Intervento di Vannino Chiti sulla pubblicazione “60 anni di Costituzione laicità fra storia e futuro – Nuove frontiere.
Rapporto tra Stato e chiese nella società multiculturale”.
A cura della senatrice Emanuela Baio.

1) Prima di svolgere alcune considerazioni su di noi, la laicità, la nostra Costituzione, vorrei definire, seppure in modo schematico, un quadro generale nel quale a me pare giusto iscrivere la vicenda del nostro Paese. La laicità è un principio cardine per la vita delle società democratiche: non è un principio dell’Occidente ma un valore dell’umanità, allo stesso modo dei diritti universali. La laicità è inseparabile dalla libertà e senza la libertà la persona non può esprimere la sua dignità e ricchezza umana.
La laicità nelle società contemporanee è ancor più essenziale che nel passato, anche recente: sempre più intorno a noi si manifesta una convivenza che mostra i segni di etnie, culture, religioni diverse.
Questo pluralismo, talvolta tumultuoso e dirompente, è un
o degli esiti di quella che chiamiamo globalizzazione. Si tratta di processi non evitabili ma che occorre imparare a governare: con questa sfida deve misurarsi la democrazia del nostro tempo.
A questo punto è bene provare a dare una definizione della laicità. La laicità è il limite e la misura che garantisce alle attività umane di organizzarsi e svilupparsi al riparo dai condizionamenti imposti dall’esterno, per fini diversi da quelli a cui esse si ispirano.
Come appare evidente i rapporti tra Stato e Chiesa, tra politica e religioni, rappresentano un aspetto fondamentale della laicità, ma non la esauriscono. Ancor più appare manifesta l’assurdità, che continua a resistere nella cultura non solo nel senso comune, di stabilire una contrapposizione tra i termini laico e cattolico o più in generale credente. Per quanto riguarda il riconoscimento di una reciproca autonomia tra fede e sfera temporale esso trae un suo primo fondamento dall’insegnamento stesso di Gesù: “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” .
Nei miei personali ricordi – e dunque senza pretesa di fondamento scientifico – tengo a mente due affermazioni importanti, che rivendicano il diritto dell’autonomia della ricerca filosofica e di quella scientifica. La prima di Guglielmo di Ockham che nella prima metà del XIV secolo, nei confronti del Vescovo di Parigi che aveva condannato alcuni posizioni di S. Tommaso, afferma: “le osservazioni principalmente filosofiche, che non concernono la teologia, non debbono essere da alcuno condannate o interdette, giacchè in esse chiunque deve essere libero di dire liberamente ciò che gli piace” . E Galileo Galilei nel XVII secolo ribadirà a favore della scienza gli stessi principi: “la Sacra Scrittura e la natura procedono entrambe dal verbo divino. Ma mentre la parola di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli uomini ai quali si rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non trascende i termini delle leggi impostegli perché non si cura che le sue recondite ragioni siano o non siano comprese dagli uomini”.
2) Per quanto risulti fondamentale per lo sviluppo di società libere, la laicità conosce una diffusione limitata se guardiamo al mondo ed agli ordinamenti delle nazioni: non si realizza pienamente in Stati pur organizzati sulla base di principi democratici, come quelli in cui è storicamente maggioritaria la Chiesa ortodossa o in quello di Israele. È inesistente nei paesi islamici.
È sbagliata l’indifferenza con la quale le forze democratiche e la cultura progressista si occupano dei diritti umani e dello stesso progredire della laicità nei paesi che li violano e la ostacolano. La battaglia delle idee, la fermezza dei principi, l’impegno per porre anche tali obiettivi al centro di progetti di cooperazione non è interferenza.
Occorre liberarsi di queste impostazioni, frutto di visioni ancorate al nazionalismo del XIX secolo. Nessun appello alla sacralità dei confini e della sovranità dovrebbe giustificare nel mondo, ormai reso un villaggio planetario, la possibilità di opprimere fondamentali diritti di cittadinanza, nei quali, a pieno titolo, si iscrive la laicità.
