002200681. Il Dialogo tra le religioni per vincere le sfide del XXI Secolo
Il compito che abbiamo di fronte, come politica, come mondo della cultura, come confessioni religiose, è quello di un impegno per contribuire a sciogliere l’interrogativo serio e reale sul determinarsi di una fase storica di contrapposizione e scontro, oppure di confronto e dialogo tra le religioni, in primo luogo quelle monoteiste, in modo da far prevalere quest’ultimo obiettivo.
Abbiamo bisogno di un dialogo e di una cooperazione tra le religioni per costruire la pace, un ordine di relazioni mondiali, tra i popoli, giusto, per affrontare e vincere le sfide di questo nostro tempo, in primo luogo quella ecologica, cioè il futuro per il nostro pianeta e l’umanità.
Considero un apporto significativo quello della recente enciclica di Papa Francesco Laudato sì, che ha posto al centro della riflessione, dei nostri comportamenti quotidiani, così da contribuire a farlo diventare anche senso comune, il rapporto tra noi, la nostra convivenza, lo sviluppo e la natura.
Vi è una discontinuità – iniziata da tempo, ho in mente la Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI e gli insegnamenti di Papa Giovanni Paolo II – nelle impostazioni della Chiesa cattolica e più in generale del cristianesimo – anche in questo caso si possono indicare le elaborazioni e proposte del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, non a caso citato nell’enciclica di Papa Francesco – riguardo al ruolo dell’uomo nel creato: non padrone assoluto, bensì gestore; non creator ma faber. Noi siamo creature, come gli altri esseri viventi, del regno animale o naturale: non siamo creatori.
Sottolineavo come in questo XXI secolo il rischio di una contrapposizione tra fedi religiose sia reale e possa essere utilizzata per dar vita ad un conflitto permanente, non solo ideologico ma anche economico, politico, militare, tra aree del mondo, in particolare tra Occidente e territori di altri continenti. Anni fa questa interpretazione è stata sostenuta in un libro diventato famoso, Lo scontro delle civiltà e la ricostruzione di un ordine mondiale, da Samuel Huntington. Nel 1996 Huntington scriveva che “… sotto lo sprone della modernizzazione la politica globale si sta riconfigurando. Popoli e nazioni con culture simili si riuniscono e altri con culture diverse si dividono. Gli allineamenti definiti dall’ideologia e dalle relazioni con le superpotenze sono sostituiti con allineamenti relativi alla sfera della cultura e civiltà…”.
Dagli sconvolgimenti geopolitici vedeva emergere sette o otto entità: Occidente, Oriente ortodosso, Islam, Induismo, Cina, Giappone, forse Africa.
Questo riferimento mi serve per una considerazione generale: per quanto il mio discorso sarà principalmente incentrato sui riflessi che riguardano l’Europa e il Mediterraneo, i rapporti tra le fedi religiose hanno una portata più ampia, un’influenza che riguarda scenari più estesi, hanno un peso nel condizionare le sorti del mondo.
Questo esito è stato determinato da una pluralità di fattori: in primo luogo le religioni non sono scomparse, annullate da un progresso della scienza che, per le filosofie positiviste e il materialismo della vulgata marxista, o dell’economicismo neo-liberista, avrebbe dovuto renderle un residuo arcaico, una sorta di superstizioni destinate a perdere di significato; secondariamente la caduta dell’utopia del comunismo, del cosiddetto socialismo realizzato, trasformatosi in regimi di dispotismo autoritario, in oppressione delle libertà, ha lasciato in vari continenti un vuoto nelle speranze di emancipazione e giustizia, nella stessa fiducia nelle possibilità e capacità umane di costruire società migliori; infine la necessità per misurarsi con le sfide dell’oggi – politiche, di sviluppo, dell’ambiente e del clima, della pace – di realizzare un’etica mondiale condivisa, dei valori comuni, cioè, nei quali possano riconoscersi uomini e donne di differenti fedi, etnie, culture anche non religiose, ma non nemiche della religione.
I secoli che stanno alle nostre spalle hanno realizzato conquiste grandiose: la scienza ha migliorato le condizioni di vita, ma non può trasformarsi in una filosofia assoluta o in una nuova religione.
E’ un mezzo per la crescita della civiltà umana, non un fine: il fine è e deve restare la persona.
Non tutto in un’etica capace di accompagnare il cammino dell’umanità del nostro tempo è definito, ma alcuni valori possono e debbono essere fissati: la priorità rappresentata dalla persona e dalla sua dignità; i diritti umani; la sostenibilità dello sviluppo; la non violenza.

2. Le Religioni per la pace nel mondo e la solidarietà nelle nazioni
Quale è l’orientamento che è necessario si affermi nelle religioni – in modo più specifico nell’ebraismo, cristianesimo, islam – perché prevalga il confronto, il reciproco rispetto, la possibilità di un comune agire per realizzare la dignità della persona ed una prospettiva di pace?
Questi a me sembrano gli indirizzi fondamentali.
Porre al primo posto la ricerca del dialogo interreligioso, che si fonda sulla sottolineatura degli aspetti comuni – la fede in un unico Dio; la sua rivelazione all’umanità; la priorità rappresentata dall’amore verso il prossimo -, sulla conoscenza reciproca e sul confronto rispetto alle differenze nei rispettivi credi.
E’ comune alle tre grandi religioni monoteiste il riconoscere, nella fede in Dio, un disegno di misericordia e salvezza nei confronti di ogni uomo.
Poi nel corso dei secoli le diverse confessioni hanno teso ad interpretare in forma esclusivista l’unicità di Dio e l’universalità della salvezza: ognuna si è sentita detentrice assoluta della verità, escludendo le altre.
