Associazione Eunomia
Fondazione Spadolini

RELAZIONE DEL VICEPRESIDENTE DEL SENATO
VANNINO CHITI

CONVEGNO
La riforma del Senato: una nuova Seconda Camera tra unità della Repubblica e promozione delle autonomie

Firenze, lunedì 27 ottobre 2008, Altana di Palazzo Strozzi
Premessa
Gentili signori,
vorrei ringraziare anzitutto gli organizzatori del convegno di oggi – nelle persone del Prof. Enzo Cheli, Presidente dell’associazione Eunomia, e del Prof. Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini – che hanno avuto la sensibilità di raccogliere l’idea di organizzare in questo delicato periodo di dibattito politico del Paese un momento di analisi e confronto sulle riforme istituzionali. Allo stesso modo desidero ringraziare l’Istituto SUM (Istituto Italiano Scienze Umane) e il prof. Aldo Schiavone per l’ospitalità riservataci, come già accaduto in molte altre occasioni.
I partecipanti a questo convegno sanno bene quanto il tema della riforma del bicameralismo e quello della riforma del Senato in particolare sia ormai noto, dibattuto più volte e in sedi diverse. Su di esso i Costituenti si divisero in un dibattito che già conteneva alcune posizioni nettamente favorevoli alla costruzione di un bicameralismo tipico delle democrazie liberali in cui la conformazione autonomistica dello Stato risultasse più evidente, grazie ad un Senato realmente rappresentativo delle Regioni che da lì a poco avrebbero dovuto essere istituite.
Da allora si è assistito ad un susseguirsi di progetti di riforme costituzionali che avevano tutte, tra i loro oggetti, anche il superamento del bicameralismo perfetto, con alcune puntuali modifiche alla composizione e al ruolo della seconda camera. Fatta salva la modifica costituzionale dell’articolo 57 della Costituzione – quando ancora le Regioni non erano state istituite – relativo alla composizione del Senato e quella, ben più recente, del 2001 per inserire la circoscrizione Estero, tutti gli altri tentativi di riforma, più articolati di quelli, ebbero tuttavia esito negativo. Così è avvenuto per il progetto della “Commissione Bozzi”, che già conteneva una riduzione del numero dei senatori; per la “Commissione De Mita – Iotti”, che si soffermava soprattutto su una revisione del procedimento legislativo; infine per la Commissione D’Alema, che avanzava una più consistente proposta di modifica fondata su un ripensamento della Parte II della Costituzione, con una riduzione del numero di senatori e un nuovo modello di riparto di competenze legislative.
Anche il progetto di revisione costituzionale approvato nel 2005 e respinto dal corpo elettorale nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006 intervenne, come ben ricordiamo, in modo consistente sulla riforma del Senato, sia sotto il profilo della composizione, che dal punto di vista delle competenze.
Tuttavia quella iniziativa si basava su un dato di fondo, a mio avviso errato, secondo il quale una riforma così significativa di una parte così ampia della Costituzione (mai era successo nella storia della Repubblica) fosse pensata come appannaggio esclusivo di una sola parte del Parlamento, ovvero della sua maggioranza. Si tratta di un dato che, prima ancora del merito della proposta riformatrice, minava alla base la ricerca di un metodo cooperativo che dovrebbe essere la cifra di ogni significativo intervento di modifica della Costituzione. Un metodo, bisogna riconoscerlo, senza il quale ogni riforma anche futura porterebbe con sé un vizio grave e forse letale.
Con questa convinzione ho ritenuto personalmente di dover operare tra il 2006 e il 2008 – da Ministro con delega alle riforme istituzionali nel governo Prodi – consapevole che, a prescindere della conformazione politica di qualsivoglia maggioranza o minoranza parlamentare, fosse divenuto ormai indispensabile per il nostro Paese approdare ad una stagione di riforme condivise, che costituissero il frutto di uno sforzo comune e non il segno della vittoria di una parte politica sull’altra.
