Intervento del Vice Presidente Vannino Chiti al Seminario sul federalismo fiscale organizzato dall’Intergruppo Parlamentare sulla sussidiarietà.

Roma, 16 ottobre 2008, Sala della Regina, Camera dei Deputati

”Vorrei iniziare questo intervento chiarendo due luoghi comuni che spesso vengono utilizzati quando si parla di federalismo fiscale.
La prima inesattezza sta nel sostenere che il federalismo fiscale sia una riforma che serve per una maggiore potenzialità di risorse e dunque d’intervento delle istituzioni locali. In realtà non è così. I dati, infatti, ci dicono che negli Stati non federali la capacità di spesa dei comuni e delle realtà locali è molto ampia, superiore talora a quella dei Paesi federali.
Per citare delle cifre, in percentuale la capacità di spesa di uno stato federale come gli Stati Uniti è del 40%, in Germania del 36.1%. Mentre in ordinamenti centralistici come la Svezia e la Danimarca la capacità di spesa è rispettivamente del 43,4% e del 57,8%. In Italia invece la percentuale è del 29,7%.
Un altro luogo comune riguarda il concetto che il passaggio dalla spesa storica al costo standard dei servizi e delle prestazioni fondamentali sia una prerogativa esclusiva del federalismo fiscale. Anche questa concezione è inesatta. Infatti il passaggio dalla spesa storica al costo standard costituisce un dovere per qualsiasi Stato, quale che sia la sua forma istituzionale.
Alla luce di questi due fraintendimenti sarebbe opportuno chiarire perché il federalismo fiscale costituisce una sfida importante per il nostro Paese.
Innanzitutto dobbiamo considerare che l’autonomia e la responsabilità a livello locale e regionale nell’uso delle risorse e nel loro reperimento sono coerenti con le riforme costituzionali già approvate in relazione al nuovo Titolo V della Costituzione. Inoltre, noi siamo convinti che questa strada, se seguita con correttezza e serietà, costruisca un Paese più coeso, in grado di rispondere alle sfide del nostro tempo, dal processo di integrazione europea alla globalizzazione, dall’ambiente alle migrazioni. Non è vera l’idea – un tempo sostenuta – della fine degli Stati nazionali. È però indispensabile una loro riforma, un loro rinnovamento profondo.
Voglio sottolineare ed esprimere una soddisfazione reale per il fatto che i princìpi guida del disegno di legge governativo siano condivisibili. Questo perché l’approccio culturale, cosi come molti aspetti normativi contenuti nel testo Calderoli, sono gli stessi sostenuti dal disegno di legge approvato dal governo Prodi e fanno proprie le proposte avanzate all’unanimità dalle Regioni e le posizioni di Anci e Upi. L’accordo sui principi guida tuttavia è importante, ma non è sufficiente.
La domanda allora è: che cosa manca? Quali sono le lacune su cui intervenire?
In primo luogo dobbiamo affrontare la definizione delle competenze fondamentali di Regioni e Autonomie locali, quella che il Governo di centrosinistra aveva approvato come Carta delle Autonomie. Senza questo aspetto fondamentale il cosiddetto federalismo fiscale rischia di girare a vuoto.
La definizione delle risorse necessarie per gestire le competenze fondamentali, lo stesso intervento del fondo perequativo, per garantire ad ogni livello istituzionale la possibilità di dare ai cittadini quelle prestazioni che fondano l’uguaglianza delle opportunità per tutti gli italiani, non saranno possibili se le competenze restano ancora a regime transitorio e dunque nel vago. Per questo sarebbe stata indispensabile la contestualità dei due provvedimenti. Ora è necessario che almeno il disegno di legge sulle competenze venga approvato prima che esca anche uno solo dei decreti di attuazione della delega sul federalismo fiscale. Questo deve essere un impegno intransigente che il Parlamento deve chiedere al Governo.
Oltre alla definizione delle competenze fondamentali, occorre precisare anche la parte relativa alle risorse disponibili e agli strumenti tributari a disposizione delle Autonomie locali.

Gli strumenti debbono contenere in parte le compartecipazioni, che impegnano alla collaborazione istituzionale e costruiscono coesione, e in parte i tributi propri, perché responsabilizzano.
E’ importante che il discorso sulle risorse sia svolto con rigore. Oggi rimbalzano dati
che risultano addirittura opposti. Non può essere credibile, infatti, che con il federalismo fiscale tutti ci guadagnino, nord, centro, sud e Stato nel suo complesso.
Secondo uno studio presentato in un convegno a Padova il 22 settembre di quest’anno dal professor Massimo Bordignon dell’Università Cattolica di Milano, la spesa post-decentramento sulla base del Titolo V porta, in base a dati del 2003, ad un incremento di spesa nelle amministrazioni locali di 69.053 milioni di euro. L’incremento, secondo Bordignon, risulta essere così articolato: al centro nord di 37.991 milioni di euro (1.087 come spesa pro-capite), al sud di 20.478 milioni di euro (1461 come spesa pro-capite). Il totale per le Regioni a statuto ordinario è di 58.469 milioni di euro (1194 la spesa pro-capite). Per le Regioni a statuto speciale è di 10.584 milioni (spesa pro-capite 1185). La cifra complessiva, articolata per aree territoriali, ci consegna una spesa pro-capite di 1063 euro al centro nord e di 1426 al sud.
