La permanenza di coalizioni di governo frammentate ed eterogenee, persino più di quanto non lo fossero quelle della cosiddetta Prima Repubblica, ha tuttavia prodotto nuove patologie. In tali circostanze, infatti, il programma di Governo –nell’esperienza di centrosinistra e, in modo forse meno accentuato, anche in quella di centrodestra – è stato utilizzato più come strumento regolatore degli equilibri interni delle alleanze politiche che come elemento guida dell’azione di governo vera e propria. Il programma è stato infatti spesso adoperato come una sorta di arma di condizionamento, richiamata volta a volta da un partito per bloccare l’iniziativa di un altro partito della stessa coalizione, con il pretesto che questa non corrispondesse, in tutto o in parte, ai contenuti del programma. Questi richiami all’applicazione pedissequa e letterale del programma, a sua volta frutto talvolta di estenuanti trattative pre-elettorali – potrei portare una mia esperienza diretta a proposito della riforma delle pensioni e del welfare con il governo Prodi -, hanno così finito per mortificare in buona parte la sua stessa efficacia nell’ambito della dialettica Governo-Parlamento. Vi è infatti un necessario tasso di flessibilità nel programma di Governo che rispecchia l’oggettivo dinamismo del sistema politico e che, in fondo, rispecchia il dinamismo del rapporto fiduciario, il quale, non a caso, può essere sottoposto a frequenti verifiche, attraverso la questione di fiducia, fino alle interruzioni premature provocate proprio con la mozione di sfiducia.
Centralità e dinamicità del programma di Governo (cioè suoi aggiornamenti) sono due elementi tra di loro connessi che puntano a garantire la stabilità degli esecutivi. Anche per il perdurante deficit di questi valori, il rapporto fiduciario non si è concretamente sviluppato in modo coerente secondo quel modello di stabilità ed efficienza degli esecutivi immaginato dall’Assemblea Costituente. Ne è una dimostrazione la storia dell’utilizzazione delle mozioni di sfiducia. Come ho già accennato, non è mai successo nella storia della Repubblica che un Governo sia caduto per effetto del voto favorevole ad una mozione di sfiducia, che in tutte le circostanze è stata respinta o ritirata prima della discussione o del voto. Anche nel caso dei Governi Prodi I e Prodi II, uniche eccezioni alle crisi extraparlamentari, si ricorderà bene che non è stata una mozione di sfiducia a determinarne la caduta, bensì il voto contrario ad una questione di fiducia.
Mozione di sfiducia e questione di fiducia, come è evidente, sono strumenti differenti: entrambe possono essere intese come strumenti di verifica del rapporto fiduciario ed entrambe possono pertanto portare all’effetto di terminare il rapporto fiduciario tra il Governo e la sua maggioranza parlamentare, tuttavia i presupposti politici e costituzionali sui quali esse si basano sono ben distinti. La mozione di sfiducia si può intendere come uno strumento di sanzione politica che però produce precisi effetti giuridici rivolto ad un prolungato comportamento del Governo, o del singolo ministro qualora si tratti di sfiducia individuale, che si ritiene si sia discostato dagli impegni assunti nel dibattito programmatico svolto nelle Camere (torna nuovamente l’elemento del programma). Come ricorda ancora Renna, «nel disegno razionalizzatore delineato dal Costituente, le Camere attraverso la mozione di sfiducia possono verificare la consonanza con il Governo rispetto all’indirizzo politico, che esse hanno concorso a determinare con l’approvazione della mozione di fiducia e la cui attuazione compete all’Esecutivo. Questa corrispondenza politica è peraltro verificabile attraverso la motivazione, poiché sia la mozione di sfiducia che la mozione di fiducia devono essere motivate e votate per appello nominale.
