La Direzione del Pd ha rappresentato un passo avanti forse piccolo, ma reale. Chi nelle opposizioni e nel populismo reazionario si augurava una rottura del Pd, è rimasto deluso. Renzi ha aperto sulla nuova legge elettorale per il Senato, se il Sì al referendum consentirà di superare il bicameralismo paritario, e su “correzioni” all’Italicum: collegi o preferenze per eleggere tutti i deputati; mantenimento o abolizione del ballottaggio; possibilità del premio di governabilità alle coalizioni, anziché a liste di partito.
L’incarico a vicesegretario, capigruppo di Camera e Senato, presidente del Partito, esponente della minoranza di incontrare le altre forze politiche per costruire modifiche condivise, è la strada giusta. Dobbiamo dar vita ad una proposta prima del referendum. Non ritengo invece possibile impegnare il Parlamento prima del 4 dicembre: nessun partito di opposizione sarebbe minimamente disponibile. Si aprirebbe solo un altro capitolo di uno scontro frontale, che allontana i cittadini dalle istituzioni e dalla politica.
È giusto a questo punto, anziché procedere a colpi di ultimatum, ripercorrere i momenti salienti del confronto sulla riforma costituzionale e la legge elettorale, all’interno del Pd e nella maggioranza di governo.
Intanto su quest’ultima: al Senato Ncd, con la guida di Schifani e Quagliariello, si è sempre allineata, dando il proprio voto alla prima e successivamente alla nuova versione del disegno di legge costituzionale, e all’Italicum. Del resto anche Forza Italia aveva dato il suo voto alla prima versione della riforma e risultò determinante nell’approvazione dell’Italicum.
Le conversioni più recenti non hanno una motivazione nei provvedimenti, bensì nella lotta politica e prima ancora nel repentino mutare delle collocazioni personali all’interno della destra italiana.
Nel Pd si sono avute due fasi: alla prima legge di riforma costituzionale, al Senato, ci opponemmo, non votandola, in 14 senatori Pd. Gli altri, compreso il resto della minoranza, la votò in entrambi i rami del Parlamento: alla Camera addirittura, assicurando il consenso ad oltre 30 articoli pur di fronte all’abbandono dell’aula di tutte le opposizioni. La minoranza purtroppo fu anche allora divisa. Quanti si opponevano alla riforma subirono lezioncine e critiche da più di uno di suoi esponenti.
Perché non votammo il primo progetto di riforma costituzionale? Eravamo d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario: alla sola Camera la fiducia al governo. Volevamo la riduzione del numero complessivo dei parlamentari. Ritenevamo però che l’elezione del Presidente della Repubblica con la semplice maggioranza assoluta alla settimana votazione; quella dei cinque giudici costituzionali spettanti al Parlamento ancora in seduta comune, pur di fronte ad un modificato rapporto numerico tra le due Camere; la designazione dei consiglieri/senatori ad opera delle Assemblee regionali e non la scelta da parte dei cittadini; l’irrisolta questione dei referendum, non garantissero pienamente gli equilibri democratici.
Su questi obiettivi ci siamo concentrati nei mesi successivi, forti di una ritrovata convergenza che aveva visto 24 senatori Pd dire no all’Italicum, non accettando i 100 capilista bloccati, le pluricandidature, l’impossibilità nell’eventuale ballottaggio di realizzare intese di coalizione: l’asticella portata dal 37% al 40%, per ottenere al primo turno il premio di governabilità, e il ballottaggio sono stati invece esiti non subiti, ma voluti da quella che viene chiamata “minoranza dem”.
La riforma costituzionale, sottoposta ora al voto decisivo dei cittadini, ha dato la risposta che volevamo alle quattro grandi questioni che erano state poste: il Presidente della Repubblica per risultare eletto dovrà conseguire sempre il consenso dei 3/5 dei votanti; i giudici costituzionali saranno designati 3 dalla Camera e 2 dal Senato, come è noto con voto limitato ad un solo candidato da parte di ciascun parlamentare.
Non vi è dunque alcuna possibilità che Presidente della Repubblica e giudici costituzionali diventino “riserva proprietaria” delle future maggioranze di governo.
È stato introdotto in Costituzione il referendum di indirizzo e reso possibile un quorum più accessibile per l’efficacia di quello abrogativo.
Infine saranno i cittadini ad eleggere i senatori: i Consigli regionali si limiteranno ad una presa d’atto. Non è in discussione il valore delle elezioni: quella per i sindaci, i Consigli regionali, il Parlamento hanno ovviamente un medesimo imprimatur democratico. Ciò che non funzionava era la mancanza di automaticità: il Senato deve essere eletto su base proporzionale; le leggi elettorali regionali hanno invece tutte un robusto premio di maggioranza. La scelta nei Consigli regionali dei senatori avrebbe dato vita a trattative tra maggioranze ed opposizioni, all’interno delle maggioranze e delle opposizioni.
I termini dell’accordo realizzato furono valutati in un incontro con i senatori Pd che avevano espresso contrarietà all’Italicum: solo due – Tocci e Micheloni – pur ritenendo significativi i progressi compiuti, dichiararono che non potevano esprimere un voto a favore della riforma. Gli altri espressero tutti il loro pieno sostegno.
Questi i fatti.
L’indicazione di Renzi in Direzione che il Disegno di legge per l’elezione del nuovo Senato – sottoscritto da Fornaro, da me, ma anche da Tocci, Casson, Corsini, D’Adda, Ricchiuti e da un’altra ventina di senatori – è la proposta base del Pd, dovrebbe togliere dubbi e remore. Prima di tutto attua quanto è scritto nella riforma costituzionale: sono i cittadini, in ogni regione, che sceglieranno i loro senatori.
È poi, con l’impegno a cambiare l’Italicum, un contributo all’unità del Pd e al futuro del Paese.
Una rottura del Pd sarebbe un atto di irresponsabilità senza domani. Nella sua storia la sinistra ha spesso fatto corrispondere ad una incapacità di trovare la sintesi sui programmi, la scelta di scissioni, una moltiplicazione dei “contenitori” .
L’esito è stata, con la frammentazione, una sua minore influenza, talora la marginalità. Oggi, in Italia e in Europa, la sinistra ha bisogno di essere “plurale”, ampliando i suoi confini e i suoi orizzonti, non certo di proporre nuove divisioni. È questa la strada che senza incertezze dobbiamo sentire come nostra, nel referendum e oltre, nell’impegno per cambiare il Paese, ridare slancio e equità allo sviluppo e contribuire alla realizzazione della democrazia sovranazionale europea.