Intervento del Sen. Vannino Chiti
Vicepresidente del Senato
Nell’ambito del Convegno su:
Il Parlamento non è solo legislatore
Roma, 7 ottobre 2008.

Ringrazio il Presidente della Camera Gianfranco Fini per l’invito a questo seminario e gli autori del libro “Funzioni parlamentari non legislative e forma di governo – L’ esperienza dell’ Italia” Renzo Dickmann e Sandro Staiano per la realizzazione di questa opera.
Una raccolta di interventi seri e competenti, che danno un contributo significativo al dibattito sul ruolo del Parlamento. Come è stato già notato il libro è anche una dimostrazione della qualità dei dirigenti delle nostre istituzioni.
Concentrerò il mio intervento soprattutto sul tema del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Questo aspetto, importante nella vita delle istituzioni democratiche, è analizzato nell’”uso” che se ne è fatto nel sistema politico e istituzionale così da ricostruirne i tratti e le modalità di attuazione.
La grande quantità di esperienze derivanti dalla prassi parlamentare ci consente di osservare come l’articolo 94 della Costituzione, relativo all’istituto della fiducia, sia stato nel tempo applicato con modalità che spesso, come tenterò di spiegare più avanti, si sono distaccate dal contenuto testuale della norma costituzionale. Sia che si tratti di singoli episodi, sia che si tratti di comportamenti consolidati nel tempo, è un fatto che l’evoluzione di prassi nel rapporto di fiducia in epoca repubblicana abbia pesato e pesi tuttora così tanto da aver riconosciuto all’articolo 94 – una norma che non definisce ma nomina semplicemente gli strumenti del rapporto di fiducia – molti più significati di quanti non se ne possano immaginare ad una prima lettura.
Il rapporto fiduciario è forse la principale chiave con la quale interpretare il potere d’indirizzo generale del Paese che il Parlamento è chiamato ad esercitare. E’ evidente, però, che per avere una visione chiara delle peculiarità di questo rapporto occorre isolare ed esaminare ciascuno dei tre strumenti di cui esso si compone, ovvero la mozione di fiducia al momento di insediamento del nuovo Governo; le eventuali questioni di fiducia sollevate dagli esecutivi nel corso del loro mandato; le eventuali mozioni di sfiducia presentate dalle minoranze parlamentari sulla base di quanto disposto nell’articolo 94.
La considerazione di come il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento segua percorsi diversi da quelli del testo costituzionale, senza per questo portare ad una sua violazione, spiega come il “dovere” per il Governo di ottenere la fiducia non richiami un comando, ma gli effetti giuridici di una relazione che nasce dalle dinamiche dell’esperienza del sistema politico. Bene fa Giuseppe Renna, nel suo articolo su “Instaurazione e verifica del rapporto di fiducia tra Camere e Governo” contenuto nel libro di cui discutiamo quest’oggi, ad evidenziare questo aspetto. Il rapporto di fiducia, osserva Renna, non è, come ha ritenuto una parte della dottrina, «una relazione giuridica» ricondotta «a fattispecie proprie del diritto civile o amministrativo, quali la delega, il mandato o la rappresentanza», ma un rapporto la cui essenza è «politica, perché è strumentale a consentire al Governo l’attuazione del proprio programma politico, che è quello stesso sul quale la maggioranza che vi si esprime ha avuto il consenso degli elettori». Un rapporto trilaterale, più che bilaterale, dunque, poiché la relazione fiduciaria si stabilisce nei confronti sia della Camera che del Senato, considerati separatamente (anche in virtù dei poteri differenti, come avviene nelle procedure, di cui dirò, della questione di fiducia); un rapporto che si configura come relazione “esclusiva”, poiché non sono sottoponibili alla giurisdizione, ma solo al giudizio insindacabile della volontà popolare, gli atti che interrompono il vincolo della fiducia.
Questa prima riflessione mi permette di richiamare – quasi come fosse la cornice di fondo del tema del rapporto di fiducia – la centralità del programma nel rapporto in generale tra Parlamento e Governo e nell’istituto della mozione di fiducia in particolare. Si tratta, a mio avviso, di un aspetto sul quale non sempre si è riflettuto con la dovuta attenzione. Come noto l’articolo 94 della Costituzione non contempla espressamente l’obbligo per l’Esecutivo di comunicare un programma al momento della sua presentazione alle Camere per ottenere la fiducia. La Costituzione parla di mozione motivata, votata per appello nominale.
Tuttavia non è mai stata messa in discussione, dopo il varo della Costituzione, la valenza costituzionale dell’obbligo a carico del Governo di presentare un programma davanti alle Camere. Non è un caso che proprio la legge n. 400 del 1988, che ha ridisegnato le funzioni del Governo e, al suo interno, il ruolo della Presidenza del Consiglio, ha statuito che è obbligo giuridico-costituzionale del Governo chiedere la fiducia in base ad un «impegno programmatico».