La questione di fiducia, per parte sua ha finito per essere utilizzata molto più spesso della mozione di sfiducia nella prassi parlamentare (nonostante che non sia menzionata nella Costituzione e sia stata introdotta solo nel 1971 nel Regolamento della Camera dei Deputati) e, come detto, a differenza dalla prima ha portato anche all’effetto finale di interrompere un rapporto fiduciario. Essa è diversa dalla mozione di sfiducia anzitutto perché agisce come strumento in mano al Governo. In secondo luogo per la finalità generale a cui tende: con la questione di fiducia l’Esecutivo vuole costringere la sua maggioranza parlamentare a sostenerne le iniziative, secondo l’impegno assunto in sede di approvazione della mozione di fiducia. Per questo motivo la questione di fiducia, nell’evoluzione della prassi, si è atteggiata più che come mero strumento di verifica del rapporto fiduciario, come arma per vincere i comportamenti ostruzionistici del Parlamento o comunque per determinare tempi precisi per l’approvazione di atti del governo.
Tuttavia questo strumento di “pressione”, con il quale il Governo tende a ricompattare una maggioranza divisa su un aspetto politico centrale della sua azione, o su un determinato provvedimento, ha finito per assumere una dimensione patologica, frutto anche della involuzione da più parti denunciata del sistema del bicameralismo paritario. Infatti, la presenza di maggioranze eterogenee e instabili, da un lato, l’esigenza di accelerare i tempi della produzione normativa, appesantiti drammaticamente dal sistema di funzionamento del bicameralismo italiano, hanno nel tempo indotto i governi a fare largo uso della questione di fiducia, non limitandola più ai momenti cruciali di verifica del rapporto fiduciario in quanto tale.
Come giustamente il Presidente della Repubblica ha rilevato sia nella precedente come nell’attuale legislatura, non va certo elogiata la tendenza emersa negli ultimi anni di porre la questione di fiducia su leggi di delega o su leggi di conversione di decreti-legge: è giusto ritenere che su questi atti, che spostano a favore del Governo il potere normativo, che di regola spetterebbe al Parlamento, quest’ultimo dovrebbe essere libero di definire i limiti di tale spostamento, senza essere, come avviene, messo “con le spalle al muro”.
Se poi consideriamo che, accanto all’abuso della questione di fiducia, si profila sempre di più nell’azione di Governo un “abuso” o comunque un uso abnorme della decretazione d’urgenza il tema rischia di assumere una dimensione davvero allarmante. Sappiamo bene infatti, che una tendenza finisce per alimentare l’altra in una spirale inarrestabile: più aumenta il ricorso ai decreti-legge, portatori di scelte politiche impegnative, più aumenta proporzionalmente la tentazione del Governo a “blindare” gli atti ponendo la questione di fiducia per evitare che il dibattito parlamentare comprometta la conversione in legge.
Su questo punto, in generale, è chiaro che non possiamo aspettarci ancora una volta un intervento risolutore da parte della Corte costituzionale, sia perché la decretazione d’urgenza per definizione non rende agevole il sindacato costituzionale, sia perché la Corte può intervenire sugli aspetti patologici più eclatanti (vedi il caso della Sentenza n. 360 del 1996 sul problema della reiterazione dei decreti-legge) o la più recente sentenza sulla coerenza che deve assumere la legge di conversione dei decreti legge ma non sull’implicazione di natura politica che comporta il consolidamento di una prassi come quella dell’abuso dei decreti-legge.
Per questi motivi confesso, non senza preoccupazione, che il recente annuncio da parte del Presidente del Consiglio di aumentare fortemente il ricorso alla decretazione d’urgenza, già oggi eccessivo, possa costituire un elemento di forte destabilizzazione dei rapporti tra Governo e Parlamento e più in generale di tutto l’ordinamento costituzionale. Questa decisione suona inoltre ancora più discutibile e incomprensibile se pensiamo alle ampie maggioranze parlamentari di cui dispone l’attuale governo in Parlamento.
Sia chiaro: il numero eccessivo dei decreti – legge non riguarda solo questo governo ma anche i precedenti. È legato anche ad una farraginosità nel decidere da parte del parlamento e soprattutto all’assenza di tempi certi di conclusione dell’iter decisionale su provvedimenti considerati fondamentali dai governi. Il Presidente del Consiglio non ha tuttavia evidenziato una difficoltà strutturale, come ho detto non di breve periodo, che contribuisce a produrre il fenomeno di un abuso dei decreti – legge. È sembrato anzi rivendicare con orgoglio questo modo di governare, lanciando quasi uno slogan: uno, cento, mille decreti.