Nei paesi nei quali la dimensione pubblica è resa subalterna ed occupata da un credo religioso o da una ideologia politico – filosofica; nei quali i cittadini non hanno uguaglianza di diritti e doveri, ma sono discriminati sulla base del sesso o delle convinzioni religiose o culturali, lì, al di là delle forme dello Stato, la libertà è parziale o compromessa, la democrazia inesistente o povera, la cittadinanza svuotata dei contenuti per noi irrinunciabili.
Un modo nuovo e più coerente di vivere i principi scolpiti nella nostra Costituzione è quello di imparare a non guardare soltanto a noi stessi, come se fosse sufficiente o possibile affermarli nel giardino di casa nostra, disinteressandoci di come si realizzano intorno a noi, nel resto del mondo. I valori fondamentali dell’umanità sono indivisibili: non sopportano amputazioni.
3) Per di più la laicità mostra una sua fragilità, esposta come è non soltanto agli attacchi portati da opposti fondamentalismi, ma anche dall’emergere di alcune sue insufficienze e inadeguatezze, di fronte al mutare del mondo intorno a noi.
La laicità che conosciamo è un importante lascito del pensiero e della esperienza liberale. Si fonda su due pilastri: la reciproca autonomia tra Stato e confessioni religiose; la concezione della esperienza religiosa come di un diritto dei singoli cittadini, relegato però nel privato, nelle coscienze, nel segreto dei cuori. Il primo pilastro rimane una conquista irreversibile. Il secondo è superato dal concreto svolgersi delle vicende storiche. Il fenomeno religioso si presenta con rinnovata forza e con caratteri che domandano l’accesso alla sfera pubblica. Il negarlo cozzerebbe contro una tendenza della storia, ignorerebbe un segno dei tempi: la laicità si priverebbe di una solida e ampia base di adesione. La nostra iniziativa deve contribuire a prevedere ed organizzare uno spazio pubblico, al cui interno si muovano liberamente le Chiese cristiane, le altre confessioni religiose, le culture di differente orientamento. A questo deve tendere, anche in Italia, una legge sulla libertà religiosa, garantendo una uguale libertà ai cittadini quale che sia la fede professata.
Quello di cui abbiamo bisogno oggi è una laicità di integrazione: non un luogo indistinto dato dall’assenza di valori condivisi. La stessa scelta della laicità è un valore in sé. A fondamento della laicità è poi la persona, nella sua interezza e nella sua irripetibilità: la sua dignità, il suo bisogno di una relazione con gli altri. La persona non è l’individuo egoistico. A fondamento della laicità deve allora esser posto il limite – che deve guidare ogni azione umana – di non irreversibilità delle scelte che vengono compiute relative alla dignità della persona, delle sue relazioni con gli altri e con il pianeta.
A me piace molto – e cito spesso – l’immagine proposta dal giurista protestante francese Jean Bauberot.
La laicità, ci dice, va pensata come un grande spazio disegnato dai tre lati di un triangolo. Gli atei e gli agnostici partono dal lato della laicizzazione cioè dall’affermare solennemente che lo Stato non si puo’ identificare con nessuna confessione religiosa. Uno dei principi costitutivi della laicità, ma non l’unico.
Gli appartenenti alla religione di maggioranza partono da un altro lato, quello della libertà: la libertà religiosa, la libertà di manifestare la religione in pubblico, di esprimersi su tutti i temi pubblici.
Ma anche questo non è l’unico lato della laicità. Infine quanti aderiscono alle confessioni minoritarie partono dal terzo lato, quello dell’uguaglianza: sostengono che la differenza numerica non deve comportare disparità di trattamento.
Anch’essi rischiano di restare fermi nel loro singolo lato. La laicità è invece l’attitudine mentale a partire dal punto nel quale si è collocati senza dimenticare che le decisioni che dobbiamo prendere insieme, nella sfera pubblica, stanno appunto dentro lo spazio racchiuso dai tre lati.
