Se vogliamo che il congresso sia “utile” al PD e quindi al paese, dobbiamo riuscire a focalizzare il dibattito sul punto cruciale su cui abbiamo fallito nel corso di questi venti mesi: la “costruzione” della vocazione maggioritaria del partito, ovvero della sua capacità di trovare sintonia e relazione con il main stream della società italiana, col sentire comune di quegli ampi settori di opinione pubblica che debbono e possono essere parte di un progetto innovativo fondato sull’idea di responsabilità.
Superando lo schema: “pensiamo prima ai nostri” che è stato utilizzato ed applaudito in questa ultima campagna elettorale ma che fotografa il PD nel suo punto più basso.
Per far questo il dibattito congressuale deve evitare il rischio, purtroppo già presente, di una discussione astratta che rischia alla fine di essere puramente nominalistica, sull’alternativa tra partito di sinistra e di centrosinistra, su chi è più bipolarista e chi lo è meno.
Il cuore del problema del PD non è di natura politologica, ovvero quanto risulti fedele a formule astratte, ma è quanto cambiare per dire cose convincenti.
Nessuna enfasi maggioritaria né una qualche tentazione proporzionalista possono cancellare la durezza e la corposità dei problemi con cui abbiamo a che fare per “costruire” la vocazione maggioritaria.
Se si guarda al contenitore invece che ai contenuti la vocazione maggioritaria si cancella a vantaggio della ricerca di quella o di talaltra variante del sistema istituzionale ed elettorale che più determini una rendita di posizione del PD però del tutta presunta.
In questo senso c’è nella mozione Bersani il riconoscimento che occorre partire da qui, dall’onesta ammissione degli ostacoli che si frappongono e dalla responsabilità e dall’umiltà che servono per costruire un moderno partito riformista. Naturalmente responsabilità e umiltà non possono significare ritorno indietro, debbono significare che la sfida per il socialismo liberale va declinata senza nominalismi, senza scorciatoie elettorali-istituzionali. Dobbiamo ancora conquistare il bipolarismo: perché esso sia davvero un fatto di sistema esso non può significare solo due schieramenti semplificati ma due proposte programmatiche, necessariamente vicine, entrambe mature per governare.
Oggi il punto politico per riprendere il cammino è quello di una soluzione di continuità con la fase di avvio del PD, con i venti mesi che abbiamo alle spalle, ovvero con quel mix di partito di immagine (rinnovamento senza politica) e riformismo debole che si traduce da un lato nell’imitazione di Berlusconi mentre il nostro problema era certo quello di una leadership autorevole ma non di una leadership solitaria cioè di fatto separata dal corpo del partito e dall’altro in un riformismo incapace di passare dal Lingotto alle aule parlamentari e alla società, incapace di tradurre cioè in battaglia politico parlamentare gli obbiettivi di rinnovamento di una società stretta anche da sinistra in una morsa corporativa.
C’è naturalmente sullo sfondo un problema che riguarda i ritardi della sinistra europea.
In Europa gli anni della globalizzazione hanno visto prevalere politiche di destra fondate sull’individualismo ma collocate dentro una cornice fatta di scelte nazionali e protezionistiche che hanno pesato più di quelle direttamente ispirate da logiche di mercato.
Alla crisi il centrodestra europeo ha risposto puntando ancor di più sull’elemento nazionale ma non dentro un modello unico: protezionismo ma con politiche destra-sinistra tipo Sarkozy, un mix stato mercato con una sostanziale ripresa dell’economia sociale di mercato, politiche mai piattamente conservatrici.
La sinistra ha invece giocato un ruolo sostanzialmente subalterno e si è frantumata tra insostenibile continuità socialdemocratica e Blairismo con il suo privilegio alle politiche di pari opportunità che però falliva sul punto dello stato regolatore che invece è stato l’epicentro della crisi.
Più in generale a sinistra, con la parziale eccezione dei Verdi Europei, in risposta alla crisi rischia di delinearsi un ritorno statalista, un voler buttare il bambino del socialismo liberale con l’acqua sporca del mercatismo. Un ritorno giustificato dall’idea che l’eguaglianza delle opportunità non va più bene perché ci sono ancora troppe diseguaglianze: il problema è invece che in Italia, se ci rapportiamo all’Europa, non c’è nessuna (o quasi) eguaglianza delle opportunità e che la lotta alle diseguaglianze passa proprio per l’allargamento delle opportunità.