Alla luce di queste convinzioni il nostro Governo aveva scelto la strada di lavorare sulle riforme istituzionali con il Parlamento, collaborando con esso ed evitando di presentare direttamente progetti di riforma che avrebbero reso più difficile la convergenza delle opposizioni.
Nelle varie occasioni istituzionali nelle quali ho espresso il mio parere – penso ad esempio alle audizioni tenute di fronte alle Commissioni Affari Costituzionali delle due Camere – mi sono soffermato su questa premessa metodologica, alla quale affiancare nel merito alcune chiare opzioni di modifica costituzionale che indicasse nel superamento del bicameralismo paritario uno degli aspetti centrali del progetto di riforma.
Ricordo inoltre che nella scorsa legislatura le posizioni dei rappresentanti dei gruppi parlamentari e delle forze politiche (da me verificate in più incontri) convergevano in linea generale su un modello di riforma del sistema parlamentare che portava al cambiamento della seconda Camera. Il problema principale che si segnalava – e che conosciamo bene – era semmai quello della difficoltà delle procedure con cui dare attuazione ad una impostazione di riforma generalmente condivisa: i meccanismi con cui il Senato diventa concretamente la Camera in cui far vivere il rapporto con le autonomie e con le regioni e la relazione di questo con la Camera dei Deputati in un quadro di competenze legislative differenziate.

Il lavoro del Governo nel corso della XV Legislatura
Può essere utile ricordare in questa sede che il Governo Prodi aveva compiuto significativi passi nella direzione delle riforme costituzionali, abbandonando la strada della “grande riforma” e scegliendo piuttosto quella di modifiche puntuali che non sconvolgessero l’impianto della Carta costituzionale, ma lo adeguassero in alcune parti circoscritte alle esigenze di maggiore e migliore funzionamento delle istituzioni democratiche.
Proprio sul superamento del bicameralismo il Consiglio dei Ministri di allora, nel settembre del 2007, era giunto ad assumere una presa di posizione formale che partiva dall’approvazione del disegno di legge di delega sul federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione e della Carta delle Autonomie. Era stato osservato infatti in quella sede che un vero processo di riconoscimento di competenze in materia fiscale al sistema delle autonomie – alla luce della riforma del Titolo V del 2001 – non sarebbe mai stato completo senza una riforma chiara dell’attuale modello di bicameralismo paritario. Il Consiglio dei Ministri aveva pertanto auspicato la nascita di un nuovo Parlamento che fosse anche sede di rappresentanza di Regioni ed Autonomie locali, ciò anche per rendere effettivo il principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica sancito dall’articolo 5 della Costituzione. Vi era cioè la consapevolezza che la maggior parte dei Paesi che avevano imboccato la via di uno spiccato decentramento di funzioni legislative e amministrative aveva affidato il compito di rappresentanza degli interessi degli enti territoriali alla Seconda camera, lasciando alla Prima la funzione della rappresentanza delle forze politiche.
La posizione del Consiglio dei Ministri era stata dunque formalizzata anche alla luce del lavoro che era in atto presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati. In quella sede si era ritenuto di dover avanzare la proposta che la Seconda Camera si configurasse come Camera delle Autonomie territoriali, nella quale potessero trovare rappresentazione gli interessi delle regioni e delle autonomie locali. Si tratta di un modello che non riconosce più al Senato il potere di conferire la fiducia al Governo, ma quello di divenire la sede istituzionale nella quale si affrontano i temi connessi al rapporto tra Unione Europea, Stato centrale, regioni e autonomie locali, si definiscono le leggi e i princìpi di garanzia, si procede alle nomine degli organismi di controllo.
Quel nuovo assetto prevedeva ovviamente una modifica complessiva ma non generica del procedimento legislativo, individuando le materie di competenza bicamerale (si pensi, ad esempio, alle leggi in materia costituzionale ed elettorale, a quelle concernenti i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e politici da garantire in tutto il territorio nazionale, alle leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionale, alle leggi concernenti la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione), prevedendo che sulle altre l’ultima parola dovesse spettare alla Prima Camera, fermo restando il potere di modificarle da parte della Seconda Camera e con l’obbligo di un voto a maggioranza qualificata qualora non si tenesse conto delle modifiche introdotte da essa.
