Domenica prossima, insieme ai ballottaggi delle amministrative, si vota per il referendum. La mia posizione è ormai nota: sono contrario alla legge elettorale che scaturirebbe da una vittoria del sì, non meno che a quella attualmente in vigore, il famigerato “porcellum”. L’elemento su cui si fonda la mia contrarietà è il premio di maggioranza, che il referendum non abolisce ma, al contrario, rafforza.

L’esperienza degli ultimi quindici anni insegna che il premio di maggioranza ha favorito la nascita di coalizioni eterogenee, finalizzate più al conseguimento della vittoria che alla creazione di un’alleanza politica in grado di sviluppare un coerente programma di governo.
Ebbene, questo referendum intende estremizzare il ruolo del premio di maggioranza, assegnandolo alla singola lista che prevale sulle altre. In questo modo si potrebbe produrre una vera mostruosità nella rappresentanza democratica: un partito che raggiunge il 35% dei consensi degli elettori, avrebbe la maggioranza, il 54% dei seggi alla Camera.

Io sono convinto che si debba superare il premio di maggioranza: nella scorsa legislatura era stato trovato un accordo attorno a questo obiettivo e ad uno sbarramento al 5%, per accedere alla ripartizione dei seggi. Si tenga presente che nel 1953 fu definita truffa una legge che assegnava il 65% dei seggi al partito o alla coalizione che aveva superato il 50% dei consensi. Se proprio un premio di maggioranza dovesse rimanere, si collochi al di sopra del 45% dei voti.
Il referendum produrrebbe un’altra evidente stortura: presumibilmente le elezioni si trasformerebbero in una competizione tra due formazioni che corrono per superarsi e i partiti potrebbero accorparsi in due grandi liste-contenitore che subito dopo il voto tornerebbero ad essere i partiti originali, con i rispettivi gruppi parlamentari. Insomma una finzione.

A cosa sarebbe servito allora costruire il Pd?
Anche le ultime elezioni dimostrano che il bipartitismo oggi non esiste nella società italiana: introdurlo per via referendaria è una forzatura ed al tempo stesso una velleità.
Altro aspetto negativo introdotto dal referendum sarebbe la soglia di sbarramento dell’8%, su base regionale per la elezione dei senatori. E’ una soglia assolutamente alta. Una democrazia deve garantire non solo la governabilità, ma anche assicurare la rappresentanza. Escludere dalla vita delle istituzioni forze che hanno adesioni consistenti favorisce solo il distacco dei cittadini e talvolta gli estremismi.
Alcuni sostenitori del referendum, pur non condividendo gli esiti che produrrebbe, ritengono che sia un’occasione da cogliere per abolire la legge Calderoli e realizzare in Parlamento una riforma organica.

Io penso invece che, dopo un eventuale successo del referendum, non ci sarebbe nessuna possibilità di approvare una nuova legge.
Il popolo italiano avrebbe espresso direttamente la sua volontà. Oltretutto i primi beneficiari della legge “rafforza porcellum” sarebbero Berlusconi e il suo partito.
Ciò di cui l’Italia ha bisogno è che il Parlamento discuta e approvi, con il consenso della maggioranza e dell’opposizione, una nuova legge elettorale, in grado di conciliare governabilità e rappresentanza.
Si può fare partendo da ciò che era stato concordato nella scorsa legislatura.
Questo referendum non serve: se vincesse il no, risulterebbe confermata la pessima legge esistente; se si affermasse il sì ne verrebbero estremizzati alcuni difetti di fondo. E’ bene dunque che non sia raggiunto il quorum così da tenere aperta – se si vorranno realizzare alcune riforme costituzionali insieme all’opposizione – la via di una nuova legge elettorale.