Governance economica e riforma delle istituzioni
Oggi l’Unione Europea è una Casa dei popoli, costruita su valori fondamentali quali la libertà, il pluralismo, la democrazia, l’economia sociale di mercato. La nascita dell’Europa unita ha cancellato secoli di guerre intestine, rendendo non più immaginabili scontri militari tra le nazioni che ne fanno parte. Con il processo di allargamento, l’Unione europea ha realizzato la via per il consolidamento delle democrazie ad Est e la costruzione della pace nei Balcani.
Ma nell’epoca della globalizzazione la perdita di sovranità degli Stati nazionali determina una crisi democratica: è ciò che stiamo vivendo.
Gli Stati Uniti d’Europa – un’unione politica di tipo federale – sono una risposta a questa crisi.
In Europa ad un allargamento senza riforma delle istituzioni ha corrisposto un automatismo di regole, di sanzioni, nell’assenza della politica. Da un lato, si è avuta una tecnocrazia lontana dai popoli, dall’altro il crescere di un sentimento di sfiducia nei confronti dell’Unione. Sotto i colpi di una crisi economica – la cui durata temporale ha ormai superato quella della 2ª guerra mondiale – e di una risposta europea sbagliata, fondata su di un’austerità fine a se stessa, senza sviluppo, voluta dalla destra che ha ancora un peso politico egemone, si sono impoveriti larghi strati di popolo, senza neanche riuscire a risanare i bilanci.
Si sono accresciute le disuguaglianze e sono aumentati i divari tra gli stessi territori dell’Unione Europea.
Basta, per fare un esempio, decisivo per l’Italia, riflettere sul Rapporto Svimez dedicato al Mezzogiorno. Non soltanto si è in presenza di una “desertificazione industriale e demografica” che assume caratteri strutturali e rischia di far precipitare l’Italia a ruoli marginali, rispetto alla legittima ambizione di essere tra i protagonisti nella vita dell’Unione. Vi sono riferimenti che chiamano in causa l’intera Europa: “la lunghezza e la profondità della crisi ha portato ad un aumento dei divari regionali in Europa. L’esperienza passata mostrava che i divari regionali tendevano ad ampliarsi nelle fasi di ripresa, mentre diminuivano, con una convergenza al ribasso, nei momenti di flessione ciclica. Questa regolarità, segnalata spesso anche dalla SVIMEZ, è però ribaltata in questa fase di flessione ciclica. Infatti, le aree deboli dell’Europa a 15, che nella fase pre-crisi, tra il 2001 e il 2007, avevano mostrato segni di convergenza, in particolare per merito di paesi come Irlanda e Grecia, con una crescita cumulata del PIL del 37% circa, contro poco più del 31% delle regioni Competitività, durante gli anni della crisi, tra il 2008 e il 2011, hanno, invece, subito con maggiore intensità gli effetti della recessione: il prodotto è diminuito del 2,6%, rispetto al pur modesto incremento (+1%) registrato nelle aree più sviluppate”.
C’è un’ulteriore considerazione che va sottolineata con particolare rilievo: “Il confronto tra l’Area dell’Euro (18 paesi) e quella dell’Unione (27 paesi) segnala come negli anni di crisi (2008-2011) il tasso medio cumulato di crescita sia stato complessivamente inferiore in quest’ultima (1,9% rispetto al 2,1%). L’aspetto più interessante riguarda però le differenze tra aree deboli e aree forti: se nel complesso dell’Unione anche nel periodo di crisi è continuata la convergenza delle aree deboli, cresciute cumulativamente quasi quattro volte di più di quelle forti, il contrario è avvenuto nell’Area dell’Euro. In questo gruppo, le aree della Competitività sono cresciute nel complesso del 2,9%, mentre quelle della Convergenza hanno mostrato una flessione (-1,8), con un allargamento dei divari”.
Il deficit politico e di strumenti di governo democratico di tipo comunitario, rischia di vanificare la stessa moneta unica: l’euro da fondamento d’integrazione sta producendo – questo il rischio –  un’accentuazione degli squilibri.
È necessaria più, non meno Europa, ma un’altra Europa, in grado di svolgere un’azione da governo federale negli affari esteri e di sicurezza comune, nelle grandi scelte economiche, sulle sfide del clima, sull’immigrazione.
Se non si compie un passo verso una democrazia federale, il rischio è il regresso verso un insieme di Stati-nazione, impotenti nel mondo, in competizione tra loro, uniti solo da un mercato comune dell’economia e della finanza.