Il fatto è che in Italia, di fronte ai cambiamenti della globalizzazione la sinistra si è sostanzialmente chiusa nella cultura dei diritti ma in una accezione sostanzialmente rivendicativo corporativa ed è divenuta l’espressione, il punto di riferimento di minoranze. Da potenziale punto di riferimento di maggioranze sociali, la sinistra è passata a sentirsi rappresentante di qualsiasi minoranza i cui diritti sono certo inalienabili ma che vivono solo se entrano in relazione con le opinioni, i sentimenti, gli interessi di maggioranze magari silenziose che si coagulano su temi anche scomodi.
Valori come solidarietà, sussidiarietà o coesione sociale, non possono essere declinati solo sul versante dei diritti.
È stata una risposta difensiva che ha impedito ed impedisce di dialogare con una fortissima domanda di senso comune: pensiamo all’ordine e alla sicurezza, alla scuola, alla valorizzazione personale come esito di fatica e sacrificio, che non possono essere lette solo in chiave conservatrice o addirittura berlusconiana ma che sottintendono invece un ritorno all’etica del dovere e della responsabilità.
La cultura dei diritti è apparsa insomma molto distante dal mondo valoriale di quel moderatismo responsabile, di quell’Italia di mezzo che coniuga valori moderati e responsabilità e che resta il terreno decisivo di sfida per una sinistra moderna che non voglia accettare l’artificiosa divisione tra moderati e progressisti in cui sta non da oggi il cuore della propria minorità.
Coniugare diritti e doveri significa rompere la crosta corporativa, superare la dimensione rivendicativa, ritrovare il senso di una responsabilità nazionale capace di rimettere in moto un paese che resterà fermo fin quando prevarranno da un lato l’egoismo dei redditieri ma dall’altro l’egoismo di chi cerca di lavorare il meno possibile, di chi fa dell’andare in pensione con un anno di anticipo la propria battaglia di vita coprendo questi comportamenti sostanzialmente egoistici sotto la coperta di diritti inalienabili.
È questa l’unica chiave per avviare una vera strategia riformatrice ripartendo da Giorgio Amendola: “La contropartita (di una politica di responsabilità nazionale) non è qualcosa che altri dovrebbero concedere ma il raggiungimento di obbiettivi che prima di tutto interessano i lavoratori: la salvezza del paese e la continuazione del suo progresso.”
Pensiamo alle pensioni ed alla loro riforma: si può ragionare in termini di pensionamento flessibile ma nessun sistema previdenziale può evitare di avere un’età pensionabile di riferimento che, visto il costante innalzamento della speranza di vita, è opportuno che sia periodicamente  modificata. Assumere questa posizione non significa altro che guardare ai conti pubblici da una posizione di responsabilità nazionale.
Dobbiamo costruire una capacità dialettica con i nostri referenti sociali: minoritari e quindi troppo deboli e conservatori per poter essere potenzialmente maggioritari ma al contempo sufficientemente forti per tenere bloccata la sinistra. Referenti sociali, è bene sottolinearlo, che sono ben diversi (in qualche caso la caricatura) da quelli sui quali la sinistra, in anni ormai lontani dal secolo scorso ha costruito la propria piattaforma del progresso e dell’eguaglianza, come ci dimostra il voto operaio che ha voltato le spalle al centro sinistra.
Su questo punto decisivo nei 20 mesi trascorsi non è stata data battaglia politica ma è invece qui che si costruisce la vocazione maggioritaria.
Valgano alcuni esempi di issues programmatici. Anche stando all’opposizione, dobbiamo essere “percepiti” da quei larghi strati di opinione pubblica cui vogliamo guardare, come il partito di una spesa pubblica più efficiente che sposti l’accento dalla protezione di posizioni di rendita alla valorizzazione delle energie e alla fornitura di servizi di qualità. Il partito quindi della riforma della pubblica amministrazione centrata su efficaci e trasparenti meccanismi di valutazione.
