Pistoia, 21 settembre 2009

La prima considerazione che voglio fare è che sono d’accordo con quanti hanno sostenuto, anche nel corso di questo Convegno, che oggi siamo di fronte a una crisi dei valori. E’ questo un tema di cui si è parlato molto durante il dibattito odierno. La crisi dei valori non dipende dalla cattiveria delle persone di questo secolo ma dal fatto che la società si sta modificando nei suoi fondamenti. Di fronte a questi cambiamenti possiamo rispondere in parte confermando determinati valori, in parte ricostruendoli. Occorre dare vita ad una nuova cultura politica, non soltanto in Italia. La costruzione di una nuova cultura politica, che ruoti intorno ad alcuni punti essenziali, non dovrebbe obbligatoriamente riguardare i programmi di governo.
Dovrebbe essere condivisa dai cittadini, prima delle loro scelte di schieramento politico: questo almeno per alcuni principi che fondano la convivenza, ne rappresentano un minimo comune denominatore.
Se alcuni valori, presenti nella Costituzione, vengono condivisi da un vasto arco di forze democratiche è un fatto positivo per il Paese. Naturalmente ci sono valori più specifici che fanno parte di una cultura politica più legata ad uno o all’altro schieramento. In questo senso la contaminazione non solo è necessaria, ma è addirittura insufficiente. Alcune riflessioni presenti nel dialogo precedentemente citato fra Habermas e l’allora cardinale Ratzinger, hanno suscitato in me un grande interesse. Mi riferisco alla consapevolezza espressa nel testo che neppure l’incontro fra ragione secolare e ragione religiosa, così come lo abbiamo sperimentato in questa parte del mondo, sia oggi sufficiente a unire l’intera umanità. Dobbiamo avere la consapevolezza che, non soltanto è necessario il confronto tra culture, il loro incontro sull’esempio della Costituzione italiana, ma addirittura occorre uno sforzo maggiore perché, nessuna delle nostre culture è da sola in grado di gestire le sfide che abbiamo di fronte. Dobbiamo cercare di realizzare sia nel nostro Paese, dove abbiamo maggiori responsabilità, che nella comunità mondiale, un’etica condivisa da laici, credenti e diversamente credenti. A me piace questa espressione del cardinal Martini, perché ritengo sia possibile avere un’etica condivisa da tutti coloro che potremmo definire “uomini di buona volontà”.
La seconda considerazione ha a che vedere con il terreno sul quale costruire una nuova cultura politica. Sono rimasto molto colpito dall’ultima Enciclica di Benedetto XVI. In essa varie questioni sono di enorme interesse. Ne sottolineo una che, per una cultura progressista e di sinistra, non è di poco conto. Perché si tratta di un’Enciclica che parla davvero a tutti.
Il tema che voglio porre all’attenzione riguarda la crisi che sta investendo il mondo, di fronte alla quale l’Enciclica afferma importanti elementi di novità culturale come il fatto che non si può accettare un’economia nella quale prevalgano il profitto fine a se stesso, realizzato in qualsiasi modo, gli egoismi territoriali e individuali. E ancora il fatto che non si può restare legati ad una idea di welfare del risarcimento che operi la redistribuzione con risorse residuali, oltretutto sempre decrescenti, ma che bisogna realizzare il nuovo welfare della uguaglianza delle opportunità.
La vecchia visione, che è durata per molto tempo, per noi progressisti, riformisti di sinistra, corrispondeva a quella fase della storia del mondo in cui l’economia ruotava intorno alle grandi industrie, con le catene di montaggio che proiettavano nella società determinati valori e ideologie. Era la fase del taylorismo-fordismo, come gli storici ci ricordano. Quelle fabbriche oggi non ci sono più, come non ci sono più le attività lavorative ad esse legate. A questo proposito ricordo che da giovane mi capitava di andare alla Breda – fabbrica molto conosciuta a Pistoia – e di vedere in ogni reparto cento, duecento, tute blu. Oggi i lavoratori della Breda hanno sempre le tute blu ma non sono più centinaia per reparto e non lavorano più alla catena di montaggio: lavorano diversamente, rispetto a prima sono più specializzati, utilizzano i computer e altri strumenti ancora.
Naturalmente il tema del lavoro è molto ampio e non comprende soltanto questa problematica: si deve anche considerare il tema della mancanza del lavoro, della crisi economica e dei licenziamenti. I licenziamenti, come le mancate assunzioni, non dipendono esclusivamente dalla crisi ma spesso dalla competizione internazionale, dalla globalizzazione senza regole. Così come non bisogna chiudere gli occhi di fronte a tanti precari, spesso giovani neppure in condizione di formarsi una famiglia, o all’esistenza di tanti lavori esecutivi, monotoni, che a volte non rispecchiano la formazione delle persone e mai contribuiscono ad arricchire di senso la vita.
La società italiana è chiusa, corporativa: pesano sul futuro di ognuno le rendite di casta e di nascita.