Il nuovo Senato avrebbe potuto così configurarsi come una seconda camera il cui modello di funzionamento era basato sul Bundesrat tedesco, con modifiche più confacenti al sistema italiano delle autonomie (con la presenza dei delegati dei governi regionali, dei sindaci delle città capoluogo di regione e dei presidenti delle province o città metropolitane con il più alto numero di abitanti in ogni regione).
Sul tipo di composizione non si era registrata tuttavia una posizione unanime delle forze politiche e per questo motivo si erano prese in considerazione ipotesi alternative, come quella di una composizione mista (con senatori eletti direttamente dai cittadini più un numero determinato di rappresentanti designati dalle Regioni e dalle autonomie locali).
Dico subito che non mi convincono soluzioni miste e meno che mai quelle – per me assurde – che prevedono delegati dei governi regionali, dei consigli comunali, provinciali e regionali.
Un ultimo aspetto da non trascurare, della posizione assunta dal Governo Prodi, era la convinzione che quelle riforme costituzionali avrebbero dovuto necessariamente mirare a costruire la cornice istituzionale più adeguata ad ospitare la nuova legge elettorale, con riferimento specifico agli obiettivi della stabilità dei governi e delle maggioranze parlamentari e alla possibilità che queste siano precedentemente individuate con chiarezza dal corpo elettorale, ripristinando al tempo stesso il suo potere di scegliere i candidati da eleggere, superando le liste bloccate di 38.
Nello specifico, il Governo e le commissioni affari costituzionali avevano lavorato sui seguenti punti: a) l’abbassamento per il Senato della capacità elettorale attiva a 18 anni e di quella passiva a 25 anni; b) una serie di modifiche concernenti la forma di governo e più specificatamente i poteri del Presidente del Consiglio e il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, in un quadro di nuovo bilanciamento tra i due organi costituzionali; c) la riduzione del numero dei parlamentari (e la conseguente modifica degli articoli 56 e 57 della Costituzione). Su questo ultimo elemento avevo ritenuto personalmente auspicabile la riduzione a 450 deputati e 225 senatori, ma come ipotesi subordinata era stata da più parti considerata attuabile la riduzione indicata nel progetto di riforma costituzionale votato nella XIV legislatura (518 deputati e 252 senatori).
Le prospettive di riforma, oggi
Come mi è capitato di affermare in un recente convegno a Roma sui temi istituzionali con riferimento all’evoluzione della forma di governo del nostro Paese, il confronto politico registra in questi mesi e soprattutto in queste ultime settimane un momento difficile e preoccupante, con la sensazione di un Governo che non intende impostare con l’opposizione un rapporto costruttivo, aprire un dialogo sereno e di confronto aperto: il successo della manifestazione di sabato a Roma del PD è la testimonianza di un malessere che merita di essere ascoltato anche dalla maggioranza e dal Governo.
Questa situazione è stata, a mio avviso, fortemente aggravata dalle decisioni dell’attuale Governo di ricorrere in modo massiccio alla decretazione d’urgenza per attuare il proprio programma, – tranne la legge Alfano “disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato” e le leggi di ratifica di trattati internazionali, tutti gli atti del Governo si sono tradotti in decreti legge, spesso approvati con la fiducia – aprendo così al rischio di una frattura seria tra Parlamento ed Esecutivo, mettendo in fibrillazione il sistema già fragile di bilanciamento dei poteri costituzionali previsto nella nostra forma di governo. Anche questo deve essere riconosciuto un segno evidente del non corretto funzionamento del bicameralismo italiano e non semplicemente di una volontà politica. Riguardo al bicameralismo paritario, non sempre è stato così. Per una prima fase di vita della Repubblica, ha svolto una funzione positiva e importante per il progresso del Paese e per lo stesso percorso di inclusione di tutte le forze politiche nel quadro democratico-istituzionale. La mia convinzione resta quella che occorra fare ogni sforzo per non interrompere il filo del confronto sulle riforme istituzionali. Ritenevo questo quando ero al Governo con una maggioranza di centrosinistra; continuo a ritenerlo oggi come membro dell’opposizione, ma soprattutto come Vicepresidente del Senato.