Dobbiamo essere percepiti come il partito che punta alla qualità ed alla efficienza dei servizi pubblici nella convinzione che un “pubblico” che funzioni è la via per tutelare meglio gli strati più deboli ed indifesi della popolazione ed è allo stesso tempo l’unico modo per ridare competitività al sistema economico. Per questo dobbiamo essere il partito che si batte con coerenza perché i cittadini/utenti possano godere di un mercato effettivamente concorrenziale.
Dobbiamo essere percepiti come il partito che ascolta ma poi decide sulla localizzazione di un’opera pubblica o sulla ristrutturazione di un servizio, che sia capace di contrastare la deriva tutta italiana per cui un cambiamento è accettabile solo se riguarda gli altri, se è oltre i confini del mio territorio. Solo a condizione di un vero e proprio cambio culturale il PD può essere protagonista dell’indispensabile conversione delle istrutture sociali e produttive del Paese alla green economy.
Dobbiamo sempre aver chiaro che abbiamo voluto un partito nuovo per rafforzare la possibilità di un cambiamento in senso riformista della società italiana: un partito che utilizzasse lo strumento delle primarie nella convinzione che rivolgendosi ad una platea più vasta e quindi meno identificabile con le vecchie constituencies si potesse promuovere più riformismo. Ma il ricorso agli elettori può dare questo risultato, rompendo l’autoreferenzialità del partito delle minoranze, solo se la leadership, che deve avere un carattere collettivo, ha il coraggio e la responsabilità di scendere in campo mettendosi davvero in discussione. E’ questo che vorremo che emergesse con chiarezza nel corso del confronto congressuale: un’assunzione di responsabilità netta perché si torni alla politica e quindi alle differenze, alla dialettica che la politica fisiologicamente genera. Da questo punto di vista, è in primo luogo una battaglia culturale quella che occorre aprire nel PD. Non ci sarà un nuovo protagonista delle aspirazioni progressiste della società italiana se non sapremo superare l’idea forse comoda ma falsa di un PD come assemblaggio di due vecchie culture, quella socialdemocratica sostanzialmente di provenienza ex PC e quella cattolico democratica. Non c’è solo il limite dell’esclusione di altri filoni, di altre storie, quella socialista in particolare nei cui confronti non si è superata quella conventio ad excludendum, che era stata “esclusione” di scelte coraggiose per la modernizzazione, ma c’è soprattutto il fatto che facciamo riferimento appunto nel loro complesso a vecchie culture nate dentro un’Italia assai diversa da quella di oggi. Si tratta di culture alle quali era estraneo l’orizzonte dell’individualismo liberale che non ha niente a che fare con il neo liberismo e che non esclude la società ma semmai la affida per preservarla e migliorarla all’uomo appunto, all’umanesimo liberale e alle sue potenzialità individuali e solidaristiche. Senza questo cambio di orizzonte culturale continueremo a parlare agli stessi ma non riusciremo a parlare all’Italia reale. Anzitutto un’Italia che è profondamente laica: che ogni volta che è stata messa alla prova ha dimostrato di saper coniugare libertà e responsabilità.
Un’Italia capace di affrontare la sfida di una ridefinizione dell’idea di cittadinanza che per essere vincente e davvero inclusiva si deve accompagnare alla rimozione degli innumerevoli ostacoli a quella mobilità sociale che è bene primario della comunità. Nessuna soluzione puramente solidaristica può dare risposte alle tante questioni che pone una società multietnica se non si riuscirà a far funzionare l’ascensore sociale con politiche nuove anzitutto nel campo della formazione.
 La debolezza intrinseca che ha caratterizzato il PD si rivela anche da un altro punto di vista, dall’assenza di una prospettiva di sviluppo in grado di comprendere e ricomporre, le aspettative, le necessità e i problemi che la società pone.
La domanda contestuale, intimamente intrecciata, di protezione della globalizzazione e di sostegno alla competizione globale che viene dall’insieme dei settori sociali più aperti ed esposti alle dinamiche del mercato globale si è risolta, anche per la mancanza di risposte alternative, in una crescente, inesorabile separazione dalla disponibilità alla partecipazione fiscale e, quindi, alla creazione delle condizioni minime attraverso cui mantenere e riproporre un nesso positivo, virtuoso, fra domanda di sicurezza e quindi di libertà e costruzione di livelli più elevati di equità sociale.
