FIESOLE – Sala Toniolo
13 ottobre 2014

 

1) La riforma costituzionale in discussione è stata approvata in prima lettura al Senato con 183 voti a favore e 136 che non l’hanno votata (tra cui il mio).
Perché questo esito? Era inevitabile?
Lasciamo da parte, in questa occasione, questioni legate a procedure (pur rilevanti: la votazione a maggioranza in Commissione Affari Costituzionali di un o.d.g. che indicava modifiche al testo governativo, e poi del testo governativo, immutato; esclusione dalla Commissione prima dell’inizio delle votazioni sugli emendamenti di alcuni senatori; modalità in Aula che hanno visto da un lato ostruzionismo di emendamenti – 6.000 -, dall’altro «contingentamento dei tempi e adozione del cosiddetto metodo del canguro, inapplicabile alle riforme costituzionali e inesistente nel regolamento del Senato – che pure hanno avuto un grande peso.
Il metodo è sostanza, in democrazia.
Su aspetti di fondo vi era la possibilità di una convergenza pressoché unanime:

a)    superamento del bicameralismo paritario.  Il Senato non darà più la fiducia al Governo; la Camera avrà l’ultima parola sulla gran parte delle leggi.

2)    Temi di divergenza: cosa deve essere il futuro Senato; modelli elettorali per Camera e Senato; forma del governo!
Non si tratta di procedere in modo simultaneo, dal punto di vista decisionale, su tutti questi temi: di avere un disegno d’insieme, SI. Ho proposto più volte una mozione di indirizzo, approvata dalle forze politiche (Gruppi Parlamentari), disponibili.
Non considero negativo un Patto con Forza Italia sulle riforme istituzionali: considero negativo un Patto al excludendum nei confronti delle altre forze politiche.
Procediamo con ordine, sui vari punti.
Cosa deve essere il nuovo Senato.
Ho l’impressione che si stia mancando un appuntamento: di nuovo.
Dopo l’approvazione del nuovo Titolo V, non si realizzò il Senato delle Autonomie, il Bundesrät italiano.
Oggi si ristringono significativamente, con la riforma del Titolo V, le competenze delle Regioni, ben oltre la razionalizzazione attesa [ritorno alla esclusiva competenza dello Stato centrale delle grandi infrastrutture e delle reti che trasportano energia]; la legge elettorale per la Camera non sarà un proporzionale con sbarramento al 5% come fu concordato nelle intese del 2008, dieci giorni prima dell’interruzione della legislatura, ma una legge maggioritaria «abbastanza accentuata»; si afferma che il Senato di seconda nomina [Consigli Regionali che eleggono 74 consiglieri e 21 sindaci, come incarico residuale, tanto che non è prevista una forma di indennità] sarà la Camera delle Autonomie.
Non ritengo che la elezione di secondo grado sia un colpo autoritario, una deriva etc: la mia valutazione è che oggi non corrisponda a ciò che si muove nella società, non consenta di equilibrare i rapporti tra le istituzioni, né di ricostruire la fiducia tra cittadini-politica-istituzioni.
Per la mia personale storia politica e per la coerenza con mie convinzioni del passato, avrei votato il Bundesrät italiano se accompagnato da una legge elettorale che seguisse – pur a Costituzione vigente – il modello tedesco, perché “tutto si tiene”. Questa strada si è rivelata assolutamente non percorribile, con motivazioni non tutte prive di fondamento. Mi riferisco al fatto che l’Italia non si è mossa lungo la strada di un federalismo cooperativo: la Repubblica è e resterà fondata su Regioni e Autonomie locali.
Quello che avremo sarà un Senato di seconda nomina, determinato nella sua composizione da accordi tra partiti e gruppi a livello regionale, di cui si sono avuti segnali non sottovalutabili in molte realtà del paese nella recente votazione per le Provincie: del Bundesrät, viceversa,  fanno parte i delegati dei governi regionali, e con voto  unitario.
Qualche breve richiamo alla vicenda delle provincie: scelta della elezione di 2° grado, da parte dei consiglieri comunali, mantenendo però l’ elezione diretta dei Presidenti; scelta politica frequente dei listoni, con destra, sinistra, centro tutti insieme! E i cittadini? E’ una specie di giorno non bello, annunciato dal mattino. E’ un preludio a ciò che avverrà domani con il Senato. Nel Senato avremo ancora gruppi politici, non sostenuti in modo pieno e trasparente dal consenso, espresso con il voto, da parte dei cittadini, ma frutto di mediazioni e accordi tra maggioranze e opposizioni regionali, ed al loro interno.
Le indicazioni per il nuovo Senato sono infatti: riferimento, nella elezione di 2° grado, al consenso ottenuto dalle forze politiche nel voto delle regionali ed alla composizione dei consigli.
Cioè: voti e premio di maggioranza. Il divario è spesso di 20 punti percentuali!
Da qui la trattativa che sarà senza robusti binari, ma partitica (con i partiti che oggi abbiamo!).
Al tempo stesso abbiamo leggi elettorali come quella Toscana – altrove comunque ci sono i listini collegati al Presidente – che prevede la priorità di candidati indicati da partiti rispetto a quelli risultati eletti con le preferenze. Da ciò consegue che si potranno portare in Senato consiglieri in alcun modo verificati nel consenso dei cittadini. Si eleggeranno in modo parzialmente bloccato dei consiglieri regionali e questi ultimi nomineranno alcuni di loro – insieme ad 1 sindaco – nel Senato.
I Sindaci saranno in Senato in quanto espressioni di una maggioranza o delle opposizioni: questo lo schema guida. Verrà dunque meno la possibilità di ritrovarsi in un candidato Sindaco, al di fuori del proprio schieramento politico. I sindaci perderanno per strada quel ruolo ben sottolineato nella espressione “primo cittadino”, che designa anche una funzione di rappresentanza generale – e non di parte – di una Comunità.
In Senato si voterà per appartenenza politica ai vari gruppi di maggioranza o di opposizione. E – ripeto – sarà un secondo (o terzo) impegno: oggettivamente residuale.
In questo quadro difficile parlare di maggiori (e per me necessarie) competenze paritarie con la Camera dei deputati: già forse oltre misura – restando in questi orizzonti – quelle previste su Revisione della Costituzione, leggi elettorali e referendum, rapporti con l’U.E. (ad esempio sulla valutazione di sussidiarietà e proporzionalità nelle direttive europee).