Il cattolicesimo ha posto su basi nuove il rapporto con le religioni non cristiane a partire dal Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate.
Giovanni XXIII ha cambiato in profondo, nei confronti degli ebrei, impostazioni liturgiche e teologiche. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono entrati in sinagoghe e moschee, raccogliendosi in preghiera.
Soprattutto alcuni momenti di dialogo interreligioso fanno ormai parte della storia e tracciano un’indicazione concreta anche per il futuro: gli incontri promossi da Giovanni Paolo II ad Assisi, nel 1986 e poi nel 2002, e lo straordinario e commovente pregare insieme per la pace da parte degli esponenti di tutte le religioni mondiali.
Ancora Giovanni Paolo II, in un viaggio in Siria dal 5 all’8 maggio 2001, dirà parole che assumono una permanente attualità e valore: “Oggi, in un mondo sempre più complesso e interdipendente, è necessario un nuovo spirito di dialogo e di cooperazione fra cristiani e musulmani. Insieme riconosciamo il Dio unico e indivisibile, il creatore di tutto ciò che esiste.
Insieme dobbiamo proclamare al mondo che il nome dell’unico Dio è un nome di pace e un imperativo di pace”.
E Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi definirà ogni religione come una ricerca di salvezza e di Dio e affermerà che le religioni tengono per così dire “le braccia tese verso il cielo”: un’espressione che verrà poi ripresa da altri Pontefici e dallo stesso Giovanni Paolo II.
Sono fondamenti per realizzare un dialogo, non certo volontà di impossibili e dannosi sincretismi religiosi.
Formare i propri fedeli – e soprattutto i giovani – alla tolleranza, alla considerazione delle altre religioni, dei loro luoghi e simboli di culto è divenuto in questa fase ancor più necessario, non solo giusto.
Questi riferimenti si ritrovano anche nel documento finale del 1° incontro tra cattolici e islamici, svoltosi a Roma dal 4 al 6 novembre del 2008, nella cui realizzazione ebbe un ruolo di sollecitazione la lettera dei 138 dotti islamici ai capi delle Chiese cristiane, e concluso dallo stesso Benedetto XVI. Un documento finale importante, che può aprire prospettive e convergenze significative anche su temi cruciali come la libertà religiosa e il ruolo della donna.
Doveva avere una continuità con un secondo incontro, in un Paese islamico: purtroppo ad ora non ha avuto seguito.
E’ indispensabile che nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam vengano messi ai margini, affrontati e isolati i fondamentalismi: non possono essere giustificati con la fede in Dio odi, intolleranze, disprezzo, violenza.
I “popoli del libro” devono saper mettere al bando, nei loro testi sacri, interpretazioni che inducano a violenze e guerre, in quanto frutto non del messaggio di Dio, bensì delle incrostazioni di un tempo storico, per dare rilievo alle parole di pace, di solidarietà e fraternità che vi sono contenute.
Alle confessioni religiose deve essere chiesto di riconoscere e rispettare il pluralismo delle fedi e delle culture: è una questione centrale.
La dimensione pubblica delle religioni si concilia con la democrazia solo in una società che faccia del pluralismo di fedi e culture un fondamento della sua convivenza.
Infine la laicità: nel XXI secolo la laicità è l’altra, inseparabile, faccia della democrazia.
La laicità non riguarda soltanto i rapporti tra lo Stato e le religioni: questo ne è solo un aspetto, per quanto di grande rilievo.
La laicità fonda l’autonomia delle attività umane, che non possono essere piegate a fini diversi rispetto a quelli loro propri da interventi estranei, esterni, siano dovuti ad autorità religiose o politiche.
Nei rapporti tra Stato e religioni la laicità determina una reciproca autonomia e non ingerenza. Lo Stato ha a suoi riferimenti i cittadini, quali che siano le loro convinzioni culturali o religiose: non può essere il braccio secolare di una religione, altrimenti scade a istituzione confessionale, né di una dottrina filosofica, altrimenti degenera a istituzione totalitaria. La storia ci presenta esempi dell’una e dell’altra specie.
Le confessioni religiose devono rivendicare una piena libertà: del resto la libertà religiosa è parte integrante della nostra libertà, senza aggettivi.
Devono al tempo stesso rispettare l’autonomia della società civile, delle singole persone, dello Stato.
L’uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato, il sistema dei diritti e dei doveri, prescinde dalle appartenenze religiose o culturali: una persona può avere o non avere un credo religioso, può trovarlo, cambiarlo, perderlo nel corso della sua vita, ma queste sue convinzioni, legittime, non possono minimamente incidere nelle relazioni con lo Stato, più esattamente con le relazioni che lo Stato, nei suoi ordinamenti, intrattiene con ogni cittadino. In caso contrario viene scalfita o messa in discussione l’esistenza di uno stato di diritto.
E’ in questo quadro che si colloca la stessa questione dell’uguaglianza donne-uomini, la riforma del diritto di famiglia, il rispetto per le differenti preferenze sessuali delle persone.
E’ evidente che se si analizzano le evoluzioni delle fedi religiose e il loro impatto con conquiste fondamentali della modernità – quelle che ho esemplificato, esprimono alcuni irrinunciabili diritti umani – si verifica in modo oggettivo l’esistenza di ritardi nell’esperienza dell’islam, in particolare nelle società arabe o africane.
Il dialogo deve contribuire ad affrontarli, il confronto a superarli: ignorarli non contribuisce a far avanzare la comprensione e la collaborazione. Soprattutto, il permanere di quegli orientamenti impedisce la possibilità di un pieno apporto di tutte le fedi religiose per vincere le sfide aperte di fronte al mondo contemporaneo e per costruire una più avanzata convivenza, una qualità umana più evoluta nelle nostre società.