A nessuno è chiesto di rinunciare alla propria identità, di smarrire se stesso, i propri valori di riferimento: a tutti è chiesto di aderire ad un metodo che si fonda sul confronto, sul dialogo, sulla persuasione che non si possono imporre con il braccio dello Stato convinzioni di fede.
I valori in quanto tali sono tutti e per ognuno di noi non negoziabili. Ma se ai valori si decide di dare gambe concrete, se vi è la necessità di tradurli in leggi, allora è indispensabile ricercare mediazioni con gli altri, costruire soluzioni condivise. È questo il campo in cui si gioca la responsabilità non delegabile dei laici credenti o, come ormai si è soliti dire, diversamente credenti. Ed è il campo nel quale agisce come guida insostituibile e comune la ragione. Le leggi non sono un assoluto: tengono conto delle conoscenze disponibili in un determinato momento, degli orientamenti dell’opinione pubblica, dei rapporti di forza politici. Una legge fa riferimento a dei valori ma non può che esserne una parziale realizzazione: in caso contrario non si ha a che fare con uno Stato laico ma con uno Stato etico o totalitario.
4) La Costituzione italiana mostra anche a proposito del rapporto con le confessioni religiose una straordinaria lungimiranza. Non si limita ad affermare la reciproca autonomia ma esprime l’impegno dello Stato a promuovere le condizioni per la libera espressione delle fedi religiose.
La religione non è riducibile a semplice fatto privato, lo Stato non si limita ad un ruolo di indifferente neutralità, ma assume una funzione di garante per la salvaguardia della libertà religiosa, in un regime di pluralismo confessionale e culturale.
La nostra Costituzione consente dunque lo sviluppo di quella laicità rinnovata, alla quale prima facevo riferimento.
E’ sbagliato da parte della politica vivere come un’invasione di campo ogni intervento pubblico della Chiesa cattolica o delle altre confessioni religiose sui temi al centro della nostra convivenza: che siano la guerra e la pace, lo sviluppo e le povertà, il matrimonio e il divorzio, la fecondazione assistita e l’eutanasia, oppure le altre questioni della bioetica ormai divenute domande che richiedono risposte anche dallo Stato.
Non si deve rimpiangere il tempo nel quale la Chiesa cattolica aveva in Italia un partito politico di riferimento e chiedeva ai credenti di sostenerlo con il loro voto. In ogni caso questo nostro tempo non ha bisogno di un partito di cattolici.
Naturalmente se si decide di intervenire nella sfera pubblica non si può rivendicare l’esistenza di dogmi da accettare per il tramite della fede. Le leggi dello Stato non sono il braccio secolare di una fede religiosa, neppure di quella condivisa dalla grande maggioranza dei cittadini: devono guardare al bene comune. La sfera pubblica si regge su altri principi: quello di maggioranza rispetto alle scelte di ordine politico, sociale, economico; quello che garantisce alle minoranze culturali e religiose l’insopprimibilità di quei loro diritti coerenti con la Costituzione e la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Lo Stato laico deve garantire gli spazi per l’esperienza religiosa e l’uguaglianza dei diritti dei cittadini, non imporre a tutti i precetti di una religione.
Sulla base di queste impostazioni dobbiamo in questi anni misurarci con temi come quelli dell’inizio e della fine della vita, un tempo assegnati alla dimensione privata, o con le domande di rinnovamento che vengono dalla famiglia o da inedite forme di convivenza. Possiamo costruire esiti positivi, se sapremo confrontarci nel merito delle soluzioni, senza la presunzione di verità già possedute, senza schematismi pregiudiziali, ma facendo riferimento alla ragione. Questione di metodo, certo, ma in politica il metodo diviene sostanza. Il nodo centrale, senza entrare nello specifico dei vari temi, è quello del ruolo da assegnare all’autodeterminazione della persona. È questo l’asse che unisce dalla fecondazione assistita al testamento biologico, dalle coppie di fatto alla interruzione volontaria della gravidanza.
