L’ex ministro per i rapporti col parlamento non si sbilancia sul congresso del partito. Ma avverte che impegnarsi per il sì al referendum bipartitico sarebbe un’avventura pericolosa per la democrazia. La legge elettorale è un’idea di stato. Il porcellum non ci piace ma dobbiamo decidere se siamo per il modello francese o quello tedesco

Vannino Chiti: il bipartitismo non è nella realtà e sostenere il sì non è il male minore

Ha firmato, con altri dodici colleghi, una lettera a Dario Franceschini chiedendo di non fare campagna per il sì al referendum. Vannino Chiti, ex ministro, ex uomo macchina fassiniano è un toscano d’ordine. Ma stavolta dissente. Con misura, provando a «non aggiungere problemi a problemi», che ci sono. Però «chiediamo un non-im pegno per il sì. Questo non è il nostro referendum. E il porcellum non è la nostra legge elettorale. Il centro destra se l’era votata da solo, quattro anni fa. Se il popolo italiano la santificasse, cioè se i cittadini elettori di fatto la approvassero, respingendo i quesiti, a quel punto quel voto unilaterale del 2005 sarebbe superato, sancito dal sì dei cittadini italiani».

Lei dice: «Questo non è il nostro referendum». Ma l’hanno voluto e firmato in tanti, nel Pd.
Ma poteva essere diverso. Poteva cancellare il premio di maggioranza. In questo caso sì, avrebbe messo il parlamento di fronte all’obbligo di rimettere mano alla legge. Invece Segni e Guzzetta con il referendum vogliono scrivere la nuova legge. E così, per legge, vogliono che in Italia si affermi il bipartitismo.

Insisto: non solo loro. A Veltroni i quesiti piacevano, a Franceschini piacciono. Piacciono ai prodiani.
Legittimo, ma io non sono d’accordo: il bipartitismo non è nella realtà italiana, le ultime elezioni lo dimostano. Non è il nostro presente, e dubito sia il nostro futuro. E comunque la scorciatoia di introdurlo per via referendaria è un’avventura pericolosa. I partiti non si fanno a tavolino. Ormai dovremmo averlo imparato.

Perché queste cose non le ha dette alla direzione dove il segretario ha proposto il sì, decisione passata quasi all’unanimità?
Io non c’ero. E del resto nell’ordine del giorno questo punto non c’era. Ed è singolare che sia stato messo in votazione. Ma mi fermo qui. Aggiungo solo una cosa: la mia esperienza in campagna elettorale è che il mondo che guarda a noi è contrario al referendum. Per buon senso.

E comunque nel Pd quasi tutti hanno votato sì.
Però con il passare dei giorni in diversi hanno cambiato idea. Negli organismi dirigenti non si è mai fatta una discussione seria per scegliere quale legge elettorale vogliamo.

Può essere che la tregua interna che ha chiesto e ottenuto il segretario ha soffocato il dialogo?
Ma no. Il fatto è che nel partito c’è un’idea, sbagliata, ma maggioritaria di chi pensa che il sì aiuterebbe a cambiare l’attuale legge elettorale. Franceschini l’ha anche detto. E l’hanno detto anche Bersani e D’Alema. E io non capisco, siamo a una clamorosa contraddizione interna: vuoi cambiare la legge elettorale, vorresti il modello tedesco, ma poi voti per una legge bipartitica? Sarebbe come dire: sono a Pistoia, voglio andare a Roma e prendo un aereo per la Nuova Zelanda. Sapendo anche che lì trovo uno sciopero dei voli per Roma, per dieci anni.

Fra l’altro tutti i vostri potenziali futuri alleati, tanto centristi quanto di sinistra, vi chiedono di lasciar perdere il referendum.
Anche se non me lo chiedessero, la penserei nella stessa maniera. Perché prima di guardare alla questione delle alleanze, che pure è importante, c’è un piano su cui non si possono fare concessioni; il piano della democrazia. Può funzionare una democrazia in cui chi arriva primo ha il controllo del parlamento? E per entrare al senato c’è uno sbarramento dell’8 per cento su base regionale, che in alcune regioni diventa il 14? Ma che democrazia è questa? E non apro neanche il capitolo di quanto conviene a Berlusconi. Per le riforme dobbiamo partire dal testo sul quale avevamo raggiunto un accordo poco prima che cadesse il governo Prodi. C’erano ancora questioni aperte, ma di lì si deve ripartire. E comunque, questo è un tema del nostro congresso. A una legge elettorale corrisponde un’idea di stato, oltreché di partito.

Ha già un candidato?
No. Però con Franceschini, quand’era capogruppo alla camera e io ero ministro, abbiamo cercato di costruire una proposta di legge insieme. E non era bipartitica.

Ci avrà ripensato.
Non lo so, non credo, per la cultura politica che ha. Avrà ritenuto che il sì fosse il male minore, o che potesse servire a ridiscutere di legge elettorale. Bersani ha detto che il sì serviva ad aprire qualche falla fra il Pdl e la Lega. E questi sono ugualmente due eccessi di tattica. Sulla democrazia meglio lasciar stare la tattica. E’ pericoloso.

Quindi non sa chi voterà?
Se iniziamo scegliendo le persone, non andiamo da nessuna pane. Già il Pd lo ha fatto, dalla sua nascita: risultato, ancora non abbiamo fatto il primo congresso. Ora basta, quando decideremo i nostri temi, sceglieremo le persone. Senza questo, finiremo per decidere sul colore degli occhi o dei capelli. O l’età, che è importante, ma non più della rotta del partito.

Daniela Preziosi