Il dialogo deve essere non di pochi, non segreto, ma aperto, trasparente, coinvolgere, nella sua esistenza e nel suo progredire, i popoli, così da far cadere vecchie pregiudiziali e paure.
Hans Küng ha sostenuto che “senza dialogo e pace tra le religioni non può esservi pace tra le nazioni”: penso che oggi si debba completare quella giusta affermazione, mettendo in evidenza che “senza pace tra le religioni”, non potrà esservi pace, e cioè coesione, solidarietà, “nelle stesse nazioni”.
Le nostre società sono cambiate: sono società plurietniche, multiculturali e multireligiose. Hanno conosciuto modifiche profonde e rapide, dietro l’ampliarsi delle migrazioni, ma anche a seguito della pervasiva influenza dei media e di un’informazione globale, che porta il mondo, i suoi vari simboli, credenze, speranze, drammi, nelle nostre case.
La democrazia deve essere in grado di costruire una più avanzata dimensione nell’organizzazione sociale, politica, civile, contribuendo ad una “pace” e “cooperazione” tra le religioni, le culture e sollecitando un loro apporto alla soluzione dei grandi e inediti problemi, che sono di fronte a noi.
E’ questa la strada da percorrere, non quella della illusoria costruzione di nuovi muri, oggi ai confini tra le nazioni, domani, di questo passo, all’interno di una stessa società: sempre muri, anche se magari, questi ultimi, non saranno di tipo materiale.
Il dialogo tra ebraismo, cristianesimo, islam ha un primo, grande banco di prova, come esito concreto dei suoi sviluppi: la realizzazione di una prospettiva di pace, di collaborazione tra i popoli del Mediterraneo. Qui, oggi, si gioca una partita cruciale per la stessa pace nel mondo. E’ necessario il contributo delle tre grandi religioni per concludere un percorso che dia vita a due Stati per due popoli – quello ebraico e quello arabo/palestinese -, in sicurezza e reciproca collaborazione. Nel mondo arabo e islamico deve affermarsi il riconoscimento al diritto all’esistenza di Israele: è una condizione irrinunciabile. Al tempo stesso deve essere risolto il nodo del ruolo di Gerusalemme. La città ha in se stessa tre funzioni rilevanti: capitale dello Stato di Israele, di uno Stato arabo palestinese, città sacra, per la presenza dei luoghi di culto e per la storia, delle tre grandi religioni monoteiste. Di questa complessa realtà dovrà tener conto il suo status, garantito anche internazionalmente, così che la “città sul monte” divenga da luogo di scontri e di violenze, simbolo di pace.
E’ sogno, è utopia? Senza grandi visioni ci si arrende al presente, anziché costruire un futuro più degno.
L’incontro in Vaticano tra Papa Francesco, l’allora Presidente di Israele Shimon Peres, il Presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, l’8 giungo 2014 è stato un segno di pace: non è da dimenticare o riporre negli archivi, ma da sviluppare come un seme dalle preziose potenzialità.

3. Il ruolo di culture e religioni per un nuovo umanesimo
Le culture, mi riferisco a quelle non direttamente religiose, hanno anch’esse un compito importante nel contribuire a definire uno scenario che favorisca il dialogo, il confronto, renda possibile un contributo, fatto avvertire a tutti come significativo, da parte delle religioni.
Lo hanno soprattutto in Occidente, ancor più qui, in Europa, dove i processi di secolarizzazione sono stati letti, interpretati e spesso realizzati nell’ottica di una valutazione che relegava l’esperienza religiosa nella dimensione del mito, di residui arcaici di un passato, in via di superamento nel percorso, più o meno graduale, della storia.
Naturalmente questo approccio ha delle cause: le guerre di religione tra cattolici e protestanti, che insanguinarono l’Europa per decenni; l’esistenza, per una lunga fase, della monarchia pontificia, Stato tra gli Stati, con una caratterizzazione anche religiosa e l’uso talora spregiudicato di questo duplice aspetto; la vicenda delle crociate, la loro genesi, l’insieme delle loro finalità, il messaggio che trasmettevano; la contrapposizione e le guerre, per l’indipendenza dell’Europa, con l’impero ottomano, anch’esso forgiato su di una base al tempo stesso politica e religiosa.
Da tempo tuttavia la fase della storia è mutata e ad essa devono ora sapersi riferire cultura e politica.
La secolarizzazione deve segnare i confini per i diversi ruoli delle istituzioni della politica, degli Stati, delle confessioni religiose, non la marginalizzazione di queste ultime nel mondo delle superstizioni o del superfluo.
La laicità non può più fondarsi – come è avvenuto in molti Paesi europei, sulla base di un contributo di alto livello politico e culturale datoci dal liberalismo, che risulta però ormai, inevitabilmente datato – su due pilastri: la reciproca autonomia tra Stato e religioni; il carattere privato delle convinzioni di fede, da rispettare purché conservate e vissute nel segreto dei cuori.
Il primo pilastro mantiene nel presente la sua validità: il carattere obbligatoriamente riservato delle fedi, talora addirittura attraverso norme di legge, cozza contro i processi della storia.
Per rendersene conto è sufficiente guardare la realtà intorno a noi con occhi non velati da pregiudiziali ideologiche o da infatuazioni legate al passato.
Ho già detto che il criterio fondamentale è per me l’organizzazione di una dimensione pubblica della espressione delle fedi religiose e delle culture, fondata sul pluralismo e sul carattere né confessionale né totalizzante dello Stato.