Il metodo intergovernativo, cioè la rinazionalizzazione di competenze europee; le decisioni importanti prese nelle riunioni dei capi di governo; la Commissione  pletorica e ridotta ad una sorta di comitato tecnico-operativo, mortificano ruolo e potenzialità dell’Unione. È stato così nella politica estera: dalla Libia alla Siria, dalla Tunisia all’Egitto, anche di fronte all’emergenza provocata dagli estremisti islamici dell’Isis, l’Unione è stata assente o impotente, dal momento che nel XXI secolo ventotto iniziative – quanti sono gli Stati membri – non fanno una politica.
È così per la sicurezza: non solo non si sono compiuti passi verso Forze Armate europee, ma è assente un quadro di riferimento comune, un efficace indirizzo di coordinamento. Se si sommano le risorse investite per la difesa dagli Stati dell’Unione , la cifra risulta superiore a quelle stanziate rispettivamente da Russia, Cina o Giappone: ma ogni Paese, dietro la necessità di ridurre gli investimenti per far fronte alla crisi, opera tagli alle spese militari. I tagli intervengono negli stessi settori, così al tempo stesso si registrano incredibili carenze – oggi, dopo le decisioni del Regno Unito, l’Unione dispone di due portaerei, una italiana, l’altra francese – e inutili sovrapposizioni.

Si sono registrati passi avanti, a seguito della crisi finanziaria, economica e dei bilanci pubblici, nell’attribuzione in questi campi alle istituzioni europee di un ruolo di raccordo e supervisione: gli Stati membri dell’Unione hanno dovuto prendere atto di una interdipendenza delle loro economie. È stato così organizzato il Semestre europeo, con il quale si opera una sorveglianza degli Stati nelle politiche fiscali, finanziarie, del mercato del lavoro.
Six Pack, Two Pack e Fiscal Compact sono i nuovi pilastri della cooperazione fiscale. Non sono unanimemente condivisi nel loro contenuto, ma costituiscono una forma irreversibile di condivisione e orientamento delle politiche pubbliche.
Dopo la moneta unica, avanza dunque una più forte assunzione di responsabilità decisionale a livello europeo nei settori economico-fiscali: ancor più risulta insostenibile l’assenza di progressi nella politica e nelle istituzioni, con il permanere di un deficit democratico nella governance dell’Unione. Nuove competenze devono corrispondere a scelte operate da maggioranze politiche, fondate sul voto dei cittadini alle elezioni.
Del resto gli stessi passi avanti nel coordinamento dell’economia e del fisco restano insufficienti. Basta un semplice paragone con gli Stati Uniti: la Commissione europea dispone di un bilancio che non supera l’1% del Prodotto Interno Lordo dell’Unione; quello del Governo federale americano ne impegna il 24%. E la Banca Centrale europea è ancora ben lontana dalle competenze della Federal Reserve.
Entro i prossimi dieci anni si devono realizzare gli Stati Uniti d’Europa: al di fuori di questa prospettiva vi è il declino, dal momento che nessuno Stato europeo da solo – neppure la Germania – è in grado di fronteggiare i protagonisti, vecchi e nuovi, presenti sulla scena mondiale, dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Cina all’India.
Un’Europa federale è fondamentale anche per le singole nazioni: nel nostro tempo se la democrazia rimane all’interno degli Stati nazionali, si impoverisce fino a separarsi dai processi reali dell’economia, dalle sfide per uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile, dal rinnovamento del welfare.
Il Parlamento europeo eletto nel 2014 segna una discontinuità non minore di quella che nel giugno del 1979 portò i cittadini degli Stati membri dell’Unione ad eleggere i loro deputati, dopo che fino ad allora erano stati nominati con una designazione di secondo grado: come stabilisce il Trattato di Lisbona, per la prima volta il Parlamento ha eletto il Presidente della Commissione. Per la prima volta i partiti in Europa si sono presentati alle elezioni con un programma comune e con un candidato alla Presidenza della Commissione. Il voto dei cittadini ha avuto un peso: la politica, attraverso il formarsi delle alleanze, assume un’influenza decisiva nelle istituzioni europee, come esige la democrazia.
È un passo nella costruzione dell’Europa federale, o almeno confederale.
In futuro il Parlamento dovrà essere eletto con un’unica legge su base europea ed assumere quei poteri di indirizzo e soprattutto controllo che erano propri dei Parlamenti nei vari Stati, all’apice delle esperienze democratiche nazionali.
