«Ridicolo ridurre il congresso regionale del Pd alla brutta copia di quello nazionale. Ancora peggio, poi, legare il nome del futuro candidato alla presidenza della Toscana all’esito dei congressi». Non ha dubbi Vannino Chiti, il vicepresidente del Senato indicato dal parlamentare lucchese Andrea Marcucci come «la voce politica più autorevole che dovrà rappresentare il partito toscano nel vertice nazionale» a segnalare i rischi che la gara aperta tra Franceschini, Bersani e Ignazio Marino porta con sé, Chiti ha appena pubblicato con l’editore Donzelli una riflessione sulle sorti del Pd intitolata La sinistra possibile. Dove denuncia, tra l’altro, la tendenza a confondere sempre più la conflittualità tra schieramenti in scontri di tipo personalistico.

Chiti, a Roma è scattato il gioco dei nomi. Difficile che da qui ad ottobre anche in Toscana il Pd non replichi lo stesso schema.
«Il gioco dei nomi non mi piace, dovevamo partire dai programmi invece di affrettarsi ad indossare le magliette senza neppure capire perché. Cosa penserà del congresso del Pd un cittadino alle prese con problemi di lavoro, sanità, scuola? O un cittadino che vede alla tv la gente massacrata per strada in Iran e non trova una singola iniziativa politica in difesa dei diritti di chi protesta? Penserà che siamo fuori dal mondo».

Nel libro si parla di politica internazionale, riforme, crisi economica. Che messaggio consegnano al Pd le ultime elezioni?
«Il 26 per cento non è certo una vittoria ma significa che il partito c’è, esiste e può riprendere il cammino. Per evitare il rischio di essere visti come un’organizzazione autoreferenziale, però, bisogna dire chiaramente come la pensiamo su Europa, sviluppo, lavoro, temi etici. In questo modo la gente ci capirà e saprà se sceglierci o no. Basta confusione. E basta schierarsi con quello o con quell’altro che ci sta più simpatico».

Da Prato al Pd toscano arriva no segnali di forte disagio.
«Di questo occorre discutere, infatti. Degli errori dei gruppi dirigenti locali, della crisi dei distretti industriali, dei problemi legati al l’immigrazione cinese. E quando se ne parlerà? Magari dopo le regionali che ci daranno un’altra botta? No, è il congresso regionale la sede giusta. La Toscana, come le altre regioni deve pilotare il dibattito nazionale, ma con una sua piattaforma particolare».

Attenzione, la Serracchiani boccia la parola piattaforma.
«Non facciamoglielo sapere, teniamo la cosa tra noi».

Sulla carta il Pd è un partito federalista. Ma è davvero convinto che la scelta del segretario regionale e del candidato presidente possano non rispecchiare la nuova leadership?
«Deve essere così, se non vogliamo diventare il partito delle tessere e dei signori delle tessere. Mettersi a contare quanti stanno da una parte o dall’altra significa non aver capito nulla. Guai se gli schieramenti nazionali oltre ad ammazzare i congressi regionali influenzassero anche la scelta del candidato alla presidenza, che deve essere individuato in base alla competenza e alla forza necessarie per governare».

Dopo il “caso Firenze” le primarie fanno paura a tutti.
«Invece sono uno strumento imprescindibile. E poi a Firenze e a Bologna abbiamo vinto se non sbaglio».

E se Martini si proponesse per il terzo mandato, come Errani?
«Se si va alla conferma di chi già sta esercitando un certo ruolo dovrebbero comunque esserci forme di consultazione ampia dei dirigenti, come previsto dallo statuto. Ma questo vale se non scatta la richiesta di fare le primarie comunque».

Simona Poli