«Il pluralismo può vivere in altre forme più moderne e costruttive. Fosse per me le vieterei. Ma so che è quasi impossibile»

Il testo che segue è tratto dal libro di Vannino Chiti «La sinistra possibile – Il partito democratico alle prese col futuro» (Donzelli Editore, 188 pagg, 15 euro) da oggi in libreria

Lo statuto attuale del Partito democratico tiene insieme concezioni e soluzioni opposte: basti pensare all’elezione del segretario nazionale e al congresso. Da un lato, la prima fase, nella quale gli iscritti discutono e votano una piattaforma politica e una candidatura a essa collegata per la segreteria; dall’altro, la fase finale, nella quale i primi tre candidati, che hanno superato il 12%, si presentano a primarie aperte a tutti i cittadini. Sono le primarie che eleggono il segretario.

Può verificarsi il caso che il candidato segretario, arrivato primo nel voto degli iscritti, non sia scelto dai cittadini per guidare il partito. «Poco male», dirà qualcuno: questa è la democrazia. Secondo me invece questa è la confusione.

Si sono fatte coincidere due impostazioni tra loro differenti: l’elezione del segretario del partito, che è prerogativa degli iscritti, e la designazione del candidato alla guida del governo. Ma il segretario di un partito è automaticamente anche presidente del Consiglio in un sistema di fatto bipartitico o nel quale — è il caso della Germania — il leader del partito che vince le elezioni diviene capo del governo. In quei Paesi tuttavia non sono le primarie tra i cittadini a scegliere il leader, ma i congressi e i gruppi parlamentari. Il partito socialista francese ha eletto il segretario attraverso le primarie, ma dei soli iscritti.

Ritengo giusto che in Italia si continui a designare il candidato alla presidenza del Consiglio attraverso primarie organizzate dalla coalizione che si allea per governare, e aperte ai cittadini: l’alternativa non potrebbe che essere quella di assumere lo schema tedesco. Considero invece sbagliato confondere elezione del segretario e congresso con la scelta, di fatto, del candidato alla guida del governo. Quest’aspetto non trova alcun riferimento in altra esperienza europea o mondiale: deve essere affrontato e, a mio giudizio, modificato.

Il Partito democratico, deve scegliere per se stesso una dimensione politico-organizzativa di tipo federativo. Non si tratta di abdicare a una funzione di direzione unitaria: al Come per lo Stato, differenti dal passato sono tuttavia gli strumenti con i quali realizzare gli indirizzi guida sul piano nazionale.

Le Regioni, i territori hanno bisogno di autonomia e responsabilità vere per le scelte loro affidate, sia politiche che organizzative: non è una concessione, ma una delle condizioni necessarie per radicare un partito nella società moderna. I rapporti con i cittadini, la presenza nelle istituzioni, la capacità di costruire alleanze politiche anche originali, corrispondenti alla diversità delle situazioni nei territori, passano da qui. E necessario, intanto, ripartire da un approdo, non sufficiente, ma al quale erano già pervenute le forze che hanno dato vita al Partito democratico: la Direzione nazionale deve essere eletta per due terzi dai congressi regionali e per un terzo da quello nazionale.

Il segretario nazionale deve di sporre di un saldo potere sostitutivo per affermare ovunque e in ogni circostanza determinazioni coerenti con gli indirizzi e i valori irrinunciabili o per imporre il rispetto delle regole democratiche fondamentali della vita interna. Su scelte programmatiche rilevanti, sia di carattere locale che nazionale, devono potersi svolgere non soltanto congressi tematici, ma veri referendum tra gli iscritti e i sostenitori. Vorrei anche che venisse vietata la formazione di correnti permanenti: il pluralismo, come ho già sottolineato, può vivere in altre forme, più moderne e più costruttive. Attraverso le mozioni congressuali, le associazioni o i centri culturali. So, purtroppo, che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago… ma vi è il dovere di tentare.

Il Pd non difetta di pluralismo: difetta di unità e ancor prima di sedi e metodi di confronto, nei quali si verifichino le analisi, si definiscano le diverse opzioni. Vi sarebbe la necessità del supporto culturale di una Fondazione, come la Ebert della socialdemocrazia tedesca, di una rivista: dobbiamo elaborare un nuovo pensiero politico, chiamando a raccolta le competenze disponibili.

Si è creata una separazione tra cultura e politica: fino a quando non riusciremo a invertire la tendenza, è illusorio pensare di vincere la sfida dell’egemonia nella società.

Vannino Chiti