L’attuale Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo, dovrebbe trasformarsi nel Senato dell’Unione, con competenze decisive su bilancio e ingresso di nuovi Paesi.
La commissione europea deve diventare il governo federale.
Siamo a un bivio: dietro di noi, l’Unione Europea sorta dalle distruzioni delle guerre e da inimicizie secolari, portatrice di pace, benessere, rispetto dei diritti umani; negli occhi, un’Europa incompiuta, politicamente troppo frammentata, non pienamente capace di realizzare con le sue scelte solidarietà, giustizia, uno sviluppo fondato sull’occupazione; davanti a noi l’Unione che ci potrebbe essere, con un governo federale, un Presidente in prospettiva eletto dai cittadini, in grado di decidere sulla politica estera e di sicurezza.

La sussidiarietà e le Regioni
L’Unione Europea deve rinnovare la sua organizzazione fondandola sul principio della “sussidiarietà”.
La sussidiarietà è un’impostazione politico-culturale fondamentale per realizzare una democrazia sovranazionale europea: non si può infatti seguire la strada di un supercentralismo statuale o di una omogeneità culturale. La sussidiarietà è anche, ma non può essere soltanto, procedura: si configura come un rapporto tra società civile/Comuni/Regioni/Stato Nazionale/Parlamento e Istituzioni europee. È da affermare nella cultura quotidiana, nei nostri comportamenti, nel senso comune,  progressivamente nel rapporto tra cittadini e istituzioni.
Non solo nessuna istituzione sovraordinata deve svolgere funzioni che le istituzioni più vicine ai cittadini siano in grado di affrontare: le istituzioni devono favorire, non solo consentire, che i cittadini e le loro organizzazioni possano portare avanti direttamente azioni, compiti, servizi, purché si mantenga quella destinazione universale che la democrazia moderna conferisce loro.
La consapevolezza, sempre più diffusa, di far parte di un ordinamento giuridico composito è oramai patrimonio acquisito.
La partecipazione dei Parlamenti nazionali e delle assemblee regionali contribuisce non poco a migliorare da un lato la democraticità del procedimento legislativo europeo,  dall’altro la consapevolezza dei parlamentari nazionali sulla dimensione necessariamente sovranazionale in cui sono inserite le deliberazioni che assumono sul piano interno.
L’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea fornisce una definizione del principio di sussidiarietà che tiene conto delle autonomie locali e regionali. Perché l’Unione intervenga nelle materie che non sono oggetto di sua competenza esclusiva, è necessario valutare che gli obiettivi dell’azione prevista non siano sufficientemente realizzati né a livello statale né a livello regionale o locale. L’articolo 6 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità afferma che «spetta a ciascun Parlamento nazionale o a ciascuna Camera consultare all’occorrenza i Parlamenti regionali con poteri legislativi». Ad oggi, peraltro, il coinvolgimento di questi ultimi da parte delle Assemblee nazionali, che procedono ormai sistematicamente all’esame degli atti dell’Unione europea, non è stato ancora attivato su basi sistematiche, anche se un approccio volontaristico sta portando ad una crescita sensibile dell’interesse e delle pronunce. Non siamo ancora a un livello sufficiente di cooperazione. Le Assemblee regionali hanno incrementato notevolmente il numero di deliberazioni che trasmettono alle Camere relative al processo decisionale europeo. Soprattutto dall’entrare in vigore del Trattato di Lisbona, sono state numerose le deliberazioni delle Assemblee e anche delle Giunte trasmesse al Parlamento. Nella XVI legislatura sono state in tutto 141 e la metà di esse sono riferibili a materie “europee”.
È del tutto evidente il cambio di prospettiva e l’esigenza di un pieno inserimento delle Assemblee regionali nel processo di formazione della posizione delle Camere in sede europea.
Di recente la Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato e la Conferenza  dei Presidenti dei Consigli Regionali hanno sottoscritto un accordo di collaborazione, nel quale ripongo fiducia e aspettative concrete per un salto di qualità nell’iniziativa da far convergere, per contribuire a far vivere un “Sistema Italia” all’interno dell’Unione.

