Intervento del Vice Presidente del Senato, Vannino Chiti

“Prima di tutto vorrei ringraziare in modo non formale il Centro “Donati” e il suo Presidente Giancarlo Niccolai che ha organizzato questo incontro; la Cassa di Risparmio che ci ospita in questa sala bellissima; tutti coloro che sono presenti e naturalmente, con grandissima riconoscenza, il direttore de La Nazione Francesco Carrassi, Monsignor Mansueto Bianchi, il professor Giorgio Petracchi e i miei colleghi, il Presidente della Provincia Gianfranco Venturi e il Sindaco Renzo Berti.
Prima di rispondere alle domande del direttore Carrassi vorrei dire brevemente alcune cose, molto semplici.
La prima, in risposta a ciò che ha detto Mons. Bianchi.
La “e” di Laici & cattolici è di tipo commerciale, perché ho voluto darle un senso polemico: non si tratta di soggetti contrapposti. L’elemento della laicità è comune, è un terreno su cui non si piantano bandierine ma è luogo di confronto, dibattito, di ricerca di soluzioni condivise. Nel dibattito culturale e non solo politico, invece, si continua a dire “o laici o cattolici”. Oggi, se dovessi riformulare il titolo del libro, forse non userei neppure più il termine “laico laico” per un verso e per l’altro “laico credente”. Userei magari espressioni più sofisticate come “laico credente” e “laico diversamente credente”.
Il libro si compone di quattro parti. La prima parte è costituita dalle due premesse, quella vecchia e quella nuova, seguite dal dialogo con il Cardinale Piovanelli. C’è poi la terza parte a proposito della quale ringrazio il professor Petracchi per le considerazioni da lui espresse nel suo intervento e legate alla storia.
In realtà devo dire che, dal mio punto di vista, si tratta di una sezione legata più alla biografia che alla storia. Ha a che fare con il modo con il quale io ho attraversato le vicende dell’epoca. Le mie esperienze a loro volta si sono intrecciate con la storia.
Da ultimo segue ovviamente la cronologia.
Ancora una questione, in risposta a Mons. Bianchi, riguardante il punto “ragione e fede”.
Dieci anni fa non potevo prevederlo, ma oggi mi sento molto vicino all’approfondimento che l’allora Cardinale Joseph Ratzinger (prima di diventare Papa Benedetto XVI) fece nel 2004, all’Università Cattolica di Monaco insieme al filosofo Jürgen Habermas: un bellissimo dialogo, forse uno dei più innovativi. E’ da lì che il ragionamento dovrebbe continuare a svilupparsi. Quello è il punto. Che cosa la religione può dare alle persone di questo XXI secolo, al di là del fatto di essere credenti o meno. Come può la religione convivere con il mondo moderno, su che cosa si fonda la comunità dei credenti, in che modo la comunità intera, comprensiva dei non credenti, possa trovare nella religione un suo importante riferimento. Tra l’altro in quel dialogo c’era una conclusione del Cardinale Ratzinger, davvero di grandissimo spessore e coraggio, che recitava nella sostanza: “Attenzione, oggi il mondo ha bisogno di momenti unificanti, e non ci sono valori che unifichino la famiglia umana”.
Un’ultima riflessione prima di venire alle domande del direttore Carrassi. Io credo fermamente nella considerazione che faceva il professor Petracchi, penso davvero che la laicità così come ci è stata consegnata dalla storia – e per me si tratta di un grande valore – rischi di non farcela, possa venire travolta. Due sono i pilastri della laicità.
Il primo pilastro è quello dell’autonomia reciproca tra Stato e Religione, non solo quella Cattolica ma le confessioni religiose in genere. Dobbiamo avere ben presente che in molte parti del mondo una tale conquista non si è affermata nell’ordinamento delle nazioni.
Il mondo occidentale rischia di non riuscire a gestire, nel modo adeguato, la situazione che si presenta nel mondo musulmano nel quale, se si eccettua il caso della Turchia, gli elementi della laicità sono del tutto inesistenti o al massimo allo stato embrionale. La sfera politica, il momento pubblico sono sussunti e subordinati al credo religioso. Tutto ciò è incompatibile con una vera democrazia, con un pieno diritto di cittadinanza e con l’affermazione dei diritti umani. Esiste una via di mezzo tra l’indifferenza e l’ uso della violenza, dei carri armati per far “trionfare” la libertà. Io non credo ai carri armati come mezzo per “esportare” democrazia e giustizia, ma non credo neppure al fatto che non ci debba essere da parte nostra una battaglia culturale, una battaglia delle idee convinta, forte, non rassegnata e rinunciataria. La laicità nata in Occidente rappresenta oggi un grande valore per il mondo, per la convivenza in società multietniche.