Il permanere di parte dell’Occidente in interpretazioni culturali delle esperienze religiose, all’interno della convivenza nelle nostre società, come di fenomeni del mito o comunque di secondaria importanza, se non di inutile e pericolosa complicazione, ci isola dalla comprensione, dalla pienezza di un dialogo positivo con il resto del mondo.
Negli altri continenti – dalle Americhe all’Africa, dall’Oceania all’Asia – il rapporto tra persona, cultura, organizzazione statuale e fedi religiose è profondamente diverso.
Ecco allora che il rapporto tra Occidente e religioni diviene un aspetto del più generale nostro modo di porsi nei confronti del mondo, delle sue culture, della pluralità delle sue fedi religiose, delle sue visioni della natura, dello sviluppo, delle relazioni e della convivenza sociale.
L’occidente ha avuto nei confronti dei popoli degli altri continenti una concezione che li vedeva come subalterni, sudditi, oppure nemici: allo stesso modo ha interpretato il progresso come illimitato, come un intervento aggressivo sulla natura, disinteressandosi dalla rigenerabilità delle sue risorse e recidendo un vincolo di memoria con il passato, di solidarietà con il futuro e con le generazioni che verranno.
Si tratta naturalmente della cultura prevalente: non è un dato omogeneo. Nelle Università, nella società e nella politica si stanno affacciando e qua e là iniziano ad affermarsi impostazioni alternative.
Beninteso non si tratta di rinnegare lo sviluppo, ma di renderlo sostenibile, attraverso una riconversione ecologica dell’economia.
Né si deve disconoscere la funzione fondamentale della scienza, della ricerca, delle sue applicazioni: si tratta di ridefinire le sue finalità, il soggetto rispetto a cui vanno misurate le sue conquiste, decise le attuazioni delle sue scoperte.
Il soggetto è la persona umana, più in generale il bene comune.
Non si procede in questa direzione senza una nuova scala di valori comuni, cioè quella che ho definito etica condivisa per l’umanità del XXI secolo.
La cultura, anche quella non direttamente di espressione religiosa, deve contribuire a restituirci una visione complessiva della persona: quest’ultima non può essere contenuta e compresa solo all’interno della sua fisicità.
In ognuno di noi esiste anche una dimensione spirituale, che spiega la nostra tendenza a porsi orizzonti che vanno “oltre” l’esperienza della nostra vita, che danno ragione di una nostra aspirazione alla trascendenza, sia che l’affrontiamo in termini religiosi o esclusivamente di tipo umanistico.
Domande relative a chi siamo, da dove veniamo, se ci sia “altro” dopo la nostra morte, sono fondamentali per dare un senso alla nostra esistenza: considerarle superflue in quanto non affrontabili secondo i criteri propri della scienza, ancorati legittimamente alla sperimentazione empirica, alle relazioni tra causa ed effetto, determina un’amputazione nella dimensione complessiva della persona.
Del resto non solo correnti della teologia cristiana moderna, – penso ad esempio alla Teologia della Liberazione – ma figure significative del cattolicesimo come Teilhard de Chardin ci hanno parlato di una materia “sacra”, perché in sé stessa vi è anche lo spirituale, e di uno Spirito che si materializza e vive, così che non vi è niente di più spirituale della materia e di più materiale dello Spirito.
In queste impostazioni vi è una concezione della creazione come processo evolutivo, dell’essere umano come soggetto che progressivamente prende consapevolezza del farsi dell’Universo, dell’incontro finale con il Punto Omega, con Cristo-Dio, alla fine dei tempi.
Se – come ha teso a fare l’Occidente – la dimensione della scienza viene assunta per delimitare i confini della verità e al di fuori di essi vi sono solo la superstizione e la caducità del mito, allora la scienza, contro se stessa, diviene un credo religioso. La conseguenza è una contrapposizione tra scienza e fedi religiose, che ci farebbe di nuovo precipitare nel buio di secoli passati: l’una e le altre sarebbero indotte a forzare o abbandonare il ruolo della ragione, cadendo così in opposte patologie, in ogni caso distruttrici di un futuro degno per l’umanità.
Un dialogo tra le religioni e tra religioni e culture è condizione necessaria per realizzare una fase nuova della civiltà umana, quella che a me piace chiamare nuovo umanesimo, il nome che deve assumere quell’etica mondiale condivisa, alla quale tante volte ho fatto riferimento.
A sua base vi è la persona umana, la sua dignità, alla cui affermazione le religioni hanno dato e danno un sostegno irrinunciabile, insostituibile: la persona reca in sé un segno di Dio. L’essere figli di Dio e dunque tutti fratelli fa assumere valore universale alla dignità di ogni persona, al diritto di un’uguale cittadinanza nei diritti e nei doveri.
La società e la convivenza da realizzare sono allora quelle che non escludono la presenza di Dio: non rendono certo obbligatoria l’adesione ad una fede, ma non relegano le convinzioni religiose nella dimensione del superfluo, dell’irrilevante, del superstizioso residuo di un passato ormai tramontato.
Un altro compito al quale, in questa parte del mondo, dovrebbero assolvere fedi religiose e culture di diversa impostazione è quello di contribuire a restituire una rinnovata identità ai cittadini europei.
Non è corretto, a mio giudizio, parlare in modo indifferenziato di crisi dell’Occidente, senza individuare al suo interno, come segno specifico, la fine dell’eurocentrismo.
L’Europa, con le sue innovazioni, il suo messaggio di civiltà e con le tragedie delle sue divisioni, conflitti, barbarie – dall’Olocausto alla più recente guerra dei Balcani, con le stragi etniche che l’hanno accompagnata – non è più il centro del mondo.