L’Italia ha bisogno che siano portate a compimento le riforme istituzionali: è una necessità e una straordinaria urgenza.
Il Ministro Calderoli ha preannunciato un progetto di revisione costituzionale sul quale ha auspicato un serio confronto con le opposizioni: se davvero verrà realizzato, si potranno creare le condizioni di una proficua collaborazione. Tra quelle proposte ve ne sono alcune che riguardano appunto la riforma del bicameralismo, del procedimento legislativo e degli artt. 76 e 77 Cost., in materia di atti con forza di legge del Governo.
In attesa della formalizzazione di una proposta, tuttavia, è importante ricordare un dato che riguarda la stessa legge di riforma del Titolo V, n.3 del 2001. L’articolo 11 di quella legge costituzionale contiene una disposizione di natura programmatica dove si trova scritta la formula: “Sino alla revisione delle norme del titolo I della Costituzione…”. Tale norma se per un verso ci spinge a non ritardare oltremodo l’insediamento della Commissione parlamentare per le questioni regionali integrata con i rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali, per un altro indica questo organo come una sorta di soluzione provvisoria dietro la quale si intravede proprio la prospettiva di una seconda Camera parlamentare rappresentativa delle autonomie. Questo articolo, dunque, è stato una prima risposta a chi riteneva necessario giungere alla individuazione di una Seconda camera delle autonomie per completare la riforma dello Stato in senso federale.
A mio parere la progettazione costituzionale della seconda Camera presuppone la chiara cognizione di una coerenza delle soluzioni da costruire su due piani differenti, ma tra loro connessi: quello della forma di governo e quello della forma di Stato nella sua accezione territoriale. In tal senso sarà opportuno riflettere intanto, in Parlamento e nel Governo, su come si dovrà collegare la nascita della seconda Camera con il duplice obiettivo di attuazione di quelle parti del Titolo V che si ritengono funzionanti (penso anzitutto al federalismo fiscale) e di aggiornamento/modifica di quelle parti che, alla prova dei fatti, in questi sette anni di sperimentazioni e di conflitti di attribuzione, non hanno prodotto risultati positivi.
Il convegno di oggi ci esorta tuttavia a concentrarci sulla riforma dell’attuale Senato e su tale aspetto si registra già una proposta articolata contenuta nel testo unificato della proposta di riforma costituzionale (relatori gli Onorevoli Amici e Bocchino) presentata in I Commissione Affari Costituzionali della Camera. Nella relazione si mettono a fuoco le due grandi questioni delle riforme costituzionali del nostro Paese: “da un lato l’esigenza di superare il bicameralismo paritario, individuando nel Senato una istanza di rappresentanza territoriale; dall’altro il rafforzamento del Presidente del Consiglio dei ministri all’interno del potere esecutivo”.
Ho già detto in altre occasioni che taluni aspetti di questa proposta di riforma costituzionale appaiono condivisibili, oltre che coerenti con quanto già avanzato dal precedente Governo e con l’esito del confronto tra maggioranza e opposizione nella passata legislatura. Il testo, pur ritenendo necessario conservare i caratteri di un sistema bicamerale del nostro ordinamento, interviene con decisione sul superamento dell’attuale bicameralismo paritario, differenziando le due Camere con riguardo al titolo di legittimazione, alla composizione, alle modalità di partecipazione al procedimento legislativo, alla sussistenza del rapporto fiduciario con il Governo.
