Di: Domenico Giovinazzo

La risposta dell’Unione europea alla Brexit deve essere una maggiore integrazione, la cui responsabilità è in primo luogo dei paesi dell’area euro, i quali devono portare avanti la condivisione di sovranità anche attraverso lo strumento della cooperazione rafforzata, che non richiede un’adesione un’anime degli Stati membri. Inoltre, serve una rinnovata intesa tra socialisti e popolari europei, anche questa orientata alla ripresa del percorso di integrazione. Poi, nelle trattative per l’uscita del Regno unito, bisogna adottare “non una linea vendicativa”, ma neppure una “che svenda l’Ue e conceda diritti senza doveri”. In altre parole, “c’è da ricostruire un rapporto tra un Paese e l’Ue, come se fossimo davanti a un trattato commerciale”. Sono riflessioni del senatore Vannino Chiti, esponente Pd e presidente della commissione Politiche Ue di Palazzo Madama, che ne parla in un’intervista sulle conseguenze della Brexit, tema al quale la nostra testata dedicherà un incontro di alto livello in programma per venerdì a Roma.

Senatore, la sua commissione sta preparando una risoluzione sulla Brexit. Sì, sarà pronta entro fine luglio e chiederemo al presidente del Senato, Pietro Grasso, che la discussione sia portata in Aula alla ripresa dei lavori, a settembre, perché serve una riflessione ampia del Parlamento, in questo caso del Senato, sugli impegni da chiedere al governo in vista delle trattative per l’uscita del Regno unito che dovranno essere affrontate dal Consiglio europeo.

Qual è la posta in gioco della trattativa? Anche se il referendum del 23 giugno avesse avuto un esito diverso, quello di una permanenza che tutti auspicavamo, c’è la questione del rilancio dell’Unione europea, che era necessaria e ora lo è ancor più. Dobbiamo fare quello che il governo e il Parlamento italiani hanno provato e stanno provando a fare: cambiare politiche per garantire uno sviluppo sostenibile e un diritto al lavoro. Bisogna trattare la questione dei migranti e della sicurezza, da tenere insieme e da affrontare con la solidarietà e la capacità di una politica dell’Unione europea, perché 27 politiche estere e di sicurezza insieme non ne fanno una efficace. Bisogna poi procedere a un’accelerazione per condividere spazi di sovranità in modo più forte. Completare l’Unione bancaria. Avere una gestione e un indirizzo politico della moneta unica, che non lasci sola la Bce.

In risposta alla Brexit lei chiede quindi una maggiore integrazione? Sì. Su questo c’è un ruolo che può svolgere l’area euro, con le possibilità offerte dal Trattato di Lisbona che prevede la cooperazione rafforzata. Bisogna sfruttarla per costruire spazi di sovranità condivisa, senza chiudere la porta a chi vorrà entrarne a far parte dopo. Nell’incontro del Cosac (l’assemblea che riunisce gli organismi parlamentari degli Stati membri per gli Affari europei, ndr) a Bratislava, lunedì scorso, su iniziativa dei colleghi spagnoli è stato deciso di creare un coordinamento – di cui faccio parte insieme con i colleghi di Francia, Spagna e Portogallo – per stilare un documento che provi a dare uno slancio alla realizzazione di una democrazia sovranazionale europea che sia effettiva.

L’Ue dovrebbe tenere una linea dura nelle trattative con la Gran Bretagna, per scoraggiare altri paesi dal seguirne l’esempio, o deve essere più conciliante per ridurre gli effetti negativi della brexit? Non ci vuole né una linea di vendetta, che sarebbe assurda, né una linea di cedimento che svenda l’Ue e conceda dei diritti senza doveri. Serve una linea seria di trattative rapide e chiare, in cui c’è da ricostruire un rapporto tra un Paese e l’Unione europea, come se fossimo davanti a un trattato commerciale tipo quello con il Canada, tanto per citare l’esempio di un trattato positivo e che funziona. Ma certamente, chi è fuori non può avere stessi diritti e non i doveri di chi è dentro. Bisognerà costruire rapporti che siano reciprocamente convenienti. Ad esempio, andranno garantiti i lavoratori e studenti europei che oggi sono nel Regno unito, in condizione di reciprocità con i lavoratori e gli studenti britannici che stanno nei paesi Ue.

