Roma, 13 giugno 2009

Intervento di Vannino Chiti

La conquista del principio della libertà religiosa e della laicità dello Stato, in epoca moderna, affonda le sue radici nella fase costituente italiana della metà del secolo scorso.
E’ grazie alla Costituzione italiana che si mette in crisi realmente quel modello di Stato confessionista di cui ha parlato Gabrio Lombardi, sancito letteralmente addirittura nel primo articolo dello Statuto Albertino, dove si recita: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”.
Quel concetto di subalternità insito nel termine “tolleranza” emergeva inoltre nel Codice civile del 1837 e si rifletteva anche in altri articoli della carta fondamentale del Regno, come ad esempio l’articolo 33, che ricomprendeva i Vescovi e gli Arcivescovi fra gli eleggibili del Senato, nonostante che in altre parti dello stesso testo si statuiva una parvenza di principio di eguaglianza e di libertà di coscienza.
Tuttavia, come accennato, il vero segno di innovazione nel rapporto tra Stato e Chiesa cattolica è stato tracciato con incisiva profondità dalla Carta repubblicana. Vi è infatti in essa un sistema articolato di disposizioni che ruota intorno al divieto di discriminazione in ragione della religione professata a partire dal principio di eguaglianza dell’articolo 3, comma 1, e si sviluppa nei successivi articoli 7 e 8 (relativi ai rapporti tra Stato e Chiesa e tra Stato e altre confessioni religiose) e nell’articolo 19 che esplicita il principio della libertà religiosa.
Quando dunque parliamo di dettato costituzionale sulla libertà religiosa non possiamo non guardare anzitutto all’insieme  di queste norme, affrontandole nella loro complessità.  E’ la ratio di questo insieme di norme che sancisce la cancellazione della distinzione tra religione di Stato e altri culti appunto “tollerati”; ciò grazie all’affermazione delle due distinte modalità di regolamentazione dei rapporti tra lo Stato e le diverse confessioni religiose. Si tratta di un modello che non esprime una predilezione per l’una o l’altra confessione, ma prende atto, come ricorda Ugo De Siervo, costituzionalista cattolico, “della diversa posizione da queste storicamente assunta nella specifica situazione italiana”.
In tal modo abbiamo, da un lato, lo strumento concordatario, scelto dal Costituente, per i rapporti con la Chiesa cattolica, anche alla luce del fatto che questa viene rappresentata istituzionalmente da un vero e proprio Stato con una sua sovranità (la Città del Vaticano); dall’altro lo strumento legislativo, individuato per i rapporti con le altre confessioni religiose, da attivare però previa apposita intesa fra le rappresentanze delle confessioni e lo Stato stesso.
Naturalmente tutti noi non dimentichiamo come questa diversa impostazione tra Chiesa cattolica e altre confessioni religiose, nonostante non sia stata animata da intenti discriminatori, abbia favorito per un periodo rilevante il permanere di fatto del tradizionale status privilegiato della religione cattolica, soprattutto nel paragone con le altre confessioni. Tale situazione è stata peraltro aggravata dal grande ritardo con il quale si è proceduto sia all’adozione delle “Intese”, che alla revisione dei vecchi Patti Lateranensi del 1929 conclusi dal Governo fascista, in cambio di una fedeltà politica (o quantomeno di una non ostilità) da parte del clero come delle organizzazioni laicali.
Di fatto, dunque, fino al 1984, anno della riforma del Concordato, l’Italia ha vissuto una condizione che ha visto convivere i principi innovativi della Costituzione su eguaglianza, laicità e libertà religiosa con la sopravvivenza di norme che non avevano ormai più nulla in comune con quei principi.
Come avvenuto per l’eguaglianza senza distinzione di sesso, anche in questo settore il prevalere del pluralismo culturale, e dunque di quello religioso, ha portato progressivamente ad una chiara affermazione del principio della laicità dello Stato, portando ad annullare tutta una serie di normative in favore della religione cattolica. Si tratta di un processo ancora in divenire, che chiama in causa la necessità di far convivere due visioni apparentemente contrastanti, ovvero la piena attuazione della libertà religiosa, da un lato, il riconoscimento di quella specificità storica – e non solo solo storica – del nostro Paese di cui ha parlato De Siervo.  