E’ un continente che sta invecchiando, che si chiude nelle sue paure e nei suoi egoismi, che vedrà nei prossimi decenni diminuire fortemente il suo contributo allo sviluppo del mondo: racchiusa nei suoi Stati nazione, vede non convivere ma guardarsi con sospetto le varie nazionalità che la compongono.
Ridefinire una comune appartenenza europea, un destino condiviso, un ruolo nel mondo ormai globale e multipolare è un’esigenza alla quale deve far fronte in primo luogo la politica: senza un apporto delle fedi religiose e delle culture, l’esito di questa sfida, che ha un’influenza decisiva sul futuro dei cittadini europei, sarebbe quantomeno assai incerto.
Le identità e i valori devono saper parlare alle coscienze e alle menti, alla ragione e al cuore, attraversando e coinvolgendo i diversi schieramenti partitici, purché ancorati ai principi della democrazia, dello stato di diritto, dell’affermazione dei diritti umani.

4. Le sfide per la democrazia nell’era della globalizzazione
I compiti più importanti che, a mio giudizio, spettano alla politica sono quelli di realizzare nuove e stabili relazioni internazionali, dopo la fine della guerra fredda in Europa, la dissoluzione dell’impero sovietico e il venir meno del mondo bipolare, diviso tra Stati Uniti e Unione Sovietica; al tempo stesso di costruire ordinamenti capaci di rinnovare, rafforzare, estendere la democrazia, così che al suo interno si esprima la libertà e responsabilità delle persone, si affermino i diritti umani, prenda vigore uno sviluppo in grado di assicurare dignità di vita ai popoli e sostenibilità ambientale, si svolga in un dialogo costruttivo il confronto tra fedi religiose e culture.
Non è scontato che questo sia l’esito.
La democrazia stessa, dopo aver vinto nel XX secolo la sfida contro i totalitarismi di destra e di sinistra, oggi è aggredita non solo dai terrorismi, spesso animati da ideologismi religiosi strumentali e fanatici, ma da un populismo che svuota le regole della rappresentatività democratica ed è messa alla prova dai processi di globalizzazione economica, finanziaria, commerciale, mediatica.
La democrazia, nel nostro tempo, non può vivere solo all’interno dei confini di Stati nazione: qui sarebbe destinata a impoverirsi, a ridursi a forme vuote, fino a diventare irrilevante.
Deve dotarsi di istituzioni che la proiettino su scala sovranazionale: deve accompagnare e saper guidare la globalizzazione, che è irreversibile ed ha, se orientata, potenzialità positive.
Mi limiterò ad indicare due obiettivi fondamentali: la riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e la realizzazione di una democrazia sovranazionale europea.
Su entrambi questi scenari siamo in forte ritardo.
Prima però una premessa, che riveste un carattere decisivo: la guerra in atto, portata da terrorismi che usano strumentalmente fedi religiose, non è dell’Islam contro cristiani e ebrei.
E’ un attacco, non sottovalutabile, dei terrorismi alla nostra civiltà, alle relazioni umane, alla convivenza democratica.
Vittime del terrorismo sono cittadini inermi, di varie convinzioni religiose, spesso donne e bambini: i musulmani stessi stanno pagando un prezzo altissimo in perdita di vite umane e in distruzioni.
Alleati del terrorismo, oltre ai venditori di armi ed ai mercenari, sono le povertà, le disuguaglianze, l’assenza di stabilità degli Stati, la mancanza di un ordine internazionale che sappia dare affidamento alle speranze di un miglioramento nelle condizioni di vita.
L’Occidente, ed in particolare l’Europa, dovrebbe interrogarsi sulle ragioni che spingono giovani immigrati, di terza generazione, e giovani da sempre europei, convertitisi all’Islam, ad abbandonare le loro case e ad aderire ad una lotta armata caratterizzata da finalità, che ci appaiono barbare e di regresso della civiltà.
Dove e perché i diritti umani, scritti nelle nostre Costituzioni, non riescono a parlare a questi nostri giovani?
Quale distanza separa le affermazioni di principio dalla concretezza delle esperienze quotidianamente vissute?
Quali sono le ragioni che non hanno consentito, pur nella grande diversità delle soluzioni adottate, una positiva integrazione di varie etnie, culture, convinzioni di fede, nelle nostre società?
Sono domande alle quali dobbiamo cercare di dare risposte, per introdurre cambiamenti che non rinuncino a governare il futuro. L’Europa non può diventare un continente difficile o chiuso alle speranze dei giovani.
Altra considerazione per me basilare: la democrazia non si esporta, non si impone con le armi, altrimenti – come è avvenuto prima con l’intervento in Iraq, poi con quello in Libia – si destabilizzano aree, si scoperchiano vasi di Pandora.
Non solo la democrazia non ha ovunque le medesime forme istituzionali, ma i processi per realizzarla seguono la costruzione autonoma di società civili, l’affermarsi di autogoverni locali e regionali, il nascere e l’assumere ruoli da protagonisti da parte di organizzazioni sindacali, imprenditoriali, di un associazionismo dei cittadini.
E’ certamente un nostro dovere aiutare il diffondersi della democrazia e il suo irrobustirsi, ma questo richiede di porla come uno degli obiettivi della cooperazione, in primo luogo contribuendo a garantire il rispetto di quei diritti umani sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti della Persona.
