chiti_vannino_56881Voglio esprimere, in premessa, stima e vicinanza a Roberto Speranza. Detto questo, ritengo però che sulle riforme costituzionali e la legge elettorale tutti, certo in misura diversa, abbiamo commesso errori. Non solo la maggioranza che guida il Pd; non solo il governo, eccessivamente protagonista rispetto alla centralità che su questi temi spetta al Parlamento: va riconosciuto che anche la minoranza ha sbagliato e in modo non banale.

Prima di tutto, alla Camera: quando all’inizio ha sostenuto la separazione tra riforma costituzionale e legge elettorale; quando ha accolto con degli “osanna” una riforma costituzionale che superava il bicameralismo paritario con un pasticcio che annullava il Senato e colpiva la sovranità dei cittadini; quando non ha battuto ciglio di fronte al mantenimento del numero di 630 deputati ed ha votato a favore – ritirando addirittura tutti gli emendamenti – di una legge elettorale che prevedeva tre diverse soglie di sbarramento, sacrificava ogni equilibrio di genere, fissava al 37% l’asticella dei consensi per ottenere, senza ricorrere al ballottaggio, il 55% dei seggi.

Non ci si è resi conto che cambiava nei fatti la forma di governo, con un premier eletto dai cittadini, accompagnato da una robusta maggioranza parlamentare, senza i necessari equilibri istituzionali. Anche al Senato abbiamo commesso degli errori: non sulla proposta alternativa di riforma costituzionale, né sulla battaglia per migliorare la legge elettorale. Tre miglioramenti sono stati conquistati: unica soglia di sbarramento al 3%; equilibrio di genere; 40% di consensi per ottenere al primo turno il premio di governabilità. Né è stato un errore l’aver proposto, nell’eventuale ballottaggio, la possibilità di intese di coalizione.

No, l’errore è stato il rilievo dato al tema delle preferenze: per quanto significativo, per l’equilibrio da trovare rispetto ai capilista nominati, ha rappresentato la via sbagliata per risolvere una questione giusta. Avremmo dovuto dare centralità ai collegi uninominali o all’emendamento che prevedeva in essi la doppia candidatura di un uomo e una donna; oppure al rifiuto delle pluricandidature, puntando anche su un maggior numero di collegi, stabilendo una percentuale (20%?) di designati dai partiti, rafforzando così il collegamento tra cittadini ed eletti.

Negli incontri pubblici, in tante città, ho riscontrato convinzioni largamente diffuse: la volontà di eleggere i senatori, se il Senato continuerà ad esistere; il disastro, di cui sta crescendo la consapevolezza, di una riforma delle province che ha piegato la Costituzione alla prepotenza del metodo e alla confusione nel merito; l’incomprensione per la nostra battaglia sulle preferenze. È il caso di tenerne conto!

E ora? L’aspetto fondamentale è quello di ricollegare riforma della Costituzione e legge elettorale.

Sulla Costituzione, nei prossimi mesi, vi sarà un passaggio decisivo: come verrà affrontata la riforma al Senato? C’è intanto un problema di regolamenti: può applicarsi ad una grande questione costituzionale il limite di intervento circoscritto alle sole norme modificate dall’altra Camera, ordinariamente usato per la legislazione in seconda lettura? Oltretutto, sulle leggi costituzionali, una sola modifica determina che il provvedimento riparta dalla fase iniziale.

Come è chiaro si tratta di una grande questione politica, rispetto alla quale non ci si può nascondere dietro all’esigenza dei tempi: non fosse altro per il motivo che si assicura la conclusione della legislatura alla sua scadenza naturale nel 2018.

Avrà un peso non secondario il ruolo dei presidenti di Camera e Senato. Direi una bugia se affermassi che mi ha convinto il loro comportamento sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale.

Alla Camera si è consentito che circa 40 articoli della Costituzione venissero votati nell’assenza di tutte le opposizioni: chi presiede un’Assemblea deve cercare di impedirlo, tanto più nella consapevolezza che sarebbe diventato decisivo quel premio di maggioranza assegnato dal porcellum, una legge dichiarata dalla Corte in più punti non costituzionale. Al Senato si è proceduto a colpi di contingentamento, “canguri”, emendamenti per limitare l’ammissibilità di altri. In poche parole, in Parlamento si è ristretto lo spazio del confronto.

Si deve cambiare strada.

Resta decisivo il legame tra competenze, modello di elezione del Senato, funzioni affidate, nel nuovo Titolo V, a regioni e Stato centrale.

Vedremo se all’apertura politica fatta oggi da Renzi – certo positiva – seguiranno atti coerenti. Come è noto la mia preferenza è quella di far eleggere i senatori dai cittadini, in concomitanza con le elezioni dei Consigli regionali. L’alternativa sarebbe quella del modello francese, assunto in modo integrale, senza finzioni nominalistiche. Il resto sarebbero parole al vento.

È indispensabile correggere le modalità di elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, dei membri del Csm, togliendo quel marchio “proprietario” a favore della maggioranza che ha vinto le elezioni alla Camera dei deputati: oggi un tale esito è concreto.

Alla luce di queste scelte sarà necessario mettere mano ad una specifica legge elettorale per il Senato. Del resto anche quella per la Camera entrerà in vigore nel luglio del 2016.

Insigni costituzionalisti vi hanno visto un ulteriore segno di contraddizione. In realtà la contraddizione è a monte e cioè nel fatto che non vi sia tra riforma costituzionale e leggi elettorali un “prima” e un “dopo”, come sarebbe necessario. Non si tratta di un astratto discorso sul metodo: in politica – e ancor più in tema di istituzioni – il metodo è sostanza.

A chi mi chiede se vi sarà una svolta, se cioè verrà approvata dal Parlamento una buona riforma della Costituzione e una buona legge elettorale, rispondo sinceramente che non lo so. C’è una speranza e certamente continuerà un impegno, senza risparmio.

L’esigenza – ed anche la condizione per poter correggere le contraddizioni più rilevanti – è quella di una maggior partecipazione dei cittadini e delle loro organizzazioni: dai sindacati al Terzo settore, dal mondo della cultura alle giovani generazioni.

Sì, perché le istituzioni, le regole elettorali, la Costituzione non appartengono agli addetti ai lavori, ai governi o ai parlamentari del momento: sono del popolo italiano.