L’altro pilastro della laicità consegnatoci dalla storia, quello della fede religiosa vista come un semplice fatto privato, invece non funziona più: non può reggere all’urto della storia. O si riconosce e si organizza una dimensione pubblica in cui ci sia piena cittadinanza anche per l’espressione delle fedi religiose, oppure la laicità verrà sconfitta e per una fase storica ridimensionata, se non archiviata.
Naturalmente la dimensione pubblica deve essere ridefinita con rigore, anche nella diversità dei suoi momenti.
Quando ad esempio un vescovo parla ai suoi fedeli di verità di fede, chiedendo comportamenti coerenti a queste, allora esprime una norma che si regge sul principio di condivisione e di autorità.
Quando invece il vescovo, o la Conferenza dei vescovi, intervengono direttamente nella sfera pubblica, è chiaro che, in quel momento, non esprimono una posizione che possa essere accolta da tutti per fede: quella indicazione non si accoglie come verità assoluta, non lo è.
Ciò che viene enunciato si pone sul terreno del confronto, della discussione.
I due capisaldi che reggono la sfera pubblica sono infatti da un lato il principio del consenso, della maggioranza, dall’ altro il fatto che esistono dei diritti delle minoranze culturali o religiose, che sono inviolabili. Ovviamente si tratta di diritti iscritti nei principi costituzionali, nella dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, non di forme che giustifichino il permanere di una oppressione nei confronti delle persone o più spesso della donna.
Tuttavia, ciò che non mi convince, anzi, che mi sembra più negativo, è il fatto che quando la Conferenza Episcopale Italiana prende una posizione su temi come la guerra e la pace, le ingiustizie o la fame nel mondo, ci sia una parte della politica – la sinistra, le forze progressiste – che plaude e l’altra, i partiti conservatori, che ritiene si tratti di un pronunciamento inopportuno; quando però la Cei interviene sulla famiglia o sulle questioni etiche, avviene il contrario. Secondo me è questo che non funziona, che ci indica un rapporto non giusto tra politica e istituzioni religiose. La questione della legittimità o meno dell’intervento della Chiesa cattolica o delle altre confessioni religiose non deve essere posta.
Non può mai e su nessuna questione essere messo in dubbio il diritto di una Chiesa di esprimersi in modo pubblico.
La Chiesa deve essere presente nella vita pubblica. Il problema non è di legittimità, di ingerenza, bensì di merito. E’ del tutto giusto e normale che nel merito uno possa dire “io sono d’accordo”, “io sono in disaccordo”, ma non indignarsi perché viene presa una posizione della Chiesa nella sfera pubblica. Altrimenti è la laicità ad essere messa a serio rischio.
Devo dire, come traccia di dialogo, che mi è piaciuta molto la ricostruzione che sulla laicità ha fatto un giurista protestante francese (che cito nel libro), Jean Baubérot, perché mi pare sappia darci il senso della difficoltà, della tenacia, della ricerca che deve accompagnarsi ai valori che si sentono nostri, che orientano la nostra vita. Baubérot fa l’esempio del triangolo: su un lato ci sono i credenti della religione maggioritaria di un Paese, sull’altro ci sono i non credenti, sul terzo lato i credenti delle religioni non maggioritarie. La laicità non implica che uno dimentichi il lato in cui si colloca, da cui muove, altrimenti dimenticherebbe sé stesso. La laicità, però, non è neppure l’imposizione di una posizione. La laicità consiste piuttosto nello spazio comune contenuto all’interno dei lati del triangolo, che indica qual è lo sforzo che ognuno deve compiere, la costruzione di risposte condivise, da realizzare nel rispetto della propria identità, delle convinzioni ideali di fondo.
Venendo alle domande del direttore Carrassi.
Come è nato il libro? E’ stata la casa editrice, vista la richiesta di copie del vecchio libro che ricevevamo ed il suo esaurimento, che mi ha proposto di fare una seconda edizione con una nuova prefazione e un aggiornamento della cronologia. Io all’inizio ho esitato: fare una nuova edizione dopo tre anni è una cosa, dopo dieci anni è ben diverso, ma poi rileggendo il libro mi è parso che quei temi, al centro del dialogo con il Cardinale Piovanelli, non solo non avessero perso importanza, ma si fossero caricati d’urgenza, fossero ancora più presenti e rilevanti.