La via giusta per affrontare il tema reale dei tempi e della efficacia delle decisioni non è quello di limitare o svuotare ancor più il ruolo del Parlamento. La via giusta è quella di riforme che riguardino Parlamento (compresi i suoi regolamenti e ancor più il funzionamento del Bicameralismo paritario) e governo. Non solo oggi, ma anche domani, per me il Parlamento resta il “cuore” della rappresentanza popolare.
Dobbiamo invece sentirci tutti impegnati affinché il decreto-legge torni nell’alveo costituzionale della rigida considerazione della necessità e urgenza che porterebbero ad impiegarlo solo nei casi strettamente indispensabili per un doveroso autolimite nei confronti del Parlamento. Con esso anche la questione di fiducia merita di essere riconsiderata e utilizzata con maggiore ponderazione.
Peraltro vale la pena ricordare che la questione di fiducia presenta un problema non irrilevante d’incoerenza applicativa, poiché essa è disciplinata in modo diverso alla Camera e al Senato. Infatti, mentre il regolamento della Camera è più rigoroso e preciso nell’indicare le materie nelle quali la fiducia non è ammessa – anche se recenti interpretazioni della giunta per il regolamento hanno sostanzialmente attenuato per questi aspetti la differenze tra le due Camere – al Senato il regolamento non contempla la questione di fiducia e lascia dunque in vita la prassi consolidata, più favorevole al Governo, per la quale essa può essere posta in qualunque momento in via prioritaria con voto immediato e indifferibile. Sarebbe pertanto opportuno intervenire nuovamente sui regolamenti parlamentari, sia per garantire una disciplina analoga tra le due Camere, sia per ricondurre l’istituto della fiducia ad una dimensione d’eccezionalità.
In definitiva, dunque, se vediamo come, da un lato, la mozione di sfiducia non abbia mai sortito gli effetti per i quali è stata introdotta dai Costituenti, dall’altro, la questione di fiducia abbia assunto una dimensione quasi patologica, alimentata da una pretesa politica di autosufficienza del Governo, non possiamo non rilevare come le regole del rapporto fiduciario siano oggi di fatto disattese rispetto alle loro previsioni e dunque richiedano una pronta azione di riconsiderazione e di modifica.
Anche sul fronte del programma di Governo, che costituisce a mio avviso il filo conduttore del rapporto di fiducia, dobbiamo constatare che con l’introduzione in Italia di sistemi elettorali a base maggioritaria (seppure se con significativi elementi proporzionali), con coalizioni politiche precostituite, non si siano determinate tutte quelle premesse positive che avrebbero dovuto portare ad una maggiore stabilità degli esecutivi. Come giustamente osserva ancora Renna nel suo scritto, in questo nuovo contesto cambiano le modalità con cui si rompe il rapporto fiduciario: nella cosiddetta Prima Repubblica più legate alle crisi extraparlamentari, nella cosiddetta Seconda Repubblica contraddistinte dalle crisi delle coalizioni di governo all’interno del Parlamento.
In questo caso poco può fare la Giurisprudenza costituzionale, che pure è intervenuta sul tema del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, come avvenuto con la nota Sentenza n. 7 del 1996 relativa al caso della sfiducia individuale al Ministro Mancuso, votata dal Senato nell’ottobre del 1995. In quella pronuncia, come nelle altre successive, la Corte ha ribadito il ruolo decisivo della prassi parlamentare nella ricostruzione del quadro costituzionale, basato su un dato di funzionalità pratica rafforzato da una consequenzialità logica. «Nella forma di governo parlamentare» osserva la Corte in quella sentenza, «la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste indirizzo politico esiste responsabilità (…) e la dove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario». Un dato che, secondo la valutazione del Giudice costituzionale, «muove dall’approvazione del programma governativo», confermando ancora una volta il forte nesso tra rapporto fiduciario e programma, come ho tentato di sottolineare in questo intervento.