Ci siamo posti acriticamente anche nei confronti delle cosiddette Primavere arabe, dapprima esaltandole in modo indifferenziato, senza vederne anche limiti, zone d’ombra, contraddizioni e fragilità, poi, di fronte a talune battute d’arresto e insuccessi, bollandole in modo generico di fallimento e archiviandole, smarrendo così la stessa memoria storica dei processi, fatti di passi avanti e di involuzioni autoritarie, di tempi di percorso fortemente differenziati, che hanno accompagnato l’affermazione della democrazia nel continente europeo, a partire dalla rivoluzione francese, nel XVIII secolo, fino all’ultimo scorcio del XX.
Da questo punto di vista sono significative le esperienze realizzate dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa con i partenariati per la democrazia nei confronti di Stati della riva sud del Mediterraneo.
L’ONU è oggi, nel suo Consiglio di Sicurezza, la fotografia invecchiata degli esiti della seconda guerra mondiale, appesantita nel suo funzionamento dal diritto di veto, prerogativa dei cinque membri permanenti.
Una sua riforma richiede la presenza nel Consiglio di Sicurezza delle grandi aree mondo: Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, India, Africa, Sud America, Unione Europea. Esige, se ora non è possibile abolirlo, di limitare l’esercizio del diritto di veto, quantomeno legando alcune decisioni ad un quorum qualificato di consensi. Presuppone che diventino di sua competenza gli obiettivi e le regole per vincere le sfide climatiche e i rischi ambientali, che gravano sul nostro domani, così come la tutela dei diritti umani, delle libertà fondamentali della persona, la garanzia di non oppressione per le minoranze etniche o religiose.
Senza questa funzione, riconosciuta all’ONU e resa compiutamente realizzabile, continueremo a vivere in un mondo disordinato, con l’impressione spesso fondata di scelte arbitrarie legate a sanzioni o ad operazioni di polizia internazionale, il cui carattere di necessità viene stabilito, volta volta, da singole potenze o da organizzazioni militari, anziché dal concerto delle nazioni.
Il mondo globale può diventare un villaggio planetario, retto da valori, istituzioni democratiche, solidarietà, oppure una sorta di moderna giungla, caratterizzata da grattacieli e complessi urbani, anche mastodontici, anziché da alberi fitti e giganteschi, ma ugualmente dominata dai più forti, da prepotenza e ingiustizia.
Le religioni possono dare un loro contributo all’affermarsi di una democrazia globale: in questo senso – come già ho sottolineato – ho apprezzato gli orientamenti espressi dalle ultime encicliche, la Caritas in veritate di Benedetto XVI e la Laudato sì di Papa Francesco.
Anche l’Unione Europea è oggi di fronte ad un bivio: o riesce a realizzarsi pienamente come una democrazia sovranazionale o è reale il rischio di un arretramento a sola area di libero scambio economico-finanziario, incapace, nella pluralità dei suoi 28 Stati nazionali, gelosi di poteri non più gestibili all’interno dei loro confini, di dotarsi di una politica estera, di sicurezza, di sviluppo in grado di farne una protagonista nel XXI secolo.
L’attuale bilancio dell’Unione Europea a malapena arriva all’1% del Prodotto Interno Lordo complessivo dei Paesi che la compongono: quello del Governo federale degli Stati Uniti è del 24%. La Banca Centrale Europea non assomiglia ancora alla Federal Reserve.
Se si prendono in esame e si sommano i bilanci per le spese militari dei 28 Stati, l’Unione Europea sarebbe terza al mondo come risorse impiegate per la sicurezza, dopo Stati Uniti e Cina, prima di Russia e Giappone. Solo che non si vede la prospettiva di Forze Armate europee e ad ora manca anche un efficace coordinamento, così che ogni Stato, per risparmiare, taglia negli stessi settori: si hanno così doppioni superflui e incredibili carenze.
Non esiste una politica unitaria dell’Unione nel Mediterraneo e neanche, in modo credibile, nei confronti della Russia: si addice a noi l’espressione di gigante economico e nano politico, usata un tempo per altre realtà.
Né si è risposto in modo corretto ed incisivo alla crisi che, partita dagli Stati Uniti, ci ha colpito nel 2008 con una durezza e con una durata temporale superiore agli anni del secondo conflitto mondiale: la linea di un’austerità cieca e fine a se stessa non ha consentito di mettere in equilibrio i bilanci degli Stati, accentuando squilibri, comprimendo le attività economiche, facendo registrare circa 24 milioni di disoccupati nei Paesi dell’Unione.
E’ crollata la fiducia nell’Unione Europea, si è incrinata la solidarietà tra i suoi popoli. I cittadini del Nord sospettano di scarso impegno nel lavoro e di deficit nella capacità di sacrificio quelli dei Paesi mediterranei, mentre questi ultimi giudicano egoisti, e privi di sentimenti di generosità e altruismo tedeschi, inglesi e scandinavi. In queste condizioni di debolezza politico-istituzionale rischiamo molto di fronte al possibile tsunami causato dal rallentamento dell’economia cinese.
L’Unione Europea ha una voce ancora flebile nel difendere gli interessi del nostro modello sociale e di sviluppo.
Il dramma dei migranti, le risposte miopi, dettate da ristretti orizzonti nazionalistici, addirittura la scelta di marchiarli, bambini compresi, per poterli individuare, sono davanti agli occhi del mondo, a sottolineare l’impotenza europea e talvolta la nostra vergogna per l’insensibilità e l’egoismo che mostriamo di fronte ad un dramma umanitario.
Non vi è distinzione tra persone che, fuggendo da guerre e disastri ambientali, chiedono, avendone le condizioni per le norme europee, il diritto all’asilo e migranti in cerca di lavoro, di migliori condizioni di vita, di ricongiungimenti familiari.
