Articolo di Vannino Chiti pubblicato su Europa
Anticipiamo alcuni stralci della lectio magistralis sulla “Costituzione repubblicana a 60 anni dalla sua approvazione” che lunedì prossimo il ministro Chiti pronuncerà al Centro alti studi della difesa, in occasione della cerimonia di apertura del nuovo anno accademico.
La Costituzione italiana è stata spesso accusata di essere un “compromesso”, volendo con ciò esprimere una forte carica “riduzionista” o dispregiativa” delle scelte in essa contenute.
Il vero nodo del problema (…) non è tanto il compromesso in sé, quanto la verifica della sua qualità, ossia dei princìpi su cui esso si fonda, della sua solidità e della sua capacità di durare nel tempo.
La Costituzione italiana non nasce dalla trattativa tra ristetti gruppi di potere, bensì dalla forte spinta politica e ideale di partiti di massa che avevano assunto effettiva rappresentatività, in un contesto storico di profonda crisi e bisognoso di rinnovamento e in un clima culturale permeato degli ideali che provenivano dalle diverse esperienze del costituzionalismo occidentale. La classe politica che si presentò sui banchi dell’Assemblea costituente, nel vuoto e nell’estrema debolezza che caratterizzavano l’assetto delle istituzioni nel periodo postbellico, era profondamente convinta di dover ricostruire l’ordinamento a partire dalle sue fondamenta e di voler procedere a tale ricostruzione proprio partendo dai grandi postulati di quel costituzionalismo: Stato di diritto e separazione dei poteri pubblici; garanzie dei diritti fondamentali dei singoli e dei gruppi; eguaglianza dei cittadini, giustizia sociale, attraverso il riconoscimento di specifici diritti individuali e collettivi, democrazia, pluralismo politico e istituzionale; collaborazione internazionale.
In quella classe politica si confrontavano gruppi sociali, organizzazioni e ideologie assai differenti tra loro: c’erano gli eredi della classe dirigente dello Stato liberale prefascista; i cattolici democratici; la sinistra di ispirazione marxista. Il “compromesso” (o, più correttamente, l’accordo) si formò, attraverso un processo deliberativo sostanzialmente unitario, su queste basi: rifiuto e rovesciamento dei postulati dello Stato totalitario fascista (autoritarismo, partito unico, nazionalismo bellicista); ripristino e potenziamento delle libertà e delle garanzie dello Stato di diritto; larga apertura ai princìpi dello Stato sociale; democrazia parlamentare come strumento privilegiato e indispensabile per l’integrazione della società di massa nel sistema istituzionale; riconoscimento della funzione essenziale dei partiti politici come raccordo permanente tra sistema dei poteri pubblici e società civile. Di qui la sostanziale “unanimità” o, comunque, la larghissima condivisione che caratterizzarono le grandi opzioni della Costituente: da quella di costruire una Costituzione “rigida”, ossia non derogabile con i processi di deliberazione della legislazione ordinaria, e garantita giuridicamente da un sistema di giustizia costituzionale; a quella di costituzionalizzare con discipline alquanto puntuali le garanzie dei diritti civili e sociali a quella di fondare il modello di governo su un sistema parlamentare, sia pure corretto con meccanismi di “razionalizzazione”.
Per tali ragioni, non possono essere condivise le interpretazioni “riduzioniste” che tendono a rappresentare la Costituzione italiana come il semplice prodotto di un accordo tripartito (Dc, Psi, Pci), o, in termini ancor più semplicistici, dell’incontro tra l’Italia democristiana e l’Italia social-comunista. Certo, nessuno può negare ciò che è ovvio, ossia che i tre partiti più rappresentati alla Costituente avessero una forza decisamente preponderante sulle altre forze politiche; ma dire che il prodotto espresso nella Carta costituzionale costituisca la semplice combinazione o giustapposizione del patrimonio di cultura e del programma istituzionale riconducibile ai gruppi dirigenti di questi tre partiti significa distorcere profondamente la realtà, se è vero — come è vero — non solo che in sede di Assemblea costituente si registrarono apporti assai rilevanti provenienti da tradizioni diverse (si pensi al contributo dei rappresentanti della classe politica liberale di tradizione statutaria e degli esponenti del Partito d’Azione), ma anche che nella Costituzione confluirono — come si è detto — i frutti di un pensiero e di esperienze ben più ampi e longevi: dagli esiti migliori delle rivoluzioni di matrice illuminista, agli echi del grande modello parlamentare britannico, all’esperienza del costituzionalismo tedesco no alla Repubblica di Weimar, alla Società delle Nazioni da cui origina l’odierno universalismo dei diritti umani, alle “quattro libertà” (di espressione, di religione, dal bisogno, dalla paura) di Roosevelt, alla Costituzione austriaca di Hans Kelsen degli anni Venti, a tutto il portato del pensiero politico democratico sviluppatosi a cavallo delle due guerre mondiali. In una parola, la Costituzione italiana non nasceva come il prodotto di un accordo “al ribasso” tra gruppi contrapposti preoccupati soltanto della loro “sopravvivenza”, bensì come espressione di tutta la tradizione del costituzionalismo europeo e non solo europeo.