Infatti è proprio il programma nel suo complesso l’oggetto della fiducia parlamentare e non i singoli atti successivi che il Governo compie nel corso della legislatura per i quali, precisa il comma 4 dell’articolo 94, «il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni». E’ ai contenuti del programma che si riferisce la motivazione che necessariamente deve accompagnare la mozione di fiducia (in occasione della fiducia al Governo Berlusconi II, addirittura la mozione conteneva un riferimento testuale esplicito alla condivisione del programma del Governo). Ancora, è il programma a conferire identità, visibilità e autonomia politica e istituzionale al Governo, il quale, in caso contrario (analogamente a quanto avveniva in epoca statutaria), rimarrebbe completamente in balìa del Parlamento, a quel punto unico titolare dell’indirizzo politico. E’ il programma, infine, a dare significato alla dialettica tra Parlamento – o meglio tra maggioranza parlamentare – e Governo e a responsabilizzare con puntualità entrambi di fronte alla sovranità popolare e, dunque, al giudizio degli elettori.
Senza l’approvazione del programma il Parlamento non potrebbe assumere quella funzione di controllo che, a mio giudizio, oggi diviene decisiva e sua peculiarità. Voglio sottolineare con forza questo aspetto: nel Parlamento moderno cresce quella funzione di controllo nel nostro Paese sottovalutata e mal praticata. Occorre allora rivisitare gli strumenti di controllo esistenti, dal sindacato ispettivo – interrogazioni, interpellanze, question time, commissioni d’indagine conoscitiva e d’inchiesta – ed è necessario definire quelli relativi alle Authority ancora oggi inesistenti.
Ciò che qui vorrei evidenziare è il fatto che, nonostante dalla nascita della Repubblica si sia verificata una costante di comportamenti per cui le Camere hanno sempre votato la fiducia al Governo sulla base di un programma, ciò non ha significato però una netta cesura dalla tradizione dello Statuto Albertino, durante il quale il gradimento parlamentare era basato sulla configurazione personale del governo, a prescindere per molti aspetti dal suo indirizzo. Infatti, nel susseguirsi delle legislature dal 1948 ad oggi, abbiamo potuto osservare come il modello del parlamentarismo partitico abbia posto in secondo piano la funzione del programma di Governo, come si potrebbe intendere negli ordinamenti degli Stati di tradizione liberal-democratica, prediligendo gli schieramenti politici e le negoziazioni tra partiti nella gestione, talora oserei dire “quotidiana”, della pubblica amministrazione.
In gran parte dell’esperienza repubblicana del nostro Paese, infatti, l’elemento del programma è stato vissuto più come aspetto formale nella configurazione del rapporto fiduciario, che come punto di riferimento sostanziale della vita politica del Governo e del Parlamento, che ha finito per essere dominata dalla logica della dialettica tra i partiti, giocata nelle aule parlamentari, con esecutivi di coalizione spesso indeboliti da maggioranze molto instabili.
Pensiamo ai 42 governi che si sono susseguiti nelle prime dieci legislature della Repubblica. L’instabilità delle coalizioni parlamentari di maggioranza, imperniate sulla Democrazia Cristiana, era generata da problemi interni alle coalizioni stesse e a volte agli stessi partiti, rispetto ai quali i meccanismi previsti nell’art. 94 si dimostrarono del tutto inefficaci: le crisi di governo, come ben sappiamo, non erano mai generate da un voto di sfiducia, ma assumevano sempre carattere extraparlamentare. In questo quadro, il ruolo di mediazione del Presidente della Repubblica, nella soluzione delle crisi di governo, è risultato decisivo e si svilupparono molteplici convenzioni costituzionali che andarono ad integrare le scarne disposizioni degli artt. 92 e 93 della Costituzione, sulla formazione del governo, sulle quali non ho ora il tempo di soffermarmi.
Tuttavia, nelle esperienze delle ultime legislature, soprattutto grazie alla nascita di un assetto maggioritario del sistema parlamentare, l’elemento del programma ha assunto un ruolo più stringente, proprio a partire dalla competizione elettorale e dal rapporto delle coalizioni con il corpo elettorale. E’ evidente, inoltre, che nelle democrazie che abbiano adottato sistemi maggioritari, o prevalentemente maggioritari, il rapporto tra procedimento elettorale e procedimento di formazione dei governi appare più direttamente legato e, dunque, la forza politica del programma elettorale vincente si trasferisce nel programma sul quale il Governo chiede ed ottiene il gradimento del Parlamento.

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