Se si ragiona attorno alla cultura da affermare nella società, alla necessità di dare priorità alla vita, alla sua dignità, alla solidarietà e responsabilità verso gli altri, trovo questi obiettivi condivisibili. Vale la pena di sviluppare un impegno in grado di affermarli come valori guida della nostra convivenza. Aggiungo che tali obiettivi sono del tutto coerenti con i principi che orientano la nostra Costituzione. Dunque è fondamentale che l’autodeterminazione delle persone possa avvenire sulla base della cultura della responsabilità e non di un egoismo individualistico, del prevalere di concezioni fondate su quell’edonismo materialistico, prevalente nella società più ricche, che sta privando di senso la vita dell’uomo contemporaneo, facendolo sentire spesso solo, talvolta disperato.
Non ritengo invece che l’autodeterminazione delle persone possa essere sostituita dall’autorità dello Stato. Lo Stato etico o totalitario non rappresenta certo una risposta giusta: occorre avere fiducia nella persona ed affidare all’uomo ed alla donna, alla loro libertà e responsabilità, scelte decisive.
Per gli aspetti di indirizzo, sui grandi principi che esigono un intervento della politica, trattandosi di materie eticamente sensibili dobbiamo assumere l’impegno di procedere nelle Assemblee elettive con maggioranze molto ampie, come si deve fare per le modifiche alla Costituzione. Non si tratta di rinunciare a decidere, bensì di farlo su questi temi con maggioranze qualificate.
Non ho della libertà una concezione che la identifichi con una adesione assoluta al “vietato vietare”: per me libertà e responsabilità sono inseparabili. Non esiste una libertà di distruggere, uccidere, opprimere, autodistruggersi.
Al tempo stesso non è “vietato vietare” che con una maggioranza elettorale, fosse pure del cinquanta più uno dei voti, si imponga ad ogni cittadino come un dovere di comportamento un principio proprio di una fede religiosa.
Il nostro tempo sta cambiando l’idea che aveva accompagnato l’umanità nel corso dei secoli: per usare una espressione di Jacques Le Goff il corpo non appartiene più alla natura. L’artificialità intorno a noi diviene un dato sempre più prevalente, sciogliendo barriere naturali che ci avevano accompagnato e imponendoci scelte prima inimmaginabili.
Ciò non significa – come pretendono alcuni in preda ad un selvaggio liberismo economico e culturale – rinunciare a regole e principi che rappresentino una sorta di stella polare etica di fronte ad innovazioni che entrano nella vita e sembrano sconvolgerla. Ma appunto quello che ci è richiesto è una legislazione per principi, consapevole che il centro della società – e della cultura, anche di quella politica -, è la persona e che alla sua responsabilità in ultima istanza è affidato il “governo della vita”. Certo il “governo della vita” non il “potere sulla vita” che resta indisponibile sia ai singoli che allo Stato.
La vita nella sua singolarità, pienezza, cambiamento, bellezza, non può essere racchiusa in una norma costrittiva e il legislatore non è un giudice che assolve o condanna una volta per tutte.
E’ indispensabile che la nostra vita possa avere a riferimento dei valori comuni, dei principi guida ma le vite di tutti non possono essere racchiuse – sarebbe meglio dire imprigionate – in un unico schema.
Ancora una volta la Costituzione rappresenta un orientamento fondamentale nel sottolineare – per l’attività legislativa e per la cultura da affermare nella società – la priorità che è data dalla libertà, dalla responsabilità e dalla dignità, indissolubilmente unite, sia nella dimensione della persona che in quella sociale. È la Costituzione a parlarci del rispetto della persona e del rifiuto di ogni discriminazione.
Questi indirizzi dobbiamo cercare di affermarli in ogni campo dell’attività umana, anche nella ricerca scientifica. Io difendo l’autonomia e la responsabilità della scienza. Anche questo è scritto nella Costituzione. Non sono però vittima di un positivismo acritico che ignori il senso del limite, il dovere per lo scienziato di rispettare nel suo lavoro il bene supremo della persona e dell’ambiente.