Per quanto riguarda il Senato, si avanza in quella sede un cambio di denominazione in “Senato federale della Repubblica”, al quale corrisponderebbe – si legge nella relazione di accompagnamento – “la volontà di individuare nel Senato l’organo costituzionale che connota la scelta in senso federalista del progetto di riforma, e l’organo nel quale si intende realizzare il raccordo tra le potestà legislative e normative delle autonomie territoriali e dello Stato – enti costitutivi della Repubblica, ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione – e la partecipazione del sistema politico regionale e locale alle funzioni « alte » dell’ordinamento costituzionale”.
Nel merito, la proposta di riforma costituzionale interviene su alcuni punti, come anzitutto l’abbandono dell’elezione a suffragio universale e diretto in favore dell’elezione di secondo grado ad opera delle assemblee elettive regionali e dei consigli delle autonomie locali. Di tali soggetti istituzionali, e delle relative comunità, il Senato federale diventerebbe pertanto, si dice, l’”interprete” nel procedimento di formazione delle leggi. Proprio sotto il profilo della funzione legislativa la nuova configurazione del procedimento di formazione delle leggi dello Stato che si ipotizza intenderebbe assicurare una significativa partecipazione del nuovo Senato federale a tutte le procedure legislative, rafforzando il peso istituzionale delle sue deliberazioni nelle materie che più da vicino incidono sul rapporto Stato-autonomie territoriali, e mantenendo il suo ruolo paritario nell’adozione delle scelte definite « di sistema ». I proponenti si preoccupano per altro verso di non consentire che, nella restante attività legislativa, tale peso si trasformi in un veto non superabile, tale da paralizzare l’iter legislativo e impedire l’attuazione del programma sul quale il Presidente del Consiglio abbia ottenuto la fiducia della Camera.
Dal mio punto di vista i benefici derivanti da una seconda Camera in grado di convogliare in generale effettivamente gli interessi delle autonomie a livello di organi legislativi dello Stato potranno cogliersi soprattutto in questo caso. Infatti la partecipazione delle Regioni – ed eventualmente degli enti locali – tramite il Senato federale alle deliberazioni legislative in materie che la legge costituzionale di riforma del Titolo V affida alla cosiddetta competenza esclusiva dello Stato (come, ad esempio, i rapporti con l’Unione europea, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, l’immigrazione, l’ordine pubblico e sicurezza, la perequazione delle risorse finanziarie) potrebbe essere in grado di spuntare le armi a chi oggi chiede insistentemente – e a mio giudizio sbagliando se si guarda al mondo, alla funzione nazionale ed alla coesione indispensabile – una attribuzione in via esclusiva di dette materie alle Regioni. La partecipazione delle Regioni in particolare alla legislazione dello Stato sarebbe cioè in grado di rendere più flessibile la rigidità del concetto di competenza esclusiva dello Stato su dette materie. In questi settori comunque l’«ultima parola» dovrebbe spettare alla Camera dei Deputati.
Ritengo inoltre condivisibile una proposta di riforma che, oltre a puntare ad una forte diminuzione del numero dei senatori (nella proposta citata si parla di 250 membri, anche se si sarebbe potuta ipotizzare un’assemblea ancora più ridotta) guardi ad una seconda Camera che non si limiti a rappresentare solo il livello regionale, ma sia rappresentativa anche degli enti locali.
Certo, i giuristi ricordano che in quegli Stati federali in cui gli enti locali sono pure garantiti costituzionalmente, essi non trovano tuttavia accesso alla funzione legislativa e quindi non hanno rappresentanza nella seconda camera, ciò soprattutto perché la legge del livello centrale ha ancora la funzione fondamentale di selezionare, filtrare e integrare gli interessi, non anche quella di riprodurli o fotografarli se non a prezzo della paralisi o della disintegrazione della stessa comunità statale. Ciò nondimeno, come ribadito dalla Costituzione, l’ordinamento del nostro Paese è fortemente impregnato delle identità locali e proprio la debolezza delle sedi di concertazione e l’assenza di organi di rappresentanza comune degli interessi in campo sono alla base di gran parte delle difficoltà delle relazioni multilivello esistenti in Italia. L’esigenza di garantire la funzione legislativa centrale può essere perseguita proprio attraverso un’articolata differenziazione dei procedimenti legislativi a cui ho fatto riferimento in precedenza. In questo modo si potrebbe a mio avviso perseguire sia l’obiettivo di dare rappresentanza agli enti locali nella nuova Camera delle autonomie, sia quella di preservare un livello di efficienza del procedimento legislativo.
