Giornata di studio in occasione del Bicentenario della nascita del poeta Giuseppe Giusti
Promossa dall’Associazione degli Allievi della Scuola Superiore Sant’Anna

Monsummano, Venerdì 23 ottobre 2009

Buongiorno,
quello che mi è parso interessante in questa iniziativa sono in particolare due aspetti: il primo, lo scopo dell’Associazione degli Allievi della Scuola Superiore Sant’Anna, che è  quello dell’approfondimento costante del rapporto tra cultura e territorio, attraverso i collegamenti con storia, letteratura e cultura locale.
Il secondo è l’opportunità di mettere in guardia dal rischio – dovuto non alla critica ma alla politica – di accantonare, anche negli studi nelle nostre scuole, il Risorgimento, le vicende storiche e culturali che lo caratterizzarono.
In questo contesto si colloca l’opportunità di celebrare il Bicentenario della nascita di Giuseppe Giusti, dall’ottica del territorio e della comunità pisana-monsummanese, attraverso la testimonianza di quei luoghi e di quelle comunità. Vedere  Giuseppe Giusti, la sua opera, intrecciata con la sua vita in questi territori.
A questo titolo, di lettore e di pistoiese, svolgo alcune considerazioni, in apertura di questo convegno, ringraziando gli organizzatori per questa iniziativa e per l’invito rivoltomi.

Giampiero Giampieri, vecchio compagno di Liceo Classico, studioso di letteratura e del territorio pistoiese affronta in maniera lucida e precisa il tema del rapporto tra l’espressione letteraria, la storia e la geografia che ad essa danno voce.
Nel suo libro Ahi Pistoia, Pistoia… Pistoia tra storia e poesia ci fornisce una chiave di lettura per poter ripercorrere anche la vita e l’opera di Giuseppe Giusti in rapporto al territorio e al momento storico che hanno fatto per così dire da sfondo al suo evolversi.

(…) Consideriamo Pistoia e la sua provincia. Quante, tra le persone colte, sanno valutare il contributo dato dai Pistoiesi alla cultura italiana? Molti sono convinti che dove siamo nati noi non possa esserci successo mai nulla d’importante. Che maestri siamo, gl’italiani, nel crogiolarci (alimentando così la piacevolezza del rimorso) tra i nostri bei complessi d’inferiorità! Ci muoviamo nel nostro patrimonio culturale come i paladini dell’Orlando Furioso si aggirano nel castello del mago Atlante. Nonostante tutto ciò che abbiamo alle spalle, non siamo ancora in grado di “abitare” il meraviglioso film storico del quale siamo attualmente attori e spettatori. Non sappiamo immergerci nella corrente del nostro essere e del nostro gioioso divenire “Italiani”. Riscoprire Pistoia, oltre a imparare cose nuove, significa anche considerare da un punto di vista diverso aspetti che già conosciamo.

Prendiamo Dante che, dopo aver assistito alla metamorfosi di Vanni Fucci, inveisce contro la patria del ladro. In Pistoia egli maledice la Fenice diabolica sempre pronta a rinascere dall’odio e dal sangue fraterno versato. L’episodio, letto a scuola, non ci fa neppure lontanamente intravedere l’abisso di orrore in cui il poeta ci invita a scendere. Mescolando storia pubblica e privata, Dante si serve di Pistoia per creare, come vedremo, uno dei più formidabili “correlativi oggettivi” della Divina Commedia.
E Cino? Ci insegnano che è un lirico “minore”, da inserire cronologicamente, e psicologicamente, tra Dante e Petrarca. Gli studenti di buona volontà provano, “con mal secure piante”, a seguire le tracce del poeta pistoiese, ma ecco che, guidati male, hanno bell’e perso di vista ogni valido punto di riferimento. La voce così autentica e originale del cantore di Selvaggia s’è fatta “scolorita e mesta”: fioca per il troppo lungo silenzio a cui l’hanno costretta.
E l’assedio famoso del 1305? E le novelle di Boccaccio, Sacchetti, Masuccio Salernitano che ci riconducono a Pistoia? Chi sa i motivi per cui il cardinale Niccolò Forteguerri meritò il titolo di “pater patriae”? E di Scipione Forteguerri, sommo grecista, quanti studenti del liceo classico sanno che fu elogiato da Erasmo da Rotterdam? Potremmo continuare con nomi e nomi e, di recriminazione in recriminazione, saremmo già oltre il primo Cinquecento… Ci ritroveremmo nel bel mezzo di quel calunniato secolo XVII che fu invece (a Pistoia come nel resto d’Italia) un prodigioso, un fiabesco “siglo de oro”.

