L’incontro della Cei a Verona ha avuto una prevalente lettura di “destra”. In particolare per la frase di Benedetto XVI che sollecita la Chiesa a collaborare con quanti, pur non credenti, riconoscano l’importanza del messaggio cristiano nelle nostre società. Trovo questa lettura incomprensibile. Nella cultura progressista non esistono forse figure che abbiano queste caratteristiche? Credo di si, e penso che si farebbe un regalo alla destra – ad una destra che spesso vuole ridurre il cristianesimo a ideologia – se accettassimo la categoria dei cosiddetti atei devoti come destinataria esclusiva dell’invito del Papa. Non dovremmo in questo caso prendercela con Benedetto XVI ma con noi stessi, perché si possono non condividere alcuni approcci, ma se la cultura laico-progressista rinunciasse a confrontarsi con il cattolicesimo, più in generale con il pensiero religioso, dimostrerebbe insensibilità rispetto alle domande sul senso della vita che rinascono nel nostro tempo. Anche per questo tanta parte del mondo di sinistra non dovrebbe cadere nell’errore di presentare questo Papa come il rifondatore di una Chiesa medievale. Non vederne i punti di innovazione, è sbagliato. Quello cui siamo chiamati è l’impegno a costruire una società post-secolare, nella quale credenti e non credenti, insieme, scoprano il dialogo come mezzo per realizzarla e per realizzare se stessi.
In Occidente rischia di prevalere un pensiero unico, che vuole imporsi al mondo. Il pensiero che fa del denaro, del potere, del mercato le nuove divinità del Terzo millennio. Il Papa denuncia principalmente l’idea che “soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali”. Sono due facce della stessa medaglia. E’ vero che le culture del resto del mondo, non solo quelle profondamente religiose, vivono questo modo di porsi dell’Occidente come un “attacco alle loro convinzioni più intime”. Il Papa dice che occorre il “coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza”, per impostare un dialogo tra culture e fedi religiose. Il coraggio di un Occidente che sappia porre al centro il primato della persona, dei suoi diritti, della sua dignità. Non imponendo una visione religiosa del suo destino, ma neppure considerando residui del passato chi in essa voglia avvertire anche i segni di una trascendenza. Questo vuol dire non imporre con la violenza o col braccio dello Stato uno spazio per il sacro, ma neppure bandirlo o al massimo concederlo come diritto di culto.
Ho riletto il discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona. E’ percorso dalla riaffermazione del rapporto tra fede e ragione. Si badi bene, del rapporto reciproco, non della subordinazione dell’una all’altra. Sulla base di questa impostazione Papa Ratzinger esprime critiche non solo nei confronti di alcune tendenze della religione musulmana ma anche di orientamenti presenti nel cattolicesimo.
Per questo mi pare importante per tutti i laici l’affermazione del Papa: “Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi…” ma il Dio veramente divino è quello che si è mostrato come “ragione e parola”. Partendo da qui vorrei porre alcune questioni a noi laici, laici senza aggettivi e dunque credenti o meno.
Non sono convinto di alcune letture del discorso di Ratisbona fatte nel versante laico-progressista. E’ questione che non riguarda i laici che un Papa oggi affermi la necessità dell’incontro “tra autentico illuminismo e ragione?” Che rifiuti per ogni religione “la conversione mediante violenza”, fondandola sul principio che “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio?”.
Benedetto XVI pone a noi una questione e una sfida: le fedi religiose hanno una dimensione pubblica, non possono più essere chiuse nella sfera privata. Pone questo tema guardando avanti, alla costruzione di un nuovo umanesimo. Sono convinto che la laicità oggi debba rinnovarsi assumendo la legittimità di uno spazio pubblico per la religione. Naturalmente tutto ciò presuppone alcuni punti fermi. La dimensione pubblica non è retta da verità assolute, da dottrine di fede che possano pretendere di imporsi con il braccio dello Stato. La sfera pubblica si fonda su due cardini: il principio di maggioranza e quello dei diritti inalienabili delle minoranze culturali o religiose. Il Papa però pone un problema di grande respiro, che interroga l’Occidente nel cuore della sua cultura. Riguarda la nostra visione della scienza, ma prima ancora quel nostro riconoscimento di un’unica verità possibile: quella fondata sul metodo empirico – sperimentale. Al di fuori di esso poco più che superstizioni.
Qui il filo del ragionamento si ricollega a quanto nel 2004 aveva sostenuto l’allora Cardinale Ratzinger nel dialogo con il filosofo Habermas all’Accademia Cattolica di Monaco. Anche allora aveva definito patologie della religione il fondamentalismo, l’esistenza di organizzazioni che praticano violenza e terrorismo; patologie della ragione la costruzione di armi di distruzione o di tecnologie che possono sfuggire al controllo dell’uomo. Mi pare convincente quella comune conclusione con Habermas di un “apprendimento complementare” tra ragione e religione: “hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una con l’altra”. Mi pare significativa la consapevolezza dell’allora Cardinale Ratzinger sul “limite” del ruolo dell’Occidente nel nostro tempo: le due protagoniste fondamentali della cultura occidentale, la ragione secolare e la ragione credente, non sono le sole voci del mondo. Né la religione cristiana né la razionalità occidentale sono esperienze universali. Non esiste oggi una formula razionale o etica o religiosa capace di riunire tutti gli uomini. Per questo, sottolineava Ratzinger, la “mutua correlazione” deve saper diventare una “correlazione polifonica”.
Non voglio dire che tra una cultura laico-progressista e la Chiesa di Benedetto XVI non esistano differenze. Penso che sul ruolo della donna, nella società e nelle istituzioni religiose, sulla scienza, o anche sulla pienezza del ruolo dei laici nella Chiesa esistano sensibilità e linguaggi diversi. Ma non è impraticabile un dialogo convinto e rispettoso.
So bene che la strada di un nuovo incontro tra fede e ragione è difficile, ma è anche l’unica giusta per chi non voglia rassegnarsi a perdere il futuro.

Vannino Chiti