Dunque è al sistema politico che si chiedono risposte concrete ed efficaci. Se partiamo da questo assunto e volgiamo lo sguardo alle prospettive di riforma che interessano più in generale la forma di Governo nel nostro Paese, prima ancora che l’aspetto più specifico del rapporto di fiducia, non mi pare si possa ancora esprimere una valutazione ottimistica circa la possibilità di riprendere concretamente nell’attuale legislatura il tema della revisione della forma di governo, data la ancora instabile semplificazione del sistema politico e gli oscillanti rapporti, tendenti per vari aspetti al negativo, tra maggioranza e opposizione.
Come noto gli sforzi prodotti nelle legislature precedenti, a partire dal 1992, con la commissione De Mita – Iotti e, successivamente con la commissione bicamerale D’Alema e con la riforma costituzionale della XIV legislatura, sono stati tutti rivolti a potenziare la figura del primo ministro e del governo più in generale.
Il dibattito parlamentare sulla fiducia al Governo attualmente in carica sembrava avere aperto, almeno all’inizio, interessanti prospettive, con il leader del partito al quale appartengo, Walter Veltroni, pronto a impostare una politica di dialogo su temi rilevanti, a cominciare proprio dall’architettura istituzionale dello Stato e con il Presidente del Consiglio che, nel dibattito alle Camere sulla fiducia al Governo, ha raccolto questa disponibilità. Purtroppo, gli avvenimenti successivi (dettati da alcune posizioni del Governo in tema di giustizia, ad esempio il “blocca – processi” poi dovuto ritirare – anche per la battaglia dell’opposizione) sembrano aver reso più incerta questa prospettiva.
La responsabilità non esclusiva ma certo primaria per creare un clima di confronto positivo, costruttivo, spetta – sempre – a chi è maggioranza.
Il terreno delle riforme istituzionali, mi pare oggi come non mai necessario e urgente, ma vedo anche il rischio di un’altra legislatura perduta.
Si può riprendere il confronto dal progetto di revisione costituzionale (testo “Amici-Bocchino”), approvato in Commissione Affari Costituzionali della Camera nella scorsa legislatura, sul quale si determinò un voto convergente tra maggioranza e opposizioni.
Occorre quindi soffermarsi sui contenuti di quel testo che, oltre alla revisione degli artt. 92 e 94 Cost., propone la riforma del bicameralismo e del procedimento legislativo e degli artt. 76 e 77 della Costituzione, in materia di atti con forza di legge del Governo.
Si tratta di tre ambiti sui quali la necessità di un intervento riformatore appare in gran parte condivisibile, anche perché richiama molti dei punti sui quali il precedente Governo, del quale ho fatto parte, aveva già lavorato.
Mi riferisco in particolare alle innovazioni riguardanti la forma di governo in senso stretto in relazione alla trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie (nel progetto chiamata “Senato federale della Repubblica”, composto da 250 senatori elettivi ripartiti tra le Regioni in proporzione alla popolazione), che si ritiene escluso dal circuito fiduciario.
E’ chiaro che se si deciderà che il Senato riformato possa essere escluso dal circuito di formazione dell’indirizzo politico di maggioranza, lasciando che sia esclusivamente la prima Camera titolare del rapporto di fiducia verso il Governo, occorrerà allora considerare che la parte del procedimento legislativo di spettanza della Seconda camera permetta una piena rappresentanza degli interessi delle autonomie.
Resta da approfondire un nodo cruciale che riguarda i modi di elezione del Senato. Non può essere in parte composto da delegati dei governi regionali, in parte da quelli dei Consigli, un’altra parte ancora dei Comuni, Province con diversi sistemi di designazione. Vi sono di fronte a noi due alternative chiare e tra queste dobbiamo compiere una scelta: il Bundestrat italiano o la elezione del Senato federale a suffragio universale, in collegamento magari con le elezioni regionali. Se la elezione continuerà ad avvenire a suffragio universale è comunque difficile che il Senato possa essere privato del voto di fiducia. Si potrà in tal caso stabilire sia per il voto di fiducia che per quelli collegati alla sfiducia costruttiva – comunque da introdurre in una riforma costituzionale – una sessione congiunta , per così dire “il Congresso” di Camera e Senato. Resta in ogni caso fermo che si dovrà intervenire sulle competenze prioritarie e che si dovrà procedere ad una riduzione del numero complessivo dei parlamentari.