Se conosciamo così poco Pistoia e i suoi poeti, è colpa del nostro disamore. Invece di esser fieri dei classici italiani, riteniamo quasi tutti i nostri autori noiosissimi. Si esce dall’università convinti che la nostra letteratura sia sempre stata il paradiso della retorica, del conformismo servile, dell’ipocrita cortigianeria. La cultura ufficiale (quella di cui si appagano di solito gli alunni che vanno bene a scuola) è la complice ambigua di antiche calunnie. L’Italia ne è vittima da almeno cinque secoli. (…)

Questa lunga citazione non rappresenta un diversivo rispetto al nostro argomento di oggi, bensì una motivazione; ed anche una raccomandazione a noi tutti, di rigore nell’approfondire la conoscenza, così da evitare gli opposti pericoli del provincialismo e del pressappochismo, che disconosce il merito o esalta ciò che non vale.

Ma torniamo a Giuseppe Giusti.
E’ il 1809: anche la Toscana è parte dell’impero di Napoleone Bonaparte e la Valdinievole  – a cui appartengono i territori di Monsummano, Pescia e Montecatini, che costituiscono lo scenario della vita e dell’attività letteraria di Giuseppe Giusti  – non si colloca come contesto ideale in cui poter sviluppare sapienza e cultura. Basti pensare che dagli atti del governo del tempo – vi è l’occupazione francese – è bandito l’idioma di Dante, Petrarca e Machiavelli. È il francese la lingua ufficiale.

Giuseppe Giusti nasce a Monsummano da nobile famiglia pesciatina, ascritta all’ordine cavalleresco di Santo Stefano. Il padre Domenico è un facoltoso possidente di campagna, la madre Ester Chiti è una nobildonna.

Agli inizi del Settecento Monsummano era passata per eredità a Pietro Leopoldo di Lorena. Nel 1775 il Granduca aveva istituito la Comunità delle Due Terre, unificando amministrativamente i territori di Montevettolini, dell’ormai decadente castello di Monsummano e del capoluogo, Monsummano Terme, in continua espansione. La dominazione lorenese viene interrotta all’inizio dell’Ottocento dall’invasione dell’esercito francese che rimane stanziato nel territorio fino al 1814.

Leopoldo II, principe ereditario in pectore del Granducato di Toscana fin dal 1800, rientra a Firenze il 15 settembre 1814, dopo la prima abdicazione di Napoleone, bene accolto anche dai sudditi di Monsummano – che dopo la parentesi francese, è tornato a far parte del Granducato e così resterà fino alla metà del XIX secolo – memori della saggia e illuminata politica del padre Pietro Leopoldo.

Il Granducato di Toscana secondo l’accezione diffusa in Europa veniva considerato, come il porto della pace sociale per le masse e la culla di un bonario, illuminato dispotismo per le classi privilegiate, in un contesto protetto di equilibrio, legato all’eccellenza del patto sociale-economico della mezzadria, esempio allora di sintesi positiva fra lavoro e capitale.
Il moderatismo risorgimentale toscano, egemone nella regione, fu capace di rappresentare una sorta di filtro delle idee che travagliavano la penisola, così da consentire in modo naturale e indolore la transizione unitaria nel 1859-60.
Vi fu in Toscana anche un radicalismo politico, manifestatosi in diversi momenti, di varia durata e profondità, in particolare nella stagione democratica del Quarantotto e poi soprattutto nella nascita e negli sviluppi, alla fine del secolo, delle organizzazioni sindacali, mutualistiche, cooperative e politiche, socialiste e cattolico-democratiche. Poi, durante il fascismo e soprattutto nell’immediato  dopoguerra si verificherà nelle lotte mezzadrili quell’incontro tra mondo operaio e contadino che determinerà il “carattere rosso” della regione.
Ma questa è un’altra storia, anche se certo non scissa da radici, orientamenti, modi d’essere che risalgono indietro nel tempo.