Abbiamo la necessità di realizzare una società aperta, socialmente dinamica e giusta, che consenta alle persone di provare a realizzare se stesse.
Ma, riprendendo il ragionamento, al tipo di società che ho descritto prima, corrispondeva un welfare che aveva il compito di risarcire dai rischi che le persone correvano. In questo contesto le grandi categorie e organizzazioni sindacali avevano un grande peso.
Nell’Enciclica c’è anche una rivalutazione dei sindacati che io considero giusta.
I sindacati oggi debbono ripensare il proprio ruolo rispetto ai cambiamenti della società, ai bisogni di chi lavora e di chi non lavora. Oggi il sindacato rischia di rappresentare solo coloro che nel mondo del lavoro non ci sono più. E’ questo un tema rilevante sia per il sindacato che per la politica: riguarda  – lo ribadisco – la costruzione di un welfare delle uguali opportunità, diverso da un welfare del risarcimento, sia nell’organizzazione che nei principi. Questo, a mio avviso, è un punto decisivo, su questo occorre capirsi bene: oggi una battaglia per andare in pensione a 58 anni invece che a 65 non è più una rivendicazione avanzata. È certo giusta l’aspirazione a godere di una pensione dignitosa e conosco i sacrifici di quanti hanno iniziato a lavorare molto giovani. Ma occorre pensare anche in questo caso al bene comune, all’interesse collettivo: si è di fronte – ed è un fatto positivo – all’aumento  dell’età media delle persone. Vi è il rischio di pensioni indecorose e i nostri figli  forse neppure potranno averle. Oggi è avanzato, per il Paese, pretendere che le risorse recuperate attraverso risparmi e sacrifici vengano utilizzate in una certa direzione: istruzione, formazione, un nuovo assetto del mercato del lavoro, sanità. Questo vale ancora di più se si considera che le risorse non sono illimitate e l’Italia ha due enormi problemi davanti a sé: uno riguarda la spesa pubblica e l’altro la divisione territoriale tra Nord e Sud e del Paese.
La visione che deve guidarci – come già affermava la Costituzione precorrendo i tempi – è quella che pone al centro la persona, con la sua libertà e responsabilità. Da questa impostazione occorre partire per  ricostruire e definire il bene comune. Naturalmente serve coerenza, da parte della politica, ma anche – mi permetto sommessamente  di dire – da parte della Chiesa. Mi domando: questa Enciclica farà la fine del libro bianco di Delors, cioè sarà applaudita e collocata negli scaffali delle biblioteche  oppure servirà da orientamento per l’istituzione Chiesa e per i cattolici laici impegnati in politica o nel sociale? Questo è il punto.
La terza questione riguarda la laicità. Nel nostro Paese abbiamo bisogno di un ruolo diretto della Chiesa cattolica e delle confessioni religiose per affrontare le grandi sfide che la politica da sola non è in grado di vincere. Ritengo, ad esempio, che il tema dell’immigrazione non possa essere affrontato dalla politica senza questo aiuto, in quanto c’è bisogno di affermare, da un punto di vista culturale e nei comportamenti, il ruolo di ogni persona, anche se diversa da noi per il colore della pelle, la scelta della solidarietà e dell’accoglienza. Occorre una rivoluzione culturale che venga  prima della legislazione. Le leggi fatte nel  nostro Paese dalla destra sul tema dell’immigrazione sono barbare e ingiuste. Mi preoccupa il fatto che in Italia ci siano forze, presenti anche nel governo, che ritengono ancora corretto, come principio regolatore della convivenza, lo ius sanguinis, il diritto di nascita, anziché lo ius soli, il fatto di vivere in un territorio, di abitarvi in modo legale.
Questo punto è discriminante, viene prima di ogni altra cosa, prima di ogni ragionamento sugli strumenti da utilizzare per risolvere ad esempio, come va fatto, il problema della immigrazione non regolare. Perché non può esserci disaccordo, come invece accade oggi, sul fatto che una persona non nata in Italia ma che vive legalmente nel nostro Paese, debba avere determinati diritti e doveri.
Su questo bisogna intervenire, come è scritto anche nell’Enciclica, così come su altri temi: la pace, la povertà e attorno a tali questioni il ruolo della Chiesa cattolica, in tante parti del mondo, è decisivo.
Come potete vedere, per me, non soltanto le Chiese hanno il diritto ad una presenza nella sfera pubblica: la fede religiosa non è un fatto privato. La mia convinzione è che di questa presenza e contributo abbiamo bisogno, per umanizzare le nostre società.
La società e le relazioni internazionali sono organizzate da secoli intorno al binomio amico-nemico. Una discussione su questo aspetto durerebbe a lungo, in questa sede mi limito soltanto a porre la tematica.
E’ questa cultura che bisogna cambiare. Anche in questo caso è necessario un mutamento talmente profondo che non può essere realizzato soltanto  da una politica che pure abbia in sé valori forti.