C’è poi da tenere presente per il nostro Paese il debito pubblico – uno dei più alti tra i Paesi avanzati – che rappresenta un aspetto decisivo, ancor più aggravato dalla crisi finanziaria ed economica mondiale. Senza un riferimento a questo contesto concreto e coerente, il federalismo e le riforme istituzionali non saranno vissute positivamente e riconosciute utili dai cittadini. Un altro elemento da considerare sono gli squilibri tra aree territoriali. Vorrei fare riferimento ancora a delle cifre, forse noiose ma indispensabili per fare fronte con responsabilità ai nostri compiti.
Prendiamo la spesa in euro pro-capite delle Regioni a statuto ordinario, secondo dati riferiti al 2001: il totale tra quella corrente e quella in conto capitale è di 1.930 euro pro-capite.
Questa spesa risulta essere così suddivisa:
la media al nord è di 1.859 euro, al centro di 1.945, al sud di 1.978.
I tributi propri delle Regioni a statuto ordinario, su base pro-capite all’interno delle stesse aree, risultano essere in media di 690 euro e sono così suddivisi: la media al nord è di 897 euro, con una percentuale sulle entrate correnti del 51.9%; al centro di 759 euro, con una percentuale sulle entrate correnti del 41.9%; al sud di 472 euro, con una percentuale sulle entrate correnti del 26.8%.
Con la devoluzione in periferia di nuove funzioni nell’istruzione, negli affari economici, nella finanza locale, si avrebbe – qui faccio riferimento a dati più recenti, del 2005 – una ulteriore spesa pro-capite di 1.114,1 euro, con un elemento molto significativo, ovvero che Regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana avrebbero una spesa pro-capite al di sotto dei 1000 euro. Tutte le altre Regioni, invece, si collocherebbero al di sopra di 1000 euro pro-capite, con punte della Campania (1478.8 euro), della Calabria (1691.3) e della Basilicata (1751.8).
Da questi dati emerge chiaramente un problema: mentre la spesa più consistente per le ulteriori funzioni da trasferire si concentra al sud, le risorse per finanziarle si reperiscono al nord.
Da tutto questo si ha la conferma, ancora più forte e urgente, della necessità di avere una base definita e condivisa da tutti. Si tratta peraltro di una riflessione svolta anche dal Ministro Tremonti, sulla quale mi trovo pienamente d’accordo.
Come si costruisce una base condivisa sui dati finanziari e soprattutto chi deve essere chiamato a definirla? E’ bene essere chiari: bisogna esigere una piena partecipazione del Parlamento. Non può essere questo un terreno di esclusiva competenza del Governo con Regioni e Autonomie locali. Il Parlamento deve essere coinvolto, deve essere co-protagonista di questo processo. Teniamo conto che per la Costituzione lo Stato è responsabile del coordinamento statistico nazionale. Allo Stato centrale la Costituzione attribuisce la competenza legislativa esclusiva sul sistema tributario e contabile e ad esso, in concorso con le Regioni, è affidato il compito di armonizzare i bilanci pubblici e quello di coordinare la finanza pubblica e il sistema tributario.
C’è poi un’altra considerazione da fare, che riguarda la perequazione delle risorse. Quest’ultima non può che spettare allo Stato. E’ lo stato centrale, oggi e quando finalmente si arriverà al costo standard dei servizi, che dovrà garantire che le competenze fondamentali di ogni livello istituzionale siano assolte pienamente anche da quelle Regioni o istituzioni locali non autosufficienti.
Le Regioni certamente dovranno essere coinvolte ed avere un ruolo, ma non vi deve essere confusione rispetto alla responsabilità primaria.
Il disegno di legge del Governo da questo punto di vista è confuso, sia riguardo alla alimentazione del Fondo di perequazione, sia rispetto ai vari e differenti ruoli dei soggetti istituzionali. Il Fondo infatti transita dalle Regioni, che hanno l’obbligo di trasferirlo alle Autonomie locali, con l’aggiunta contestuale di un loro intervento e valutazione. Se il testo di legge rimanesse così, oltre al pericolo di un appesantimento nelle procedure, ci sarebbe la quasi certezza di avere criteri diversi di decisione, con la conseguenza di alimentare disuguaglianze territoriali e tra i cittadini.
Alla luce di questi problemi la mia conclusione non è certo quella di dire: alt, fermiamoci. Al contrario, la mia convinzione è che bisogna andare avanti, impegnarsi con rigore, senza superficialità.
Sono decisivi – per sviluppare un confronto serio, mettere a fuoco e superare i significativi vuoti presenti nella proposta di legge del Governo – gli strumenti che ci diamo.