Pietro Leopoldo aveva ripreso e portato avanti un programma di riforme, nel quadro di un progetto complessivo di trasformazione dello Stato e della società toscana, aperto largamente alle suggestioni e all’influsso della più avanzata cultura  politica ed economica europea. Sono soprattutto gli interventi in materia di libero-scambio e quelli in materia di legislazione criminale – con il nuovo codice penale del 1786, che aderendo alle idee illuministe di Cesare Beccaria, abolisce per la prima volta in Europa la pena di morte e la tortura – che contribuiscono, in patria e all’Estero, alla creazione duratura del mito leopoldino.

Giuseppe Giusti apprende i fondamenti della cultura di base da un sacerdote di Montecatini. Si trasferisce quindi all’Istituto Zuccagni di Firenze, dove il maestro Andrea Francioni riesce a motivarlo profondamente al sapere. A causa della chiusura dell’Istituto il Giusti passa al Seminario di Pistoia prima e al Collegio dei Nobili di Lucca dopo.

Sotto il governo di Leopoldo II inizia nella regione un periodo di tranquillità e sviluppo economico che permette a intellettuali e scrittori come il Giusti di esprimersi liberamente. Alla considerazione dell’ambasciatore austriaco In Toscana la censura non fa il suo dovere il Granduca risponde Ma il suo dovere è quello di non farlo.
A questo proposito è opportuno ricordare che la satira insita nella composizione Il Re Travicello in un primo momento provoca l’ira del Granduca, perché dai più ritenutone l’oggetto.
Atteggiamento più tardi modificato dal Granduca stesso in sintonia del resto con l’ampia condivisione manifestata dal popolo: i versi vengono percepiti nel significato originale dell’intendimento, cioè come uno “scherzo”. Dietro ad esso tuttavia si cela per il poeta la verità.
Nel novembre del ’26 Giusti inizia a Pisa gli studi di giurisprudenza con scarsi risultati al punto che il padre lo richiama a Pescia, dove nel frattempo la famiglia si era trasferita e dove egli resterà per tre anni fino al suo rientro all’Università.

Il Giusti, di animo generoso e mite, nelle sue epistole spesso lamenta che, per quanto le condizioni economiche della famiglia fossero agiate, il padre lo privasse di denaro e di affetto.
Il primo grave scontro con l’Autorità di cui si ha notizia (Epistole 1, pg. 117) è del 1833: Giuseppe Giusti è convocato da un auditore di Pisa per certi schiamazzi politici e sospeso dall’esame di laurea per quell’anno.
Sono i debiti contratti e le leggerezze mondane che gli negano la simpatia e l’appoggio del padre. Molto diversi sono i rapporti con la madre, con la quale la solidarietà affettiva è assai forte: a questi presupposti si deve probabilmente anche la ragione di un animo schivo e ombroso, sfiduciato, scettico riguardo ad una reale possibilità di intervento nelle vicende storiche, politiche e sociali del suo Paese. L’elemento malinconico viene a controbilanciare nel carattere del Giusti quello burlesco, come egli stesso confessa in una lettera al maestro Andrea Francioni. Proprio questa malinconia di fondo caratterizzò la sua vita; né gli amici assai numerosi né la buona condizione economica poterono mai annullarla.