Un’area cruciale è il Mediterraneo, non uno dei tanti mari che bagna l’Europa, ma un crocevia nel quale vengono a incontrarsi sviluppo e arretratezze; tensioni, conflitti e potenzialità di coesistenza e cooperazione; culture e religioni che orientano nel mondo miliardi di persone.
Nelle rive sud ed est del Mediterraneo vivono oltre 400 milioni di persone, la gran parte giovani: è qui che l’Unione Europea è in primo luogo chiamata a dar prova di sé, a dotarsi di un’unica politica estera e di cooperazione, a costruire intese reciprocamente convenienti per lo sviluppo, a saper varare progetti quali quelli, come il Piano Marshall, che misero in campo, dopo il secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti nei confronti dell’Europa Occidentale.
Marocco, Tunisia, Giordania, Algeria, Egitto divengono interlocutori fondamentali: Siria e Libia sono teatri nei quali riportare pace e stabilità.
E’ indispensabile operare perché si plachi la guerra civile che, nel mondo arabo, sta contrapponendo sunniti e sciiti, così da trovare convergenze per sconfiggere l’Isis.
Sull’altro scenario è necessario stringere i tempi per legare nell’Unione i Paesi dei Balcani che, come Serbia, Montenegro, Kosovo e Albania, sono in trattativa per l’adesione.
Non vi sono alternative né è più possibile delegare ad altri il compito di realizzare nel Mediterraneo pace, stabilità e sviluppo: gli Stati Uniti hanno ormai altri interessi prioritari, quelli che nel Pacifico muovono il confronto-competizione con la Cina.
Il Mediterraneo è Europa e spetta alla democrazia sovranazionale europea impegnarvisi.
Quella di oggi – di cui non dobbiamo certo ignorare le straordinarie conquiste, a cominciare dalla edificazione di una Casa comune per popoli europei, che a lungo si erano combattuti – non è ancora una reale democrazia sovranazionale: le accresciute competenze sono gestite con quel metodo intergovernativo, somma dei vari Capi di governo e di Stato, che è il contrario di un sistema comunitario.
Le decisioni sono lente, talora farraginose, frutto di faticosi equilibri, esposte al peso dei Paesi più grandi e potenti: non a caso è il Consiglio Europeo che ha assunto ormai un rilievo politico primario.
Bisogna mettere all’ordine del giorno le riforme in grado di segnare i passi concreti per realizzare la democrazia sovranazionale europea e ridefinire un’anima, una motivazione e missione per l’Europa, nel tempo della globalizzazione e di un mondo non più eurocentrico, ma multipolare.
Sulle riforme alcuni passi avanti sono stati fatti: alle ultime elezioni europee i partiti hanno presentato ai cittadini i candidati alla Presidenza della Commissione e si è tenuto conto dell’esito del voto nella sua nomina; il ruolo del Parlamento europeo è cresciuto.
Si tratta di progressi timidi, anche in relazione alle ben più corpose misure adottate per controllare e uniformare bilanci, obiettivi economici, attraverso ad esempio l’introduzione del cosìdetto semestre europeo o le norme del Patto di stabilità e crescita (con l’ultimo termine divenuto spesso pleonastico).
Non sono sconosciute le tappe che si dovrebbero percorrere: la questione riguarda la volontà politica.
E’ necessaria una legge unica – non più 28 – per l’elezione dei deputati europei, così da dare al Parlamento una base comune di legittimità e conferirgli l’insieme dei poteri già prerogativa dei Parlamenti nazionali, nelle fasi di massima espressione della democrazia all’interno degli Stati nazione.
La Commissione deve assumere nelle materie di competenza dell’Unione, quali la politica estera e di sicurezza, gli indirizzi macro-economici, le sfide climatiche, il ruolo di un governo federale. In prospettiva il suo Presidente deve essere eletto direttamente dai cittadini europei.
Il Consiglio Europeo deve trasformarsi in Senato con poteri determinanti nelle materie fiscali, di bilancio e sull’ingresso di nuove nazioni nell’Unione.
Purtroppo questa complessiva riforma è al tempo stesso tanto urgente, quanto politicamente non vicina.
Nell’immediato, per impedire un regresso dell’Unione Europea, occorre intervenire sulla zona euro, utilizzando i meccanismi della cooperazione rafforzata, senza porre mano ai complessi meccanismi di una revisione dei Trattati.
Si deve dare un governo politico stabile alla zona euro, altrimenti non reggerà a lungo la stessa moneta unica; introdurre meccanismi efficaci di controllo democratico, attraverso una cooperazione tra i Parlamenti, formalizzando un rapporto di coordinamento e collaborazione in parte già esistenti, tanto che diversi costituzionalisti parlano di sistema parlamentare euro-nazionale; dotarla di un’autonoma linea di bilancio.
Non è la divisione o la separazione dell’Unione Europea, ma la sua articolazione, su base volontaria, in aree collegate e complementari ma con diverse regole di coesione politica, di responsabilità condivise, di attribuzione di sovranità. L’area euro deve restare aperta a successivi ingressi di Paesi dell’Unione che intendano far propri, nel corso del tempo, vincoli di più forte condivisione e integrazione.
Questa scelta consentirebbe di risolvere problemi oggi di grande spessore, quali, da un lato, le propensioni della Gran Bretagna, dall’altro lo status di nazioni quali la Turchia, alla quale l’Unione non può sbarrare le porte d’ingresso attraverso l’ipocrisia di trattative di adesione interminabili. L’ingresso della Turchia, oltretutto, manifesterebbe in concreto quel pluralismo religioso e culturale, posto a fondamento della nostra Casa comune.
Le riforme politiche ed economiche, quali che siano, non sono sufficienti a rilanciare il sogno europeo.
