Il nostro sistema universitario rischia pesanti conseguenze dall’introduzione delle misure contenute nel decreto legge n.112 del 25 giugno, attualmente all’esame del Parlamento.
Innanzitutto si prevede la possibilità per gli atenei di costituirsi in fondazioni di diritto privato. Si tratta probabilmente di un primo passo per la privatizzazione dell’università statale italiana. Un buon sistema di insegnamento superiore deve prevedere una virtuosa integrazione tra università finanziate dallo Stato e università private, al fine di garantire pluralismo e equità, molteplicità d’insegnamento ma anche il diritto fondamentale per tutti, a prescindere dalla condizione economica, di accedere agli studi universitari.
La scelta del governo porta con sé un difetto insuperabile, mancando in essa l’attuazione di un presupposto essenziale: la sostituzione del finanziamento dei docenti, che prevale nel sistema attuale, col finanziamento degli studenti. Per questo motivo la norma proposta produrrebbe come risultato tante piccolissime università-fondazioni alle quali si trasferisce parte del demanio pubblico, senza però un modello organizzativo diverso, strutturate in forma privatistica ma finanziate dallo Stato. Prescindendo dal merito della trasformazione statutaria, risulta evidente la sua incompletezza e il conseguente cattivo funzionamento.
Lo ha sottolineato al Senato Nicola Rossi in modo serio e convincente, trovando purtroppo sordità nella maggioranza. Il governo di destra procede con decreti legge – ne ha già varati nove – e la sua maggioranza ratifica.
La norma prevede inoltre diverse novità in materia di trattamento del personale e dei docenti in particolare. In breve le novità sono: un turn-over operato nella misura di un’ assunzione ogni cinque docenti che vanno in pensione; gli scatti di stipendio che da biennali diventano triennali; la trasformazione del diritto a prolungare l’insegnamento per due anni dopo il compimento dei settant’anni di età, in concessione da parte dell’amministrazione; il potere, in capo all’amministrazione, di mandare in pensione i professori che abbiano raggiunto i 40 anni di contribuzione previdenziale.
Ne emerge un quadro di eccessiva rigidità nell’organizzazione di un settore tanto delicato per la formazione delle giovani generazioni, per la ricerca e lo sviluppo.
Nel mondo della globalizzazione la formazione risulta sempre più decisiva per il destino dei diversi Paesi: in Italia, che ha un serio deficit di competitività, il governo di destra colpisce in modo indiscriminato scuola e università. Non ci si muove per un impulso alla riforma e all’efficienza, ma dietro il tentativo di fare semplicemente cassa.
La volontà di sfoltimento non considera le specifiche esigenze degli atenei dislocati in diverse realtà territoriali, a vantaggio di automatismo cieco. Lo stesso automatismo irragionevole e un atteggiamento punitivo emergono dal trattamento dei docenti. Si impone, di fatto, il pensionamento coatto e quasi automatico a discapito della valutazione della qualità e del bagaglio di esperienza che ogni professore può mettere al servizio dell’insegnamento.
Infine, dalle norme che il governo intende introdurre affiora una altra verità che nega quanto in questi tempi si va ripetendo da parte di quasi tutti i gruppi politici: la necessità di completare il sistema del federalismo. Qui invece si va in direzione opposta. Si prevede esplicitamente che le risorse risparmiate dalla riduzione del turn over e più in generale “i risparmi del sistema universitario (480 milioni fino al 2013) confluiranno nel bilancio dello Stato”. Da questa disposizione e, più in generale, dallo spirito che guida l’intera norma, emerge un ritorno al centralismo che era stato faticosamente superato per consentire alle università di poter operare con la necessaria autonomia, decisionale e finanziaria.
Non vi è ad oggi la dovuta attenzione su temi di così grande rilievo. Secondo me è urgente che il Partito Democratico – i gruppi parlamentari, il governo ombra – chiedano subito un incontro alla Conferenza dei Rettori delle Università, non appena dopo la pausa estiva, ai rappresentanti degli studenti, degli insegnanti e del personale. Più in generale è indispensabile che siano in campo anche le parti sociali, dai sindacati alle organizzazioni d’impresa. L’Università riguarda l’Italia, non gli addetti ai lavori.
Vannino Chiti