Di: Angela Mauro

L’obiettivo è ottenere fin da ora un impegno della minoranza Dem nei comitati del Sì al referendum costituzionale. Un impegno fattivo, ogni parlamentare nel suo collegio elettorale, a tappeto. E’ per questo che Matteo Renzi riunisce deputati e senatori Dem a Montecitorio e, subito prima al Nazareno, incontra i segretari regionali del Pd. Vuole che tutto il partito si impegni per la sfida di ottobre: da ora, senza attendere i risultati delle amministrative. Ma a differenza dell’ultima direzione Dem, il clima nel partito non è di tregua. Vannino Chiti, senatore di minoranza Dem e primo artefice dell’accordo che ha portato tutto il Pd a votare unito sulle riforme in Senato, è molto deluso. Chiede a Renzi di “rispettare quell’intesa” e “assumere l’impegno di varare la legge elettorale per il nuovo Senato entro la fine della legislatura”. Altrimenti “diventa difficile dire sì alla riforma e assumere un impegno in vista del referendum”, avverte Chiti in questo colloquio con Huffington Post. Poi il dubbio: “C’è un unico motivo per non fare la legge: puntare al voto nel 2017…”.

E’ la legge sul cosiddetto ‘Senato elettivo’. Consentirebbe ai cittadini di votare i componenti della nuova assemblea. Senza questa legge, sarebbero i consigli regionali a scegliere i propri rappresentanti-senatori, per effetto di una norma transitoria che in teoria può anche diventare permanente. Ma non erano questi i patti nel Pd. “Abbiamo raggiunto un accordo che ha permesso al Pd di votare unito. Senza questo accordo, 25-30 senatori non avrebbero votato il ddl Boschi”, ricorda Chiti. “La legge sul nuovo Senato da fare prima delle politiche del 2018 era uno dei tre capisaldi dell’intesa. Gli altri due capisaldi erano: portare a tre-quinti la maggioranza di elezione del presidente della Repubblica per tutte le votazioni a Camere riunite, mentre la proposta del governo era di arrivare ad una maggioranza assoluta alla settima votazione, cosa che avrebbe eletto al Colle un rappresentante del partito vincitore delle elezioni con l’Italicum. E l’ultimo punto era stabilire un equilibrio sull’elezione dei giudici costituzionali in modo che nemmeno qui ci sia un’influenza preponderante della Camera, che con l’Italicum sarà governata dal partito che vince a maggioranza schiacciante”.

Mentre questi ultimi due punti sono stati approvati, il Senato elettivo langue. Renzi non si è ancora impegnato in prima persona. Oggi, per calmare le acque, è intervenuto il sottosegretario Luciano Pizzetti a chiarire che “la legge elettorale per il nuovo Senato si farà in questa legislatura. Per rispetto degli impegni comunemente assunti in Parlamento”. “Ma la scorsa settimana, il sottosegretario Bressa ha detto il contrario”, ribatte Chiti. Dunque serve una parola chiara del premier, già all’assemblea di oggi. “Apprezzo la precisazione di Pizzetti – dice Chiti – ma essendo il premier quello che dà il là all’azione di governo, come in tutti i paesi, è il premier che deve dire una parola chiara su questo impegno”.

Anche perché, se la legge non venisse approvata prima delle politiche, le tante regioni interessate al voto nella primavera del 2018, “cioè Friuli, Lazio, Lombardia, Basilicata, Molise, Val d’Aosta, Trento e Bolzano – elenca Chiti – manderebbero in Senato i nominati dai partiti, scelti in consiglio regionale, e non gli eletti dai cittadini. Per loro, il momento di eleggere i nuovi senatori arriverebbe solo dopo cinque anni, nel 2023, se tutto va bene”. E invece “bisognerebbe agire subito. E’ vero che la nuova legge non può essere approvata prima del referendum – ammette Chiti – Ma non capisco perché non si possa convocare fin da ora la commissione Affari Costituzionali per cominciare una discussione informale, fare le audizioni. Così subito dopo il referendum saremmo pronti, noi abbiamo già presentato una proposta: discutiamola fin da ora”.

Ma poi Chiti intravede il possibile tranello. “C’è un solo motivo per cui non si potrebbe fare questa legge prima del voto. E cioè se c’è l’intenzione di andare al voto anticipato dopo il referendum e la legge di stabilità, cioè nella primavera del 2017. Ma siccome il premier continua a dire che si va al voto nel 2018, non vedo il problema…”.

Già. Renzi dovrà sciogliere questi nuovi nodi nel Pd, se il suo obiettivo resta quello di non ingaggiare bracci di ferro con la minoranza, mantenere la tregua per arrivare al referendum senza perdere pezzi. Tra l’altro, da Palazzo Chigi, il premier fa notare ai suoi come nei sondaggi i Dem stiano facendo meglio dei cinquestelle negli ultimi dieci giorni. Di certo, per via della sospensione del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, che sta costando al M5s un calo dell’1,4 per cento nei sondaggi di Piazza Pulita (da 28,4 a 27 per cento) e dello 0,3 per cento nei sondaggi del TgLa7 (dal 28 al 27,7 per cento). Mentre il Pd ha guadagnato 1,3 per cento nei dati di Piazza Pulita (è al 29,3 per cento) e 0,3 per cento per quelli del TgLa7 (30,6 per cento). “E’ l’effetto malgoverno locale sui cinquestelle”, dice Renzi ai suoi.

Ma “è chiaro che se venisse meno la coerenza nel mantenere un impegno, non potrebbe restare la medesima la posizione rispetto alla riforma e quanto meno rispetto ad un impegno nella campagna referendaria che secondo me il Pd dovrebbe svolgere nel modo più unitario possibile e argomentato possibile”, avverte Chiti che considera altra condizione imprescindibile il fatto che “i comitati per il sì non devono essere organismi camuffati per far nascere ‘partiti della nazione’ diversi dal Pd…”.