Per quanto riguarda la Camera essa risultava nel progetto citato composta da 512 deputati di cui dodici eletti nella Circoscrizione estero tra tutti i cittadini maggiorenni (verrebbe meno quindi anche per la Camera la disposizione che limita l’elettorato passivo a venticinque anni) e, oltre ad essere inserita nel circuito fiduciario, si vedeva riconoscere competenze prevalenti nel procedimento legislativo.
Per quanto riguarda la revisione degli artt. 92 e 94 Cost. il testo prevedeva: la revoca dei Ministri da parte del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio; la elezione da parte della Camera del Presidente del Consiglio; l’innalzamento dei quorum per la presentazione della mozione di sfiducia (un terzo dei componenti la Camera) e per l’approvazione (maggioranza assoluta dei componenti).
Come si vede, si tratta di meccanismi di razionalizzazione. Per di più, il progetto in esame, pur prevedendo che sia il Presidente del Consiglio ad avere la fiducia della Camera e a proporre la revoca dei Ministri, non toccava l’assetto dei rapporti tra gli organi del Governo quale si desume dagli artt. 92 e 95 Cost., con ciò rinunciando a porre un assetto generale coerente con le innovazioni previste.
Mancava inoltre, a mio giudizio, il recepimento degli istituti caratterizzanti la forma di governo tedesca o spagnola, come la sfiducia costruttiva e la possibilità per il Primo ministro di porre la questione di fiducia sul programma o su una dichiarazione di politica generale e, in caso di reiezione, di chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento anticipato del Parlamento.
Non è tuttora facile prevedere come si potrà in concreto sviluppare il confronto tra le forze politiche rispetto alla possibile, sostanziale riproposizione di questo testo. Certamente un’analisi chiara e realistica degli obiettivi di un percorso di riforma ispirato ad una “democrazia decidente” fondata su chiare alleanze per il governo e non più su coalizioni eterogenee, esclude la necessità di allontanarsi dal modello parlamentare, assecondando così quel “mito” astratto delle grandi riforme costituzionali.
Invece mi pare più utile, come ho sempre sostenuto anche nella mia esperienza passata di ministro (con delega alle riforme istituzionali), sostenere una serie di emendamenti puntuali al testo costituzionale, cui dovrebbe aggiungersi una serie di interventi di riforma su altri piani (legge elettorale; regolamenti parlamentari) altrettanto, e per alcuni profili, ancor più rilevanti. Viceversa, l’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo (nelle diverse varianti in cui essa può essere immaginata), al di là degli inconvenienti cui potrebbe dare luogo, sembra, si potrebbe dire una risposta “vecchia” e comunque datata rispetto ad un problema che oggi si presenta in forme potenzialmente assai nuove.
Oggi, in virtù dei profondi, ma ancora non definitivi, cambiamenti del sistema politico, la tendenza in atto sembra ridurre fortemente il perimetro delle due coalizioni, semplificando il sistema dei partiti. Il quadro è destinato con ogni probabilità a mutare profondamente, con conseguenze anche sul piano degli equilibri interni alla forma di governo. Se, come è possibile, l’evoluzione in atto porterà a consolidare sul piano dei consensi elettorali la semplificazione del sistema dei partiti e si avrà in modo stabile una articolazione in due soggetti politici a “vocazione maggioritaria”, senza tuttavia disperdere la ricchezza e l’articolazione del pluralismo politico che caratterizza la storia e l’identità del nostro Paese, non sarà necessaria né utile una riforma costituzionale di tipo presidenzialista.
Potrà essere seguita la via di un Parlamento forte e di un governo parlamentare altrettanto forte e autorevole.
È l’indirizzo riformatore giusto per l’Italia, più coerente anche con un federalismo che – come esprime il termine – renda più coeso, moderno, efficiente il nostro Paese.

Vannino Chiti