Proprio un’assemblea che rispecchi anche gli interessi dei livelli istituzionali locali renderebbe più facile un processo di semplificazione del sistema istituzionale in periferia, convogliando al centro i processi di concertazione e di co-decisione e aiutando a rivedere anche radicalmente tutto il sistema di quegli organismi misti che, a livello di esecutivi, prevedono la partecipazione di Stato, Regioni ed Autonomie locali. Del resto già la citata Commissione parlamentare per le questioni regionali è previsto che sia integrata con rappresentanti non solo delle Regioni ma anche degli enti locali.
Sempre dal punto di vista della composizione ritengo altresì apprezzabile la previsione di un modello basato su una rappresentanza numerica variabile a seconda del dato popolazione/territorio, che mira a dare prevalenza, in maniera ponderata, al principio democratico rispetto a quello federale. E’ questo, mi pare, il caso del modello del Bundesrat. Al contrario, la scelta del principio opposto di un uguale numero di senatori per ciascuna Regione (con l’eccezione, forse, di Molise e Valle d’Aosta), si adatterebbe piuttosto ad un Senato i cui membri fossero eletti direttamente dal corpo elettorale regionale.
E’ sul meccanismo elettivo avanzato nella proposta che nutro forti perplessità. Non mi convince il metodo per l’elezione del Senato, già emerso nel confronto nella commissione affari costituzionali della Camera nella scorsa legislatura. Mi pare sinceramente un grande pasticcio, affidare l’elezione del Senato in parte ai consigli Regionali, in parte ai consigli per le Autonomie, già di per se stessi espressione di secondo livello elettorale. Occorre a mio avviso essere chiari: esistono due sole alternative. Il Bundesrat italiano, composto dai delegati dei governi regionali e se si vuole – io ritengo di sì – dai sindaci delle città capoluogo di regione e dai presidenti delle maggiori aree metropolitane, oppure l’elezione del Senato ancora a suffragio universale diretto da parte dei cittadini. È evidente che se si segue questa strada per la sua riforma, il Senato, non potrà essere escluso dalla procedure di fiducia al Governo né da quelle – se verranno previste in Costituzione – della sfiducia costruttiva. In tali circostanze dovrebbe essere prevista la seduta congiunta della due Camere. Fermo restando una vigorosa riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo paritario – irrinunciabile – dovrebbe in questo caso essere affidato per un lato alla individuazione delle competenze prioritarie ed al procedimento legislativo, dall’altro alle leggi elettorali, prevedendo ad esempio per il Senato differenti incompatibilità, rigoroso riferimento alle circoscrizioni regionali (e dunque appare inverosimile pensare ad un premio di maggioranza nazionale) etc. L’ipotesi di senatori “di secondo – terzo livello”, eletti dalle assemblee regionali e addirittura dai consigli delle Autonomie rispecchia in parte il modello del Bundesrat austriaco. Ma proprio nel dibattito politico e istituzionale di quel paese si invoca da tempo la necessità di una riforma del Bundesrat anche e soprattutto perché quel tipo di nomina non fa altro che rispecchiare i rapporti di forza partitica presenti all’interno dell’Assemblea legislativa del singolo Land.
Vorrei dedicare l’ultima parte della mia riflessione, ad alcune ulteriori considerazioni sul modello Bundesrat, al quale non da ora io guardo con interesse.