Bisogna costruire una nuova etica per la comunità mondo, che unisca e non divida: è impensabile riuscirci senza un ruolo significativo e convinto delle fedi religiose. Le sfide di fronte all’umanità – sviluppo, ambiente, democrazia, pace – richiedono di avere a fondamento comune dei valori condivisi.
L’ultima considerazione, che è stata posta anche da padre Sorge, è legata alla politica italiana: le questioni concrete devono convivere con la discussione sui valori. Una delle scelte  di cui sono convinto, per niente pentito, è quella di avere votato contro l’attuale legge elettorale, il cosiddetto “porcellum” . Il fatto che tale legge rimanga in vigore – e non so se riusciremo a cambiarla prima delle prossime elezioni – è certamente negativo. Non c’è dubbio che il Parlamento stia subendo la sorte di una progressiva emarginazione politica. Io sono stato deputato per la prima volta dal 2001 al 2006, all’opposizione come oggi, ma il Parlamento di allora non era il Parlamento di oggi. Si discuteva, ci si confrontava, talora con durezza ma non con indifferenza. Un’istituzione nella quale c’è scarso dialogo, poca attenzione (non dico che sia possibile convincerci l’un l’altro a votare in modo diverso, una cosa sempre difficile ma almeno ascoltarsi con rispetto), un Parlamento nel quale il confronto perde di importanza e che non esercita un ruolo incisivo di controllo viene di fatto svuotato.  Nelle Commissioni stesse la maggioranza va per garantire il numero legale che permette di procedere, ma non c’è dialogo. Mi è capitato di presiedere l’Aula del Senato quando si discutevano i provvedimenti sulla sicurezza: furono presentate ventitre mozioni di incostituzionalità, senza che fossero realmente ascoltate. I parlamentari della maggioranza vennero solo al momento del voto: nel dibattito saranno stati presenti una decina.
Penso che quello della legge elettorale, quello del rapporto tra Parlamento-cittadini-territorio e Parlamento-Governo siano temi decisivi. L’Italia deve essere fondata, come altri paesi, su istituzioni più vicine ai cittadini, deve essere accresciuto il ruolo di Comuni e Regioni. Ma per poter dare più coesione – per avere un paese più moderno e più unito – non possiamo fare finta di non sentire o di non vedere chi quotidianamente, addirittura dall’alto di una responsabilità di governo, sferra colpi all’idea dell’Italia come Paese unito. Questo è un fatto grave. Come è grave fare finta di non ascoltare, di non sapere, di non vedere. Il dualismo territoriale Nord – Sud esiste, ma noi dobbiamo dare vita ad uno sviluppo in cui si affermino tutte le potenzialità. L’Italia è un solo paese, unito da nord a sud.
Ho già parlato del nuovo welfare e dello sviluppo sostenibile, vorrei concludere parlando del tema del bipartitismo che è stato sollevato nella discussione di oggi. Sono d’accordo sul fatto che dobbiamo dire no al bipartitismo.
Non credo che il bipartitismo rappresenti, per l’Italia, la soluzione dei problemi. Certo non è che all’ordine del giorno oggi. Anche negli altri paesi europei sono poche le esperienze di bipartitismo puro. In fondo non esiste nemmeno in Gran Bretagna. Affermare questo non vuol dire che debbano esistere ventidue partiti in Parlamento, come è stato nel 2007, ma vuol dire pensare a grandi forze politiche, in coerenza con quanto avviene negli altri paesi europei. Deve esserci un equilibrio tra rappresentanza e governabilità. Il pluralismo politico non si racchiude in due partiti, ma in cinque – sette, come da questo punto di vista oggi effettivamente si ha in Parlamento.
Il bipolarismo per me consiste nell’indicare, prima delle elezioni, le alleanze e i candidati destinati alla guida del governo. Non coincide dunque con il fatto che si debba stare sempre insieme. In caso contrario è inutile parlare di bipolarismo mite o di voler davvero superare le contrapposizioni frontali e continue di questi anni. Il problema è quello di dar vita ad un campo di alleanze, al cui interno poi i programmi, le priorità, definiranno le coalizioni di governo. Naturalmente oltre alle priorità, vi sono alcuni valori sui quali si deve poter convenire: si può non concordare su singole impostazioni, purché si convenga senza ambiguità sulla laicità. La laicità è diventata un aspetto cardine nelle moderne democrazie. Infine, per dirla in modo esplicito,  sono convinto, e non da ora, che Pd e Udc si collochino nel campo delle alleanze possibili. Questo non significa – come ho già detto –  che le alleanze diventeranno automaticamente coalizioni di governo: conteranno le priorità programmatiche, la condivisione vera di un progetto.
In ogni caso, francamente, non vedo quale altro tipo di risposta oltre a quella di un asse di governo Pd-Udc potrebbe essere in grado di dare all’Italia un elemento di stabilità, di pacificazione, insieme alla capacità di costruire, senza avventure, un futuro di modernizzazione che si sposi strettamente con la giustizia e con la solidarietà.
E’ questo un progetto politico per il quale ci dobbiamo impegnare. Per questo abbiamo il dovere di ricercare le ragioni di un’intesa.