Per quanto riguarda la nascita del libro, nel 1999 mi parve che, un po’ per la mia storia personale politica e culturale, per le mie convinzioni; un po’ per il clima e per la nuova fase che si apriva anche per il nostro Paese; infine per i rapporti di grande rispetto e di amicizia con il Cardinale Piovanelli, fosse giusto e significativo provare a discutere insieme attorno a temi che riguardavano la religione, l’etica, la società, le sfide che si annunciavano per il nuovo secolo, dalle migrazioni all’ambiente, dal terrorismo alle povertà, dalla pace alla democrazia.
Partendo certamente dai ruoli che avevamo – allora io ero Presidente della Toscana e il Cardinale Piovanelli Arcivescovo di Firenze -, ma anche avendo entrambi la libertà e l’autonomia di poter dire su quei temi quello che pensavamo, osservando i nostri punti di convergenza e quelli di differenza. Volevamo far vedere che era necessaria e possibile una fase nuova del dialogo, una fase in cui ci confrontavamo attorno alle stesse sfide, perché era non solo lontana la fase del combattersi o ignorarsi, ma anche quella di misurarsi come mondi separati. Questo è stato sicuramente l’aspetto che ha mosso ancor di più il confronto.
A maggior ragione, dunque, vorrei rinnovare il mio ringraziamento al Cardinale Piovanelli che rappresenta una esperienza pastorale significativa non solo per Firenze e la Toscana, ed è una personalità di primo rilievo non solo per la Chiesa ma per la comunità Paese.
Ancora oggi sono molto contento di aver contribuito a quel dialogo. Nel pieno rispetto delle persone, delle loro storie, delle loro convinzioni personali. E’ anche per questo, forse, che è stato possibile trovare tanti punti significativi di convergenza, nel nostro tempo così necessari.
Infine, come è scritto nella Premessa della prima edizione del libro, nel 1999 venni colpito anche dalla decisione di Papa Giovanni Paolo II di indire l’anno santo per il 2000. Dapprima mi parve il perpetuarsi di forme arcaiche di presenza della Chiesa, dure ad essere rimosse. Poi venni per così dire attratto dalle modalità inedite, volute dal Pontefice, per la sua preparazione: mi riferisco soprattutto al perdono chiesto dalla Chiesa pubblicamente per tutte le volte che, nel corso della storia, aveva travisato o tradito il messaggio di Cristo. Veniva così presentata l’immagine non di una Chiesa trionfante ma di una Chiesa al servizio dell’uomo, imperfetta ma ferma nella volontà di portare il suo messaggio di salvezza.
Anche questa scelta mi apparve come una opportunità grande per un dialogo a tutto campo.
Permettetemi di concludere ancora con una considerazione sul dialogo: è indispensabile e deve, dovrebbe, rappresentare un modo permanente di essere della nostra società, della nostra convivenza.
Troppo spesso ci innamoriamo dei monologhi, di una volontà cioè del dire, di un rifiuto di ascoltare.
Dentro i monologhi nascondiamo le nostre incertezze, le nostre paure, i nostri egoismi. Talora li corazziamo con un di più di arroganza.
Per questa via la società si disgrega, la incapacità di comunicare diviene prevalente. Si perde la capacità di educare cioè di trasmettere i valori. Si riducono i valori stessi a ideologia, contraddicendoli nei comportamenti di ogni giorno. Si predicano, non si praticano.
Anche la responsabilità verso gli altri viene meno, sostituita da una rivendicazione esclusiva dei diritti, senza il necessario collegamento con i doveri.
Per questa strada non si incontra il futuro, non si ha né si dà speranza, un senso vero e forte della vita. Per questo voglio concludere con un “elogio del Dialogo”, come capacità delle persone di parlarsi e di ascoltarsi, di rispettarsi e di trovare ciò che le unisce, ciò che insieme possono fare per rendere il mondo più giusto e migliore.
Un nuovo umanesimo è ciò che dobbiamo elaborare e realizzare, tenendo fermo come riferimento l’ uomo nelle sue molteplici dimensioni, materiali e spirituali; il valore della dignità della persona, della sua vita, della sua promozione.
È questo il filo che lega le varie parti del libro, il contributo che esso si propone di dare ad una comune riflessione e ad un comune impegno.