Occorre ridefinire i valori, le motivazioni non solo di natura sociale ed economica che possono caratterizzare un ruolo, una missione nel mondo globale, dell’Unione Europea: riprecisarne quella che può essere la sua identità culturale e ideale.
Al di fuori di questo orizzonte non si affermeranno né potranno essere difesi, rinnovandoli, il nostro modello di sviluppo economico, quella economia sociale di mercato che è una peculiarità europea, né un welfare capace di unire al merito almeno un’uguaglianza nella opportunità di vita: entrambi, welfare e modello di economia, non più sostenibili – torno a ripeterlo – soltanto all’interno dei vecchi confini degli Stati nazione. E va sottolineato come l’economia sociale di mercato consenta un percorso più facile per quella necessaria riforma ecologica, che approdi ad uno sviluppo pienamente sostenibile.
L’Unione Europea è in grado di aggiornare e restituire spessore ad un’identità che sorregga il sogno europeo: siamo la Patria dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Senza garantire la tenuta dello stato di diritto, abolire torture e pena di morte, non si possono neppure iniziare trattative per l’adesione all’Unione.
Da noi esiste un pluralismo di fedi religiose e di culture, un rapporto con le istituzioni dello Stato fondato sulla reciproca autonomia, senza ingerenze che snaturino i diritti e i doveri dei cittadini, sulla base delle loro convinzioni.
Qui, come già è avvenuto per il cristianesimo e l’ebraismo, può incontrare la modernità anche l’islam, procedendo ad una sua autoriforma che – così come per le altre confessioni religiose – non scalfisca il nucleo fondamentale della sua dottrina e del suo messaggio, ma determini il riconoscimento pieno delle autonomie della società civile, dello Stato, il pluralismo, le libertà di fede, di cultura, individuali, l’uguaglianza reale tra uomo e donna.
Mi riferisco ad un riconoscimento non accettato per realismo nei confronti delle regole presenti nelle società nelle quali si vive, ma convinto, reso intimamente coerente con il proprio credo religioso.
E’ un processo che è già in atto: vi sono esperienze significative, spesso sottovalutate, come l’elaborazione di una Teologia islamica della Liberazione umana, non per caso, ma volutamente richiamante la Teologia cattolica della Liberazione, che si muovono in questa direzione.
Vi è un rapporto con la religione islamica, ben diverso da quello esistente nei paesi di lontana origine delle famiglie, vissuto dalla maggioranza delle generazioni ormai residenti nei Paesi dell’Europa, a pieno titolo nuovi cittadini europei.
Dipende da noi, dagli indirizzi prevalenti nell’Unione, se questi orientamenti, ancora minoritari nel complesso dell’islam mondiale, diventeranno positivamente contagiosi, se si definirà e affermerà un nuovo islam europeo e saprà influenzare sul piano globale l’islam, accompagnandolo nell’impatto non rinviabile con la modernità democratica, culturale, dei diritti umani del XXI secolo.
Non un’ingerenza dall’esterno, di tipo normativo-autoritaria, condizionata dagli Stati o da rapporti di forza, ma un percorso legato al pluralismo interno e al dialogo interreligioso e con le diverse culture.
Il contributo che l’Unione Europea può dare si collega a politiche di integrazione, rispettose delle minoranze etniche e religiose; fondate su criteri di interculturalismo che non si caratterizzano per l’indifferenza nei confronti di convinzioni, credi, comportamenti, ma esigono, senza eccezioni, la coerenza con il quadro di valori rappresentato dalle Costituzioni democratiche, dallo stato di diritto, dall’adesione ai principi sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti della Persona; capaci di non discriminare, dal welfare, al lavoro, alla partecipazione alla vita politica, tra cittadini residenti da più lungo o da minor tempo nelle varie nazioni.
L’Unione, su questi temi, deve definire regole omogenee per le nazioni che la costituiscono.
L’altro aspetto di rilievo, che richiede un mutamento di indirizzi culturali, non solo politici, nei Paesi europei, prima di tutto in quelli dell’Unione, riguarda la considerazione delle religioni, l’apprezzamento del loro ruolo nella società.
Ne ho già parlato all’inizio. Non ci si riferisce, come è del tutto ovvio, alla libertà di religione.
Riguarda la comprensione del valore delle fedi religiose nel mondo contemporaneo: la loro attualità, il loro possibile contributo alla nostra vita ed alle sfide del nostro tempo, si sia, oppure no, credenti.
Si tratta di quella correzione ai processi di secolarizzazione e di laicità, che liberino queste conquiste, fondamentali per la democrazia del XXI secolo, da retaggi e condizionamenti del positivismo e della vulgata materialistica marxista o neo-liberista.
Sarà allora possibile per l’Unione Europea caratterizzare la sua presenza nel mondo non solo come quella di una Patria della democrazia, della libertà, dei diritti umani, ma anche come quella di una grande potenza civile, protagonista nell’affermare uno sviluppo sostenibile, la possibilità di una cooperazione giusta tra i popoli, della pace, della cultura della non violenza.
L’Unione Europea potrà essere quella parte del mondo nella quale si realizza un nuovo umanesimo, l’affermazione della priorità della persona e della sua dignità, fondata – come ho già sottolineato – sul riconoscimento del valore della sua complessiva dimensione, fisico-materiale e spirituale, delle sue aspirazioni alla trascendenza, la cui lettura e la cui risposta si può trovare in un percorso motivato dalla fede religiosa o anche attraverso una via integralmente umanistica.
Vedo in questo insieme di valori e di politiche una rinnovata identità dell’Unione, in grado di restituire forza al sogno europeo e di contribuire a dare all’umanità del nostro tempo speranza e fiducia nel futuro.