Nel 1834 finalmente si laurea.
Dobbiamo ricordare che proprio all’Università di Pisa si formarono quei ministri, funzionari e tecnici esperti, che ritroviamo come collaboratori di Pietro Leopoldo. Ho già accennato al fatto che il Granduca svolge con convinzione una politica di rinnovamento dello Stato attraverso una serie organica di riforme, come ad esempio la libertà di commercio, la limitazione della manomorta, l’abolizione delle corporazioni, il chiarimento del patto mezzadrile, il rinnovamento dell’amministrazione locale, il progetto di Costituzione. In questo contesto la struttura socio-economica della Toscana conosce, tuttavia, variazioni di rilievo meno rapide di altre realtà italiane. In particolare nel settore agricolo, nonostante il tentativo di migliorare le condizioni dei contadini, il sistema di conduzione dell’azienda resta quasi esclusivamente ancorato alla tradizionale mezzadria. I proprietari terrieri, appartenenti al patriziato cittadino e in minor misura al ceto borghese, seppur interessati allo sviluppo delle tecniche agricole, sono sostanzialmente incapaci di compiere o, comunque, di favorire una trasformazione capitalistica dell’agricoltura, paragonabile a quella che allora si stava iniziando in gran parte della Lombardia.
Si ha qui insomma una prima frattura tra compromesso sociale e sviluppo, che finirà per rendere iniquo e non più sopportabile quello spesso compromesso.
E’ sotto il governo di Leopoldo II che riprende il dibattito per il rinnovamento del sistema di conduzione agrario nella sede prestigiosa dell’Accademia dei Georgofili, sorta al tempo di Pietro Leopoldo. Contestualmente al tema della mezzadria, l’Accademia affronta quelli della ristabilita libertà di commercio, del credito, della modernizzazione dell’agricoltura e dell’istruzione agraria, confermandosi luogo di notevole scambio culturale e di messa a punto di idee, strumenti, programmi di azione economica. Svolge insomma una funzione determinante di aggiornamento, di circolazione di idee, di esperienze internazionali e di stimolo alle innovazioni produttive. Il dibattito si allarga quando i riflessi della rivoluzione industriale si diffondono anche nell’Italia centrale.
Si consolida complessivamente nel Granducato un’atmosfera di controllata apertura nel quadro tuttavia dei piccoli Stati, ormai anacronistici in Europa, e di un dispotismo per quanto illuminato: tutto questo comprime in parte l’importanza e l’efficacia del riformismo in economia e della tolleranza nella vita culturale. Con questi limiti, non certo irrilevanti, prevale uno spirito riformatore prudente e moderato.

Si tratta di un periodo di transizione. La piccola e media borghesia si va formando e va acquistando coscienza delle proprie esigenze politiche e sociali, all’interno di un liberalismo moderato e unitario, sempre più convinta che solamente la distruzione dei vecchi Stati con le loro antiquate organizzazioni politiche di privilegi e di economia, avrebbe potuto determinare migliori possibilità di sviluppo.

Questo in sintesi il tessuto storico-sociale in cui si colloca l’esperienza umana e letteraria di Giuseppe Giusti.

Unità, indipendenza e libertà proprie del movimento risorgimentale sono per il Giusti alcuni motivi ispiratori della produzione poetica. In alcuni suoi componimenti poetici egli canta infatti sia l’una che le altre: ne Lo Stivale, ne L’Incoronazione, ne La Terra dei morti, vuole  anche spronare gli infiacchiti animi italiani all’azione e alla speranza, rimproverando in altri componimenti, principi e nobili degenerati, borghesia boriosa e sciocca, e popolo pitocco. Castiga con la sferza del ridicolo (sicuro che di nessun autore suo contemporaneo sono così ricercate e avidamente lette le opere) una serie di tipologie umane e di situazioni ideologiche e comportamentali a suo dire responsabili delle carenze storiche, economiche e sociali del suo tempo. Basti pensare al materialismo in A San Giovanni, alla disonestà di lavoratori e professionisti sia pubblici che privati nella Legge penale per gl’impiegati e nel Gingillino, al sensale di impieghi e affari, opportunista e voltagabbana che segue il vento e ne trae profitto ne Il Brindisi di  Girella, ai pregiudizi popolari ne Il Sortilegio e nell’Apologia del Lotto.
Così preludeva Giuseppe Giusti ai nuovi tempi e invocava – secondo il suo modo di essere e di intendere il ruolo stesso di letterato – l’alba del Risorgimento nazionale.

Fu un artista colto, esperto nella cultura classica e nella tradizione letteraria. Nelle sue poesie fa il ritratto canzonatorio del potente, ma non offre una parola di conforto al povero. Questa osservazione critica a me pare, come semplice lettore, convincente e condivisibile. Non fanno parte del suo retroterra poetico l’impegno civile e la partecipazione emotiva che riuscirono a dare risalto, ad esempio, nei lavori di Gioachino Belli a quella plebe, che fino ad allora non aveva mai avuto voce. Giusti da un lato può apparire distaccato, dall’altro non fa mai demagogia, non si abbandona a facili utopie e non ha la presunzione di dire qualcosa alla gente, che soffre e fatica.
I poemetti satirici dei suoi “Scherzi” sono stati riconosciuti pregevoli all’unanimità, hanno avuto vasti consensi sia all’epoca, sia nel’900.
Anche se, come ho già detto, in diverse sue liriche si può identificare il carattere risorgimentale, Giusti non fu un mazziniano, perché timoroso del popolo e di eventuali insurrezioni popolari. Sono comunque costanti nei suoi versi l’avversione per lo straniero conquistatore ed il patriottismo. Difficile collocarlo politicamente. Fu davvero un liberale singolare in quell’ epoca: nè un neoguelfo alla Gioberti, nè un federalista come Cattaneo. Il Guerrazzi, suo avversario politico, disse di lui che scardinò lo stabile della società del tempo, avendo però paura dei calcinacci.
Ancora da lettore, tra i versi di poesia satirica che divertono di più vi è l’ “Apologia del lotto”, che tra l’altro è ancora straordinariamente attuale!  Giusti decanta i pregi del lotto, tra cui diventare signori con pochi soldi, far fare studi approfonditi sull’interpretazione dei sogni. Come se non bastasse scrive che il Lotto è l’unica fede rimasta al popolo e che giocando non si rischia la libertà, come invece accadde a Galileo che fu processato per aver professato la verità nell’ambito scientifico. Ma leggendo tra le righe, si capisce che lo Stato non perde mai e che chi è contento della sua condizione economica non gioca di certo al lotto. Potrebbe essere scritto oggi, per alcune trasmissioni televisive.