Senza voler entrare nello specifico del caso tedesco, basta qui ricordare che ciascun Land ha anzitutto un numero variabile di rappresentanti in proporzione al numero degli abitanti. Nel consesso siedono rappresentanti dei governi dei Länder, che si esprimono quindi unitariamente. Non vi è una rappresentanza delle opposizioni dei singoli länder. È questo uno dei punti di forza dell’efficienza del Bundesrat: data la struttura abbastanza semplificata del sistema partitico, i rappresentanti del Land possono esprimere un voto unitario senza conseguenze rilevanti sulla tenuta del proprio governo. La seconda Camera tedesca presenta tuttavia un limite ed una differenza non di poco conto, rispetto alla situazione italiana: i Länder restano sì titolari delle funzioni amministrative, ma sono espropriati quasi totalmente di competenze legislative ad opera della Federazione, con il conseguente indebolimento delle assemblee legislative del Land, private della loro principale missione istituzionale (la situazione mi pare oggi migliorata, ma non del tutto risolta, dopo la riforma costituzionale realizzata in quel Paese).
Voglio ribadirlo. L’applicazione in Italia di questo modello, perciò, porterebbe a considerare con attenzione l’impatto sulle competenze legislative delle assemblee regionali, anche alla luce del nuovo titolo V della Costituzione, in cui il rapporto tra funzione legislativa e amministrativa è configurato in maniera del tutto differente rispetto al sistema costituzionale tedesco, con la rottura del meccanismo del parallelismo tra competenze legislative e competenze amministrative in vigore nel testo costituzionale precedente alla modifica del 2001.
Nel caso nostro, inoltre, se dovesse essere assunta la decisione di ampliare le rappresentanze istituzionali anche alle Autonomie locali, si tratterebbe di ricalibrare, senza ampliarle, le quote dei senatori, inserendo le delegazioni provenienti sia dai Comuni capoluogo di Provincia (i Sindaci) che dalle Province (i Presidenti di Provincia).
Tuttavia, sia il modello Bundesrat, che il modello dell’elezione diretta, non riescono a risolvere pienamente il maggior problema col quale si fronteggiano le seconde camere federali, vale a dire la loro attrazione, più o meno accentuata, nella logica politica e partitica nazionale. La configurazione del procedimento legislativo può però contribuire a temperare gli effetti di questo problema. É in questa fase che vanno calibrati, attraverso meccanismi giuridici che riservino alla seconda Camera ambiti specifici, i poteri differenziati – a seconda della materia – dei due rami del Parlamento. In tal modo si potrebbe meglio conciliare quel principio autonomistico, che deve caratterizzare una forma di governo che voglia essere anche efficiente, col principio autonomistico e quindi col pluralismo territoriale.
Su questi aspetti, tuttavia, non intendo dilungarmi poiché non mancheranno, come penso, gli approfondimenti e le riflessioni che saranno contenuti nelle relazioni introduttive, nel dibattito successivo e nella tavola rotonda finale. Ci aspetta una giornata di confronto che spero porterà contributi concreti a quell’impegno comune di riforma delle Istituzioni, per il quale, come ho detto in apertura, vale la pena insistere. Lo dobbiamo al Paese e ai nostri concittadini.
Rimango convinto che per fare svolgere all’attuale legislatura una funzione costituente, occorra, dopo un confronto tra le forze politico-parlamentari di maggioranza e di opposizione, approvare alla Camera e al Senato una mozione di indirizzo sulle riforme, contenente le linee guida, i tempi e gli strumenti – commissioni affari costituzionali oppure una commissione di esperti, una sorta di “Attali italiana” – . Al di fuori di un tale contesto, il rischio che vedo è quello di una casualità disorganica, di un disegno contraddittorio che potrebbe portare all’Italia una specie di vestito di Arlecchino, con probabili nuove occasioni di contrapposizione e forse un approdo di immobilismo.
Strappi istituzionali e contraddizioni non realizzano un serio e coerente progetto di riforma.
Intanto sta iniziando alla Camera il dibattito sulla legge per le elezioni europee. Come è noto su due aspetti importanti – soglia di sbarramento ed ancor più mantenimento delle preferenze – vi sono ancora profonde divergenze. Una non intesa e addirittura una nuova occasione di contrapposizione tra maggioranza e opposizione potrebbe ancora più fare impallidire in questa fase il “carattere costituente” da fare assumere a questa legislatura.