Si è aperto sulla globalizzazione un dibattito un po’ singolare: gli Usa di Trump, contrari; la Cina post-comunistra, a favore.
Più in generale si è passati da una fase in cui la destra cavalcava acriticamente la globalizzazione e la stessa sinistra ne era, in suoi settori, contagiata, ad una in cui, con la stessa acriticità, la si respinge, fortificando con bastioni i confini nazionali per non esserne toccati. Illusorietà e pericolosità di scelte che non fanno avanzare il mondo, ma rischiano di incrementarne contrasti, ingiustizie, forse più vasti conflitti.
Ci voleva il premio Nobel Amartya Sen a ricordarci quello che dovrebbe essere ovvio e cioè che la globalizazione, come tutte le attività umane, non è in sé né buona né cattiva: dipende dall’uso che se ne fa, da come è governata.
In questa nuova tappa della globalizzazione non vi è stato un suo governo da parte della politica, una sua finalizzazione al bene comune: l’egemonia delle destre ha determinato un affidamento totale al solo mercato, e sempre più alla finanza, non solo dell’economia, dei commerci, ma anche della cultura, delle stesse relazioni umane.
L’esito è un chiaroscuro denso di pesanti contraddizioni: milioni di persone, in Asia e in parte anche in Africa, sono passate dall’indigenza a condizioni di vita dignitose. Al tempo stesso, in Occidente – soprattutto in Europa e negli Stati Uniti – ampi settori di quello che era il ceto medio si sono impoveriti, mentre sono cresciute le disuguaglianze.
L’1 o 2% della popolazione detiene la gran parte delle ricchezze.
Di fronte a questa situazione si può intervenire in modi opposti: frenando l’accesso ad una dignità di vita ai popoli dei continenti meno sviluppati e recuperando per questa via risorse che tornino a far sperare nel futuro i ceti medi del mondo più avanzato. È la linea seguita, con crescente consenso, da movimenti autoritari di stampo populista. Un’altra impostazione – altrettanto negativa per gli esiti della convivenza civile e molto probabilmente per la stessa tenuta della democrazia – è quella che continuerebbe a contrapporre miglioramenti di vita in Asia, Africa, America Latina alla conservazione di un benessere dignitoso per i lavoratori e i ceti medi dell’Europa e degli Stati Uniti.
Infine ci si può porre come obiettivo non la contrapposizione, ma la convergenza tra progresso dei popoli nelle aree povere del Sud del mondo, e il recupero di un futuro degno per quelle del Nord del pianeta colpite da ingiustizie, disuguaglianze, processi di impoverimento. La condizione è che si operi per una radicale redistribuzione di risorse, ponendo fine allo scandalo di una concentrazione di ricchezza e potere in pochissime mani. E’ difficile? Senza dubbio, ma è possibile. Soprattutto la sinistra non dovrebbe avere incertezze nel seguire quest’ultima strada, impegnandosi, per renderla percorribile, a lastricarla con idee, obiettivi, alleanze, strumenti.
Uno per tutti: la costruzione in Europa di una vera democrazia sovranazionale.
Senza di essa, la via di un governo giusto della globalizzazione, non si riesce neanche ad intravedere.