A questo si aggiunge anche il fatto che la piccola provincia toscana, sicuramente concreta e determinata, è  anche estremamente chiusa, luogo in cui le trasformazioni sociali e politiche avvengono in forma aneddotica. Per questo le figure del Giusti assumono le proporzioni un po’ limitate di un’esistenza casalinga, appena sfiorata dalle grandi rivoluzioni economiche che l’Europa sta attraversando e dove anche la rivoluzione risorgimentale finisce con il ridursi ad una forma di prudente disponibilità troppo diffidente di idee, di slanci e di iniziative profondamente innovatrici.

La poesia del Giusti, rifacendosi alla tradizione toscana burlesca e satirica e forte di una grande abilità anche tecnica, pur nei suoi limiti di profondità, riesce a disegnare un quadro dettagliato della Commedia Umana del primo Ottocento italiano. Se da una parte si accentra intorno agli argomenti più propriamente politici dell’assolutismo, dell’urgenza delle riforme, del movimento risorgimentale e liberale è anche molto attenta a cogliere, attraverso la satira, i caratteri e i personaggi di una società in fermento e in trasformazione, colpendo con acutezza gli inganni e gli aspetti ridicoli del vecchio mondo dei piccoli Stati, proprio dalla sua prospettiva di provincia.

Pur non avendo mai esercitato la professione legale Giusti gode di una condizione economica soddisfacente: infittisce corrispondenze e rapporti personali. Gino Capponi, esponente del liberalismo toscano e direttore del Gabinetto Viesseux, gli offre un trampolino di lancio sociale e letterario: siamo nel 1844, appaiono le prime stampe delle poesie giustiane; da questo momento Giusti desidera oltrepassare i confini della regione e conoscere il mondo, si reca a Roma, a Napoli e a Milano dove è ospite di Alessandro Manzoni: il nuovo indirizzo dell’ispirazione poetica e l’impegno nella vita privata cooperano con gli avvenimenti politici. Nel settembre 1847 entra a far parte col grado di maggiore nella guardia civica; nel giugno del 1848 viene eletto deputato nel collegio della Valdinevole e partecipa alla prima e alla seconda legislatura appoggiando i governi moderati del Ridolfi e del Capponi, attirandosi il biasimo della stampa di sinistra che lo accusa di essere un rinnegato. Nel ’49 non riesce ad essere eletto all’Assemblea costituente indetta dal governo democratico di Francesco Domenico Guerrazzi: la calata degli austriaci nel maggio dello stesso anno pone fine ad ogni sua attività politica. Nel frattempo lo stato di salute, già precario, si va deteriorando insieme con la crescente amarezza per gli eventi pubblici. Muore improvvisamente il 31 marzo 1850 in Palazzo Capponi a Firenze, dove si era da tempo ritirato. Nell’amarezza di lasciare l’Italia ancora schiava degli austriaci quando l’aveva trovata in servitù dei francesi.

La sua produzione poetica è vasta ed originale. Tocca gli argomenti più disparati. Spazia dall’ambito politico-sociale a quello storico. Le sue rime non sono mai scontate. Come è stato scritto,  e questo a me pare il giudizio più vero, Giuseppe Giusti è uno dei pochi poeti italiani di tutti i secoli che sappia sorridere senza accantonare la tragicità, il sentimento umano che la tragedia esprime.