 miliardo di persone, cioè un sesto della popolazione totale: il numero è cresciuto del 9% quest’anno, arrivando al livello più alto dal 1970.

Di fronte a dati così duri, occorre un salto di qualità: occorre convincere le opinioni pubbliche mondiali che il diritto al cibo rappresenta un diritto fondamentale dell’uomo, come il diritto alla vita, all’integrità della persona, alla sua dignità.
Anche in questa fase di crisi una cosa è certa: il mondo spende 1,340 miliardi di dollari in armi ogni anno.
Il Direttore generale Diouf, proprio l’altro ieri, ha segnalato l’esigenza di un impegno annuo di 44 miliardi di dollari. Ma, ha anche avuto modo di precisare che “Basterebbe che al più presto si traducesse in realtà l’impegno assunto dal G8 a L’Aquila di destinare 20 miliardi di dollari in più in tre anni a un programma di sviluppo agricolo per le aree di maggiore crisi, per cominciare concretamente a bloccare l’aumento del numero delle persone che nel mondo hanno fame”.

Solo in questo modo, mobilitando le coscienze e quindi le energie, le risorse e le volontà, possiamo pensare di compiere uno sforzo importante per l’effettivo raggiungimento di obiettivi ambiziosi sul piano della lotta alla fame nel mondo.
Noi intendiamo fare fino in fondo la nostra parte.