Austerità e sviluppo
Come dicevo, il contenuto delle politiche economiche e fiscali comuni all’interno dell’Unione europea non gode di consenso unanime e, anzi, cresce il dissenso di fronte a una politica di austerità fine a sé stessa che ha aggravato la crisi, ritardato la ripresa, aumentato il tasso di disoccupazione, impoverito milioni di persone, senza riuscire a sanare i bilanci degli Stati. Il rigore di bilancio non può essere il fine unico e ultimo delle politiche pubbliche: compito dei governi e dell’Unione nel loro insieme è quello di consolidare progressivamente la finanza pubblica destinando però – in modo consistente e costante – risorse agli investimenti. Dalla crisi si esce assicurando il diritto al lavoro ai cittadini europei, puntando su innovazione e sviluppo.
La riforma delle istituzioni europee, nell’ottica della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, deve essere strettamente connessa ad un cambiamento delle politiche per lo sviluppo, la giustizia sociale e l’uguaglianza.
In questo quadro una proposta importante può essere quella di una capacità fiscale dell’eurozona, avanzata, nell’autunno del 2012, dall’allora Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e ripresa dalla Commissione: rappresenta un asse fondamentale per realizzare un’unione economica e monetaria più forte e giusta, sollecitando un processo di innovazioni collegato però a meccanismi di solidarietà.
Si tratta di una capacità autonoma di imposizione e di spesa, attraverso la quale creare una sorta di bilancio dell’eurozona, aggiuntivo al bilancio dell’Unione e prevalentemente focalizzato sui Paesi che hanno adottato la moneta unica: accrescerebbe la loro integrazione e coesione.
Occorre al tempo stesso affrontare il tema della povertà: è giusto imporre – come aveva sostenuto anni fa Carlo Azeglio Ciampi – obiettivi anche quantitativi di riduzione delle disuguaglianze sociali, allo stesso modo nel quale, in Europa,  per il Patto di stabilità, si è posta la questione del rapporto deficit – Pil.
Il criterio per misurare il benessere non è rappresentato solo dall’aumento delle produzioni industriali, agricole, dei servizi: deve comprendere il dato dell’occupazione e della sicurezza sul lavoro, della qualità dell’ambiente, della diffusione del reddito, della disponibilità di istruzione e cultura.
Non è più accettabile che l’Italia – solo con la Grecia – non abbia politiche d’insieme, specifiche, nei confronti della povertà, mentre nel nostro Paese essa ha conosciuto negli ultimi anni un incremento impressionante.

I movimenti populisti e estremisti
La riforma delle istituzioni è tanto più necessaria se si dà il giusto peso, e non li si sottovaluta come colpevolmente è stato fatto, i movimenti populisti, estremisti e in alcuni casi xenofobi che stanno mettendo a rischio la coesione sociale in Europa.
Il radicalismo reazionario, talvolta espressamente di tipo fascista e nazista, ostacola il cammino dell’Unione, ne impedisce un ruolo autorevole nel mondo, divide i cittadini europei, scava un abisso tra loro e gli immigrati.
La presenza di componenti reazionarie in pochi anni si è diffusa a dismisura, al cospetto di una crisi profonda che ci ha colpito e di risposte dell’Unione in una prima fase improntate a un’austerità senza sviluppo.
Oggi nei Paesi dell’Unione Europea ci sono oltre venti milioni di disoccupati. Quando movimenti reazionari  si presentano con il loro vecchio armamentario vengono isolati dalla grande maggioranza dei cittadini. Non è così quando, anche con il ricorso alla violenza, attaccano nemici come l’Europa, le Banche, l’insieme delle classi dirigenti, soprattutto lo straniero.
Nel mirino sono gli immigrati, in particolare arabi e islamici, rom, ebrei. Nell’incertezza del presente e per il futuro, a milioni di persone in difficoltà viene indicato nell’immigrato il nemico che toglie lavoro, nel vecchio Stato nazione il porto dei desideri.
È in atto una sfida alla democrazia, non compresa pienamente dalla politica e dalla cultura.
I Paesi europei sono attraversati da una catena di violenze, legata da un unico filo conduttore: l’odio per lo straniero e per le forze politiche ritenute passive o favorevoli nei confronti della cosiddetta invasione.
I movimenti populisti cavalcano il malessere sociale e la sfiducia verso le istituzioni e le regole europee per fomentare una protesta senza costrutto. Non propongono soluzioni alternative ma solo lo sfascio dell’attuale, precario, equilibrio.
Occorre unire allora quanti vogliono operare per far camminare il processo di costruzione di una democrazia sovranazionale europea: le democrazie nazionali assisteranno impotenti al loro progressivo impoverimento, se non si porranno questo obiettivo, se non riusciranno a contribuuire alla sua realizzazione in un quadro temporale definito.