Ho già spiegato pubblicamente, e anche direttamente ai ministri che in prima persona portano avanti la legge per il federalismo fiscale, che è necessario far svolgere un ruolo rilevante alla Commissione Bicamerale per gli Affari Regionali, aprendola infine, come prevede la legge costituzionale del 2001, ai rappresentanti di Regioni e Autonomie locali.
E’ sbagliato prevedere due percorsi separati: da un lato Governo e Commissione con le Regioni e le Autonomie locali; dall’altro il Parlamento. In questo caso il Parlamento rischia di assumere un ruolo marginale e di essere costretto in un angolo. Ciò non giova certo ad una riforma così importante per il futuro del Paese. Il Governo e la Commissione con le Regioni e le Autonomie non possono sostituire il Parlamento, che ha un ruolo di rappresentanza democratica generale.
L’obiezione che a questo riguardo viene mossa, ovvero i tempi di decisione che verrebbero dilatati, non ha in realtà un fondamento perché i decreti delegati hanno un tempo predeterminato per il loro esame.
Vorrei infine svolgere un’ultima considerazione, che si riferisce alla visione complessiva della riforma istituzionale ed al suo rapporto con il nostro agire quotidiano.
Per la riforma delle istituzioni non possiamo procedere come se sfogliassimo un carciofo.
Non possiamo prendere un aspetto dalla Germania, uno dalla Spagna, l’altro dalla Gran Bretagna o dalla Francia. Non funziona. Si realizzerebbe un quadro disorganico e incoerente, insomma un orrendo vestito di Arlecchino.
Io guardo con interesse al modello tedesco, che è fortemente solidaristico, dove la perequazione avviene secondo criteri di fabbisogno. Vi sono anche altri modelli, naturalmente tutti da adattare al contesto italiano in modo coerente : quello competitivo, che prevede la perequazione per capacità fiscale. Il Canada è uno degli esempi di questo sistema.
Inoltre vi è il modello spagnolo, detto “a velocità variabile”.
Dobbiamo avere la visione di un quadro complessivo nel quale rientri “il modello di federalismo”, la riforma del Parlamento, con il conseguente superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari, infine la forma di governo.
Si tratta di aspetti sottolineati anche dal Presidente Fini, con il quale concordo.
Ho altre volte sottolineato l’esigenza di una mozione di indirizzo, approvata dalle Camere, sull’insieme delle riforme, i tempi e gli strumenti per realizzarle.
Nel frattempo bisogna evitare che, mentre si discute di federalismo fiscale, si moltiplichino confusione e contraddizioni nel nostro agire quotidiano. Ad esempio occorre un’intesa vera con le Regioni per la sanità sulle risorse necessarie per il triennio 2009-2011. Il Governo Prodi aveva realizzato un patto che le incrementava del 3%. L’attuale Governo le ha però più che dimezzate con la finanziaria di luglio, prevedendo un incremento dell’1,4. Voglio ricordare che con un taglio simile nessuna Regione potrà evitare il deficit, comprese le “virtuose” Lombardia, Toscana e Emilia Romagna.
Occorre anche reperire, accanto alle giuste risorse per Roma Capitale, quelle previste quelle per l’istituzione e il funzionamento delle aree metropolitane.
Bisogna evitare la confusione sulle Province, visto che prima se ne voleva la totale eliminazione ed ora si dice – lo afferma sui giornali il sottosegretario incaricato della redazione della “Carta delle Autonomie” – che resteranno anche nelle aree metropolitane.
Infine occorre rispettare l’autonomia e la responsabilità politica già esistente per Regioni e Comuni. Ad esempio, per quanto riguarda l’istruzione, se entro novembre le Regioni non effettueranno il dimensionamento della rete scolastica vi sarà una diffida e successivamente la nomina da parte del Presidente del Consiglio di Commissari.
Anche per questo motivo sarebbe stato più serio stabilire le risorse complessive a disposizione delle varie realtà territoriali e poi lasciare alle Regioni, assieme ai Comuni, le decisioni da assumere rispetto alla organizzazione degli istituti, i loro accorpamenti etc. I territori non sono tutti uguali: nell’organizzazione e nel sostegno al diritto all’istruzione esiste una responsabilità propria di Regioni e Autonomie locali e il confronto con l’autonomia degli istituti scolastici non può che avvenire nei territori.
Non si possono fare le riforme o pezzi di riforme per decreto legge, da votare per giunta con la fiducia. È evidente che procedendo così non si ha né il confronto con l’opposizione, né con le Regioni e le Autonomie locali, né con gli insegnanti, gli studenti, le famiglie. Dubito che si possa avere anche un reale contributo dalla propria maggioranza.
Sarà quindi bene che, nella differenza dei ruoli, mentre si discute di riforme istituzionali e nello specifico di federalismo fiscale, non ci si muova nel concreto di ogni giorno in modo opposto, dilatando a dismisura, in settori strategici delle politiche pubbliche, le decisioni dei governi centrali.
Insomma, come si dice, evitiamo di predicare bene e razzolare male. Sarebbe controproducente per il Paese, per i suoi cittadini e per la credibilità – non proprio solidissima – della politica e delle stesse istituzioni.