In questa divaricazione di quel che è stato l’asse portante strategico del progetto di governo della sinistra europea affondano le residue possibilità per il centrosinistra di continuare ad essere interlocutore credibile delle forze dinamiche e produttive della società.
È possibile ritrovare un legame positivo fra la percezione di sicurezza e quindi di libertà nella quotidianità come nell’agire economico e sociale e la costruzione di nuovi e più avanzati livelli di equità sociale? Se si, come?
La risposta va cercata in un grandioso progetto di redistribuzione di risorse e di potere fra i settori che, anche per gli effetti dello stato sociale realizzato, si sono mantenuti al riparo dalle dinamiche della competizione globale ed i settori che in tale competizione sono immersi, utilizzando contestualmente strumenti del liberalismo e del socialismo, dalle liberalizzazioni mirate e governate alla ricostruzione di un patto fiscale con i cittadini che passi per la ridefinizione dei beni pubblici, del loro costo e della conseguente partecipazione ad esso dei cittadini e dei diversi gruppi sociali.
La riscrittura di tale nuovo patto fiscale può avvenire solo privilegiando il locale sul nazionale. Non solo e non tanto per le differenze fra le grandi aree del paese, il cui incancrenimento fa perdere di credibilità una politica generale che non si misuri specificatamente con esse, ma soprattutto perché condizione ineliminabile di un possibile nuovo compromesso sociale che voglia riconiugare equità sociale, sicurezza e libertà è il nesso fra responsabilità dell’azione pubblica e responsabilità del controllo individuale che è dato concretamente solo dalla vicinanza fra i luoghi della decisione e i destinatari delle stesse.
Questa è la sfida federalista del centrosinistra. Non alimentare, come vuole la Lega e la destra, la crescente scissione fra libertà individuale ed eguaglianza sociale ma al contrario proporne una nuova lettura, ed una  nuova declinazione positiva. Solo in questo quadro radicalmente nuovo il PD può rinnovare credibilmente la propria sfida per l’unità del Paese, ricostruendo la propria funzione nazionale. D’altronde il federalismo, l’idea di un governo delle diversità, è ben presente nella cultura democratica del Mezzogiorno: pensiamo all’autonomismo Sturziano ma anche a Dorso e a Salvemini. Un federalismo come grande patto unitario al cui interno sia possibile far crescere l’idea di un’autonomia di governo del Mezzogiorno: altra cosa dall’attuale regionalismo su cui pesa il permanere o meglio l’aggravarsi del divario che non dipende principalmente dall’insufficienza delle risorse trasferite ma dall’inefficienza della loro gestione. Da qui è possibile portare una sfida riformista fatta di libertà e di futuro: i due ingredienti con i quali tornare a parlare alla società civile del Mezzogiorno. Questo ci pone di fronte all’altro grande tema, quello della democrazia.
Abbiamo di fronte una crisi dello Stato e del sistema politico istituzionale che si trascina da molti anni e che si è aggravata con la fine dei partiti che avevano rappresentato nella prima Repubblica il collante tra istituzioni e democrazia. Il populismo si è inserito in questa frattura, ad esso si può rispondere solo affrontando il nodo che riguarda la forma di governo e la qualità della forma di stato.
Il vecchio sistema dei partiti e la vecchia forma di governo non tornano più e l’unica strada da percorrere con lungimiranza ma anche con la consapevolezza di alcune matrici non rimovibili, è quella della scelta della responsabilità, l’esercizio della cittadinanza nello Stato.
Perché nascondersi dietro l’errore di Bobbio sul rapporto tra governabilità e populismo? La strada di una governabilità efficiente va percorsa se si persegue l’obbiettivo della europeizzazione del paese.
Ciò significa aprire una ricerca ed un confronto sulla forma di governo, sulla forma di stato e sulla legge elettorale capace di chiudere con atti conseguenti e condivisi in questa legislatura la lunga transizione italiana.
Nel contesto di un Italia federale in punto di partenza irrinunciabile è la forma di governo parlamentare che confermi il diritto dei cittadini di decidere sulla rappresentanza parlamentare e sulla indicazione del governo del paese.
