RIVISTA CRISTIANO SOCIALI

Il referendum sulla legge per la procreazione assistita è alle nostre spalle: il suo esito, con una partecipazione di poco superiore al 25%, obbliga tutti ad una riflessione rigorosa. Non sono pentito di aver sostenuto una battaglia per modificare profondamente una legge negativa su punti chiave, come la salute della donna, la responsabilità nelle scelte della coppia, la libertà e autonomia della ricerca scientifica. Sbagliato, dobbiamo riconoscerlo, è stato in questo caso specifico l’uso del referendum. Non faccio considerazioni di tipo generale: sono convinto che su temi fondamentali, anche di natura etica, sia giusto coinvolgere non solo il Parlamento ma i cittadini. Sono decisioni difficili, in campi fino ad oggi estranei alla politica: non esistono, nelle scelte di ordine legislativo, verità assolute. La partecipazione e non la delega rappresentano, sul piano del metodo, indirizzi giusti. Nel caso specifico della legge sulla fecondazione assistita, per la sua eterogeneità – dalla ricerca scientifica alle procedure di impianto degli embrioni, dall’eterologa alla natura in sè dello stesso embrione – il referendum, già divenuto uno strumento logoro e bisognoso di una riforma per il suo rilancio, si è mostrato inadeguato.
Avevano ragione i cristiano sociali.
Era doveroso, e tanto più lo è oggi, sostenere con più convinzione la soluzione legislativa proposta da Amato.
Riconoscerlo non smentisce certo il significato di una battaglia nè la volontà di darle una continuità. Al contrario.
Che fare oggi? Prioritario per me è riprendere con l’area cattolica un confronto ed un dialogo, che in realtà non abbiamo mai interrotto: per quanto ci riguarda, nella campagna referendaria, abbiamo sostenuto argomentazioni di merito, evitando di cadere in contrapposizioni ideologiche con la Chiesa e l’area cattolica, forse in grado di portare qualche percentuale di votanti in più, ma che sarebbero state negative per il paese e il suo futuro.
Resuscitare steccati anacronistici tra cattolici e laici, da tempo scomparsi nella vita e nel senso comune dei cittadini, sarebbe dannoso per l’Italia e per la stessa Chiesa: lo era nei decenni passati, figuriamoci oggi di fronte al formarsi di una società multiculturale, multireligiosa ed alle sfide portate alla civiltà umana.
Vedo con inquietudine il riemergere in settori non marginali della Chiesa cattolica e delle sue gerarchie di tendenze che affidano la garanzia di presenza e diffusione dei principi di fede ad uno scambio di convenienze, ad un patto di sussistenza reciproca con il potere politico: in realtà con la destra, che ha per tradizione antica incorporata in sè, particolarmente in Italia, la vocazione ad un uso strumentale della fede religiosa, la volontà di ridurre il cattolicesimo ad involucro ideologico, capace di cementare il proprio schieramento politico. É quanto stanno tentando di fare i neo-conservatori negli Stati Uniti e da noi i vari emuli di una destra a dire il vero scarsamente presentabile come coerente paladina di valori di fede. L’homo berlusconiano, pur con tutte le sapienze mediatiche, difficilmente può rappresentare il credente, neppure in una versione fondamentalista.
Ma la domanda è: può la Chiesa italiana, con il governo del Cardinale Ruini, divenire o anche soltanto essere percepita come la Chiesa della destra politica, di Casini o di Pera poco importa? Quale prezzo di influenza religiosa e culturale verrebbe a pagare, nella nostra società ed all’interno della più generale funzione della Chiesa nel mondo?
Quando leggo analisi del referendum, secondo le quali si considerano le proprie posizioni sostenute dal consenso del 74% dei cittadini italiani; quando vedo che in settori delle gerarchie si torna a carezzare gli atei devoti e ad avere in uggia i credenti autonomi e magari critici; quando verifico che ci sono tentativi riduzionisti e normalizzatori della stessa carica innovativa del Concilio Vaticano II e del suo carattere di svolta e discontinuità nella vita della Chiesa, non posso non registrare con preoccupazione l’emergere di un orientamento, che sarebbe sbagliato sottovalutare e non contrastare. È grave anche soltanto rischiare di fare svolgere alla Chiesa un ruolo di agenzia elettorale. Cosa ha a che vedere questo con la testimonianza e l’impegno per fare vivere nella società principi fondamentali di fede?
Mi auguro che all’interno della comunità dei credenti, delle stesse gerarchie ecclesiastiche vi siano le volontà necessarie per impedire una simile deriva. Una glaciazione come quella del periodo pre-conciliare; una rinnovata presa di distanza nei confronti della scienza; una incomprensione sul ruolo della donna nelle società moderne, produrrebbero una incapacità della Chiesa a sviluppare il suo messaggio universale, per niente riducibile a ideologia di uno schieramento politico. Dobbiamo dunque rilanciare un confronto a tutto campo, con le associazioni del laicato cattolico e con la Chiesa. Non vi sono temi che sentiamo come estranei o impropri. Ci preme un dialogo su come assicurare nelle società moderne la dignità e la promozione della persona; sulla difesa della vita, sempre, ma al tempo stesso su come affidarla in primo luogo alla responsabilità della coppia e, al suo termine, della famiglia. Lo Stato e le sue leggi hanno una funzione rilevante e tuttavia di sussidiarietà.
Vorremmo ragionare insieme sulle vie concrete per realizzare la pace, un ordine internazionale fondato sulla giustizia e sulla solidarietà, per evitare ogni rischio di scontro di civiltà.
Quale ruolo essenziale può essere svolto direttamente dalle fedi religiose, dalla loro capacità di incontro e iniziativa?
Infine vi è un confronto, anche culturale, da condurre sulla laicità: sul suo valore di riferimento, come asse portante di una organizzazione statuale e politica di società democratiche, multiculturali e multireligiose. Vogliamo ragionare sulle innovazioni che si rendano necessarie perché la laicità sia in grado di garantire cittadinanza e agibilità pubblica alle religioni, ma non una loro occupazione totalizzante dello spazio pubblico, con una subalternità della sfera politica. Un tempo lontano avveniva così anche da noi e ancora oggi questa è l’anacronistica situazione che caratterizza le società islamiche.
Evitare l’ideologia laicista e la contrapposta negazione di fatto della laicità; costruire un minimo comune denominatore di valori, a fondamento della laicità – che non può essere principio di indifferenza – nel quale si ritrovino fedi religiose e culture laiche di diverso orientamento. É un lavoro di lunga lena, quello che è necessario: tutto il contrario della riproposizione aggiornata di vecchi steccati, della invenzione di nuove divisioni. Noi siamo pronti: sono certo ne comprendano l’esigenza quanti, nell’area cattolica e nell’universo dei credenti, rifiutano una riduzione della fede a instrumentum regni, a sgabello cioè per cementare il potere ed uno schieramento politico.

Vannino Chiti