Il «partito personale» di Di Pietro è un’incognita
Sinistra e libertà potrebbe confluire nei democrat

ROMA – Dal bilancio sul congresso del Partito democratico alle prospettive della segreteria di Pier Luigi Bersani. Dalla scomposizione e ricomposizione del centrosinistra al superamento del bipolarismo immaturo. Dalle grandi riforme alle prospettive del post-berlusconismo. Sono le tappe principali di un percorso che Vannino Chiti traccia in un momento cruciale per il suo Pd. I gazebo delle primarie sono stati smontati da soli quattro giorni. Il 7 novembre il nuovo leader detterà la sua linea politica. In queste ore si stanno “limando” le fondamenta di un progetto
che vuole guardare molto lontano. I ragionamenti del vicepresidente del Senato trasmettono la convinzione che “le cose” siano in movimento, che si sia innescato un effetto domino che possa portare novità positive per la salute dell’Italia.
Chiti non ha dubbi su quale sia stato il primo tassello che cascando ha innescato il meccanismo virtuoso.
«Il bilancio del nostro congresso è molto positivo, lo dicono i numeri. Alla prima fase, quella riservata agli iscritti, hanno partecipato quasi 500.000 persone. La fase finale ha portato al voto oltre tre milioni di persone: è stata una prova straordinaria di partecipazione e di sostegno al progetto del Pd. Detto questo ritengo che le regole che ci siamo dati per lo svolgimento dei congressi presentino delle difficoltà e penso che dovrebbero essere riviste».

Cosa si aspetta dal discorso che Bersani pronuncerà il 7 novembre?
Una messa a fuoco netta della linea che è contenuta nella sua mozione. Non credo che ci saranno invenzioni del giorno dopo. Durante la fase precongressuale ha ripetuto più
volte che un segretario è forte se non è solo, e non si è soli non soltanto se si hanno accanto gruppi dirigenti e organismi che funzionano, ma anche se ci sono strategie politiche e priorità programmatiche fortemente condivise da dirigenti ed elettori.

Citiamone alcune…
Penso che Bersani insisterà su tre aspetti: sulla centralità della crisi economica, che non è passata e che sta determinando proprio in questi giorni colpi durissimi all’occupazione. Poi sul tema di una nostra impostazione per una riforma delle istituzioni democratiche. Infine sulla costruzione del Pd in quanto partito, un organismo che deve saper padroneggiare anche le nuove tecnologie dell’informazione, ma per metterle al servizio di un partito che vuole essere di popolo e radicato fortemente nel territorio.

Questo congresso passerà alla storia come l’inizio della fine del bipolarismo italiano o come il momento di definitiva maturazione del bipolarismo stesso?
Penso che il bipolarismo sia un tratto irreversibile e positivo delle democrazie moderne. Il problema non è quello di abrogarlo, ma di farlo vivere senza una contrapposizione permanente tra gli schieramenti. In Italia non abbiamo e non avremo mai un sistema a due partiti. Nel nostro Parlamento potremo contare sempre 4-7 partiti, come accade in tutti i Paesi europei compresi nell’Unione. In questo quadro bipolarismo significa semplicemente che un cittadino, quando va a votare, decide la maggioranza di governo che avrà la responsabilità di governare. Ciò non vuol dire che le stesse forze staranno sempre insieme, in qualsiasi Comune, in qualsiasi Provincia, in qualsiasi Regione o a livello nazionale. Potrà accadere che in determinate legislature, a seconda delle priorità che si condividono, ci saranno alleanze con alcune forze e altre che vedranno collocazioni diverse. L’importante è che si sappia esattamente la proposta di alleanza prima che si vada al voto.

Il Pd ha bisogno di un partito di centrosinistra con il quale interloquire?
Il Pd ha bisogno di un campo di alleanze. In questo perimetro potrebbero potenzialmente collocarsi quattro forze.

Quali?
Il Pd, la sinistra non ideologica che si vuole spendere per il governo, l’Idv e l’Udc. Cosa succederà tra queste forze e come si configurerà l’alleanza fra tutte o una parte di esse resta legato alla condivisione delle priorità, vere e chiare, dell’azione di governo. Per esempio, se Sinistra e libertà non riesce a unirsi e a consolidarsi, come i socialisti italiani, penso che una prospettiva possa anche essere quella di stare all’interno del Pd, che è nato per essere la casa comune dei progressisti italiani. Il tempo dirà se ci sono le condizioni per un’alleanza o per stare insieme e fare con altri un’alleanza.

In questo caso il ruolo del partito “populista” potrebbe essere ricoperto dall’Idv di Di Pietro, magari alleato al Prc di Ferrero?
In un recente dibattito Ferrero ha sostenuto questa posizione: a livello nazionale per noi non c’è volontà di presentarci con un alleanza Prc-Pd, a livello locale il discorso è diverso. Ovviamente questa è una posizione che sceglie la testimonianza ideologica e non rappresenta la strada che si può immaginare per governare l’Italia.
Se l’Idv scivolasse su tali posizioni compierebbe una scelta che vedrei negativamente.

Crede che seguirà questo destino?
Il problema dell’Idv è che nonostante la crescita alle europee è rimasto un partito “personale”. I voti non si tengono insieme con un partito personale: o si diventa un partito politico e si costruisce con stabilità qualcosa che sia sottratto agli umori quotidiani del leader o non si va da nessuna parte. Per quanto mi riguarda penso che nessuna alleanza di governo possa essere fatta con forze che cedono al populismo, che è uno dei grandi nemici della democrazia rappresentativa.

L’asse fra Pd e Udc non romperebbe l’equilibrio bipolare del Paese?
No, perché l’equilibrio bipolare non è dato dalla presenza di due soli partiti, bensì da schieramenti che dichiarino prima del voto su cosa e perché si alleano. È evidente che uno schieramento formato da una sinistra, dal Pd e dall’Udc sarebbe alternativo al Pdl e alla Lega, soprattutto se la Lega confermasse questo suo essere una costola permanente della destra.

Come e quando inizierà la stagione delle grandi riforme?
In primo luogo è necessario un clima politico diverso da quello attuale, più rispettoso anche laddove esistano divergenze storiche, e l’onere di favorirlo spetta alla maggioranza. Serve confronto, non un Parlamento dove si sommano decreti a colpi di fiducia. Secondo aspetto: non si può vedere il tema delle riforme come plasmato sulle esigenze dei leader della maggioranza. Bisogna avere un confronto reale che metta sul tavolo i temi del cambiamento delle istituzioni, della legge elettorale e della giustizia.

Nel concreto come si potrebbe agevolare questo meccanismo?
Se si ritiene necessario si potrebbe nominare, con una scadenza al massimo annuale, una convenzione composta di esperti, per poi tornare in Parlamento con una proposta definita, cercando di ridurre al minimo la possibilità di emendare. Ma oggi le difficoltà sono altre. La maggioranza è divisa sul merito e sul metodo con cui fare le riforme, è unita solo nel privilegiare i temi cari al suo leader.

Se domattina Silvio Berlusconi lasciasse la politica le riforme di cui parla si farebbero in tempi brevi?
Le rispondo in modo oggettivo: credo che Berlusconi, che è stato il grande protagonista di questa lunga transizione della nostra Repubblica, adesso sia diventato l’ostacolo alla conclusione di questa transizione. Quindi le dico di sì: credo che il compimento di un percorso riformatore sarebbe più facile.

Nicola Maranesi