Nel XXI secolo il fine non giustifica più i mezzi: l’uno e gli altri debbono avere un autonomo fondamento etico. Vi è poi il tema della responsabilità sociale per l’uso delle ricerche scientifiche, che spetta alle istituzioni della democrazia. Non tutto ciò che è frutto di una libera ricerca nella sua applicazione può corrispondere al bene comune né può essere lasciata ai soli operatori della scienza la scelta di quello che è giusto per la società.
IL senso del limite e il principio di precauzione sono oggi due condizioni per realizzare il bene comune.
La democrazia e la politica, se vogliono contribuire ad affermare il bene comune in società complesse come le nostre, devono scolpirlo nel loro DNA, farne una condizione del loro rinnovamento.
Ancora una volta torna prezioso il valore della laicità, all’interno delle istituzioni religiose come delle forze politiche. Mi preoccupa il ridursi del protagonismo dei laici cattolici nella vita della Chiesa: nessun vescovo può sollevare i laici cattolici dall’onere di trovare nell’ordine storico-temporale le mediazioni necessarie tra i principi della fede e le concrete dinamiche della nostra convivenza, dalla necessità di trovare soluzioni e di agire insieme agli altri uomini. Il modo di vivere e di organizzarsi, al suo interno e nei rapporti con la società, da parte di una confessione religiosa non può risultare indifferente anche a quanti non si riconoscano in quella specifica fede. Ad esempio la grande scelta del Concilio Vaticano II è stata quella di concepire la Chiesa Cattolica come “popolo di Dio”, come comunità di credenti e non dei soli chierici.
È una delle scelte che segna in modo indelebile il rapporto tra cattolicesimo e contemporaneità.
La cultura laico-progressista ed i partiti che intendono farvi riferimento devono sapersi confrontare con il cattolicesimo e più in generale con la religione. Non è più sufficiente riconoscere una uguale cittadinanza politica a credenti o diversamente credenti. Né ribadire che il compito di un partito politico non è quello di affermare una visione filosofica o religiosa del mondo.
Il non sapersi misurare con le fedi religiose, il loro apporto, il loro sapere parlare ai popoli, renderebbe incapaci di ascoltare e comprendere domande forti di senso della vita che attraversano il nostro tempo.
Si verificherebbe una marginalità e non uno stare in campo da protagonisti di fronte alla sfida più grande ed ambiziosa davanti a noi: contribuire a realizzare un nuovo umanesimo, una società post-secolare, per la quale e nella quale credenti e diversamente credenti, insieme, riscoprano il dialogo come mezzo per costruirla e continuamente rinnovarla.
Del resto è questa la strada perché lo stesso Occidente non si rassegni a perdere il treno della storia. Da noi sta prevalendo un pensiero unico, che si ritiene assoluto e vuole imporsi al mondo. Il pensiero che fa del denaro, del mercato, del potere le nuove divinità del terzo millennio. Il dominio dell’opinione che solo la ragione positivista e le filosofie che ne discendono abbiano un carattere di universalità è per me l’altra faccia della stessa medaglia.
Le culture del resto del mondo, non soltanto quelle più intimamente religiose, vivono questo modo di porsi dell’Occidente come un attacco alle loro convinzioni, ai loro modelli di vita.
Condivido l’impostazione, tante volte richiamata da Papa Benedetto XVI, che occorra il “coraggio di aprirsi alla ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza”, per dar vita ad un dialogo tra culture e fedi religiose.
È necessario promuovere il coraggio di un Occidente che sappia porre al centro del suo ruolo nel mondo il primato della persona, dei suoi diritti, della sua responsabilità e dignità. Della persona nel suo insieme, senza imporre una visione religiosa del suo destino, ma neppure considerando residuo del passato, una specie di sopravvissuto chi in essa sappia vedere anche i segni di una trascendenza.
Quello che sarebbe anacronistico è ricreare vecchi steccati tra credenti e non credenti.
L’incontro tra fede religiosa e ragione per costruire un nuovo umanesimo non è facile, ma è la via giusta per chi non voglia rassegnarsi a perdere il futuro.
Ancora una volta la nostra Costituzione ci accompagna nel cammino appena intrapreso su questa strada inesplorata.