Questa evoluzione culturale e politica, prima ancora che normativa, non può non tenere conto del fatto che se, in relazione alle confessioni religiose vige quel sistema differenziato che limita l’eguaglianza tra di esse al solo momento della libertà, quando si parla di esercizio del culto da parte dei fedeli (sia come singoli che come gruppi) il regime di tutela è uniforme e l’eguaglianza è piena. L’articolo 19 della Costituzione, infatti, statuisce “il diritto di professare la propria fede in qualsiasi forma, individuale ed associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto” con l’unico limite della contrarietà al buon costume (limite peraltro non contemplato nella Carta europea).
E’ nel rapporto tra libertà religiosa e laicità dello Stato, come riconosciuto la stessa Corte costituzionale, che risiede una chiave di lettura a mio avviso convincente del rapporto tra Stato e confessioni religiose.
Come mi è capitato di ricordare nella prefazione ad una recente ristampa di un mio libro relativo proprio alle questioni di cui stiamo dibattendo, la laicità che conosciamo e che ci è stata consegnata dal pensiero liberale si fonda su due pilastri: l’autonomia tra Stato e confessioni (che ritroviamo negli articoli 7 e 8 della Costituzione) da un lato, la concezione dell’esperienza religiosa come un fatto privato, diritto del singolo, ma relegato nell’autodeterminazione delle coscienze. Mentre il primo pilastro costituisce un punto di partenza, come già detto, irreversibile, il secondo non ha più senso, sia dal punto di vista politico-culturale che dal punto di vista della stessa Costituzione. Ripeto qui che il fenomeno religioso, come fenomeno pubblico non solo non è ridimensionato, ma si presenta con nuovo vigore come esperienza collettiva e non segregata nella coscienza individuale come vorrebbe il pensiero liberale del Novecento.
La libertà religiosa tutelata dalla Costituzione consiste infatti nei comportamenti esteriori che l’ordinamento tutela come espressione di diritti soggettivi connotati, in questo caso, dal fattore religioso. L’articolo 19 è tutt’altro che ambiguo nel chiarire questo concetto, poiché parla di “professare”, “propagandare”, “esercitare” il culto.
In una società dove la prospettiva multiculturale si intreccia con quella multi religiosa in un orizzonte che porta a rivedere radicalmente la collocazione privatistica della libertà religiosa, la riflessione più efficace da evidenziare è che la garanzia della laicità non risiede nella cancellazione della rilevanza pubblica del fenomeno religioso, bensì nella individuazione di spazi pubblici di “libertà positiva” al cui interno possano agire in modo visibile le chiese cristiane come le altre fedi religiose.
La presenza di una Chiesa e, come esse, di altre fedi religiose che interviene nei grandi temi pubblici, anche politicamente assai rilevanti, come quelli relativi all’immigrazione, all’etica, alla guerra, alla vita delle istituzioni, non segnala affatto una riduzione di laicità, che la politica deve temere o addirittura contrastare, ma è, al contrario, un segnale di modernità e laicizzazione. Non commettiamo l’errore di rimpiangere tempi in cui la Chiesa, quella cattolica in particolare, aveva meno necessità di esprimersi pubblicamente perché godeva della presenza di un partito politico di riferimento che chiedeva ai credenti di sostenere con il proprio voto.
Del resto è proprio nella sfera pubblica che i cosiddetti “principi non negoziabili” assumono la forma di principi oggettivamente sottoposti alla mediazione come strada per giungere a soluzioni legislative condivise (pensiamo all’ambito del diritto alla vita).
Dunque è nel riconoscimento della rilevanza pubblica della libertà religiosa che questa trova la sua dimensione ideale. In un contesto politico che non pone all’orizzonte ipotesi di modifica dell’articolo 19 della Costituzione, il compito delle istituzioni deve essere proprio quello costruire occasioni e sedi che consentano l’esprimersi pubblico delle religioni, la possibilità di un dialogo tra di esse e con lo Stato, non uno Stato etico, né totalitario, ma un soggetto fondato sul riconoscimento del pluralismo culturale e della centralità del dialogo.

Vannino Chiti