La riforma dello stato si deve intrecciare con la svolta federalista: attuazione della riforma del titolo V a partire dalla formazione del Senato federale, cancellazione del bicameralismo perfetto, dimezzamento del numero dei parlamentari.
Semplificazione del sistema istituzionale, non invadenza dei partiti e trasparenza ed esigibilità della loro vita interna.
A ben vedere pesano sull’impostazione congressuale le stigmate originali di una mancata reale fondazione di un partito nuovo. All’opposto di quel che si diceva, si è messo in piedi un onorevole nuovo Partito e non un Partito nuovo che si è aggiunto a quelli preesistenti assorbendo risorse ma anche limiti, potenzialità ma anche, ormai di più, residualità in essi contenute.
Lo stesso processo di costruzione di una leadership autorevole deve fare i conti con quei condizionamenti interni. Non è in discussione la qualità delle persone in campo ma senza una soluzione di continuità che faccia implodere e disperda le appartenze originali sulla base di un vero confronto politico, il nuovo non può nascere.
Non è sufficiente la continua ridislocazione di medesimi gruppi da una parte e dall’altra degli schieramenti interni del Partito. Al contrario, in tal modo, non si fa altro che consolidare tali appartenenze sempre più definite da un insieme di identità residuali e dalla gestione di risorse di potere secondo un modello neodemocristiano. Dovremmo aver chiaro che non è questo il pluralismo interno cui tendere: il pluralismo della contrattazione dei gruppi uccide la politica e la leadership.
Occorre incanalare le tante energie disponibili al rinnovamento non intorno a generici appelli alla partecipazione sulla linea della contrapposizione tra vecchio e nuovo che si riduce a cooptazione nel sistema oligarchico, ma intorno al rigore di un’analisi critica dei vari nodi che il PD ha oggi davanti.
Se il partito e il suo statuto diventano l’occasione per una divisione tra nostalgici del bel tempo che fu e novelli Dottor Stranamore dobbiamo prepararci ad altre occasioni perdute.
Se uno statuto non è condiviso nel profondo non si va molto in avanti. Dobbiamo evitare forzature inutili e consolidare la scelta dell’apertura del partito all’elettorato ma dobbiamo al contempo mettere in sintonia costruttiva leadership e militanti. Dobbiamo scegliere di dar vita ad un vero partito federale, non si vince più al nord con la fotocopia sbiadita di Roma.
Il PD deve restare un partito degli iscritti e degli elettori facendo sì che questo rapporto si traduca in un valore aggiunto e non in una contrapposizione.
I partiti sono in crisi ma la loro crisi non può divenire un alibi per dismettere la ricerca faticosa di strumenti collettivi capaci di tenere insieme società ed istituzioni rafforzando la democrazia e respingendo così il plebiscitarismo al di fuori di ipotesi compitamente presidenzialistiche. Questo strumento resta il partito che vogliamo su base federale e che è fatto di iscritti e di quegli elettori che intendono accompagnarne in alcuni momenti decisivi la vita, iscrivendosi ad un albo degli elettori che sostengono il PD.
Un modello di partito aperto nel quale tutte le cariche siano contendibili, un partito delle primarie cui si ricorre per la scelta dei candidati alla cariche monocratiche e nel caso della partecipazione del Partito Democratico a coalizioni.
Portare il partito ad aprirsi alle forze disperse, disilluse, stanche, rifugiate nei facili richiami populisti dell’intero arco del centrosinistra, mettendo in discussione i propri confini, utilizzando e facendo coincidere le candidature alle premierships regionali la prossima primavera e soprattutto la candidatura alla premiership nazionale con la costruzione del programma di governo su cui tali leaderships si proporranno.
Solo abbattendo i propri confini e quindi le barriere interne allo stesso, premiando la coerenza tra le scelte politiche e l’agire quotidiano, legando così sino in fondo programma e candidatura alla leadership, è possibile ricostruire il partito, ridare fiducia, attrarre forze, salvare il PD.

 

Antonello Cabras,
Vannino Chiti, 
Anna Finocchiaro, 
Fabrizio Morri, 
Andrea Orlando,
Silvio Sircana,
Francesco Tempestini,
Nicola Zingaretti

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