Il titolare dell’Economia britannico ha indicato la strategia di tagliare le tasse alle imprese per evitarne una fuga nel post Brexit. Si rischia uno scontro fatto di dumping sulle imposte, con un Regno unito che diventa sempre più paradiso fiscale? In effetti il Regno unito aveva già delle differenze con il resto dell’Ue anche dal punto di vista fiscale. Però non voglio credere che punti a diventare un paradiso fiscale come quelli che la comunità internazionale ha già deciso di mettere ai margini.

Non c’è bisogno che si trasformi in una Panama. Basterebbe abbassare le aliquote per le imprese a scatenare la competizione con i 27, minando l’integrazione delle politiche fiscali cui punta l’Ue. Non trova? Penso che questa tentazione nel Regno unito ci sia. Ma conoscendo il senso delle regole, di legalità e di rispetto dei doveri fiscali che caratterizza tutto il mondo anglosassone, mi rifiuto di pensare che possa sconfinare nella creazione di un paradiso per gli speculatori. Poi, certamente, questo sarà un punto di confronto molto forte tra Unione europea e Regno unito. Posizioni britanniche che estremizzassero questa impostazione non sarebbero un segnale di cooperazione, quindi non potrebbero essere accolti dall’Ue con atteggiamenti di collaborazione per lo sviluppo dei negoziati. Ma non voglio neppure pensare che sarà questo lo scenario. In ogni caso, l’Unione europea deve andare avanti con il suo processo di armonizzazione fiscale.

Gli analisti economici, Fmi incluso, stanno tagliando le stime di crescita in Europa a causa della Brexit. Minore aumento del Pil vuol dire maggiori difficoltà a rispettare il Patto di stabilità e crescita. Si riaprirà il dibattito sulla flessibilità? In una ripresa che per tutta l’Ue era fragile, stava iniziando, il rallentamento crea difficoltà gravi. Tuttavia, leggendo le dichiarazioni di ieri del ministro Schaeuble e della cancelliera Merkel sulle banche, mi pare possa camminare più rapidamente l’istituzione di questo fondo europeo di garanzia, su cui l’Italia ha sempre insistito perché serve al completamento dell’Unione bancaria. Dunque mi sembra ci sia un po’ più solidarietà rispetto a prima. Altrettanto deve avvenire sui temi dello sviluppo. Davanti all’incertezza che frena una ripresa già fragile non si può rispondere stando a guardare. Si deve aumentare l’impegno dell’Ue per lo sviluppo e per il diritto al lavoro. Questa è la risposta. Era necessaria prima e oggi lo è al quadrato.

Il sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi, ha convocato a Roma i suoi omologhi della famiglia socialista europea, proprio per discutere del futuro dell’Ue alla luce della Brexit. Quale deve essere la proposta del Pse? La sinistra europea ha un futuro se va avanti l’integrazione europea. Non penso possa realizzare il suo programma di rinnovamento democratico, di sviluppo sostenibile, di diritto al lavoro, di riforma del welfare all’interno dei soli Stati nazionali. Occorre la costruzione dell’Unione europea come democrazia sovranazionale. Far sì che i socialisti europei sentano questo come l’obiettivo primo è una necessità perché l’Ue faccia dei passi avanti, e quindi è indispensabile per il futuro della sinistra. Poi, perché questo percorso proceda, occorre una grande e rinnovata intesa tra la sinistra europea – penso ai socialisti, ma mi auguro non solo loro – e i popolari europei. Queste forze hanno segnato in passato la nascita del sogno europeo. Oggi, di fronte alla sfida della Brexit, hanno il dovere di portare avanti il percorso dell’integrazione e della costruzione di una democrazia sovranazionale. Se socialisti e popolari europei non fossero all’altezza di questa sfida, sarebbero corresponsabili di un declino dei popoli europei rispetto alla storia di questo XXI secolo.

clicca qui