3)     Non considero autoritaria in sé – come ho premesso – un’elezione di 2° grado: la ritengo non più adeguata alle sfide che sono portate alla democrazia nel XXI secolo. In ogni caso dovrebbe essere accompagnata da coerenza nel Procedimento legislativo tra le 2 Camere e dalla natura della legge elettorale per la Camera dei Deputati.
Così oggi non è!
Al tempo stesso non ha fondamento l’obiezione che se i sentori fossero eletti direttamente dai cittadini, non si supererebbe il Bicameralismo paritario. Non è vero: lo dimostra tra le altre l’esperienza della Spagna.
La nostra proposta va oltre: i senatori eletti dai cittadini in concomitanza con le elezioni dei Consigli Regionali, con una legge elettorale proporzionale (il Senato non darà più la fiducia ai governi), con le preferenze, con differenti  norme sulla candidabilità e incompatibilità. Poteva rappresentare una mediazione accettabile quella di un listino – visibile e valutabile – sottoposto al voto dei cittadini in collegamento con le liste regionali.
Così da ultimo non si è voluto fare.
La proposta che con altri senatori, di vari gruppi politici, ho avanzato consentirebbe un rafforzamento dei legami con le realtà territoriali ed una legittimazione non diminuita, perché fondata sulla sovranità dei cittadini.
In questo quadro il Senato potrebbe avere competenze paritarie con la Camera su ambiti legislativi che per me è un errore affidare alla sola maggioranza che vince le elezioni: di questo parlerò tra un attimo.
Il Senato sarebbe espressione più forte dei territori e insieme di Garanzia: ruolo necessario in presenza di leggi elettorali per la Camera nettamente maggioritarie, prendendo anche atto – lo ribadisco di nuovo, perché è un punto decisivo – che il nostro sistema resterà autonomistico e regionale, ma non è più indirizzato – neppure come processo graduale – verso un federalismo come quello esistente in Germania.
Prima di soffermarmi sul tema delle competenze paritarie, del procedimento legislativo e sulla legge elettorale per la Camera dei Deputati, vorrei fare alcune considerazioni sulle sfide – sottovalutate – portate oggi alla democrazia che noi conosciamo e nelle quale abbiamo avuto la fortuna di vivere.
Nel XX secolo la democrazia ha vinto contro i totalitarismi di destra e di sinistra.
Oggi è sottoposta ad attacchi di vario genere e di differente riconoscibilità: mi limito schematicamente ai Titoli.
I terrorismi, come è ovvio; i fondamentalismi ed una cultura dell’intolleranza che mina le possibilità di confronto e dialogo; le teorie sulla base delle quali si accredita l’idea che per far funzionare le istituzioni e decidere in tempi rapidissimi (sempre e comunque) occorra spostare gli equilibri sulle maggioranze di governo (rischi di una democrazia autoritaria già indicati da Alexis de Tocqueville); la globalizzazione che esigerebbe – e qui vi sono enormi ritardi – l’affermarsi della democrazia per riuscire a orientare il futuro oltre i confini nazionali, investendo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ce lo ha ricordato di recente Papa Francesco) e per quanto riguarda noi, in questa parte del mondo, la costruzione di una vera democrazia sovranazionale europea.
Su quest’ultimo punto, se non si avanza, sconfiggendo una sfiducia accentuata da una crisi che ci colpisce ormai da un numero di anni che superano la durata della 2ª guerra mondiale, anche per risposte improntate ad un’austerità fine a se stessa, che ha impoverito i popoli, non sanato i bilanci, aumentato le disuguaglianze, si dissolverà l’Unione, riducendosi ad area di libero scambio economico-finanziario; prevarranno gli egoismi e le concorrenzialità degli Stati nazionali, con rischi – per me, ben oltre questa parola – di impoverimento della democrazia e la prospettiva certa di una scomparsa dell’Europa dai protagonisti della storia di questo secolo.
Come si rilancia il disegno di una Democrazia sovranazionale europea?
Prima di tutto viene un ruolo dei popoli, dei cittadini: è necessaria un’unica legge di voto per il Parlamento europeo.
La Commissione deve diventare un vero governo federale-confederale sui temi di sua competenza: politica estera e di sicurezza; scelte macroeconomiche e temi prioritari non riducibili a scala nazionale (ambiente, clima); solidarietà e sussidiarietà; da rendere inseparabili. La situazione attuale presenta aspetti di assurdità: si pensi alla politica di sicurezza. I 28 Stati dell’Unione spendono complessivamente per la difesa più di Russia o Cina o Giappone: ma senza un coordinamento efficace – non dico senza forze armate europee, ancora non visibili all’orizzonte – si taglia negli stessi settori, per far fronte alla necessità di risparmi, e si accumulano doppioni.
Politicamente ci è richiesta coerenza: non si può volere l’Europa dei cittadini e pretendere deleghe o comunque ridurre la loro partecipazione nella vita interna degli Stati.
Le nostre riforme vanno ancorate a queste esigenze, ad una prospettiva di questo spessore: c’è bisogno non di deleghe più o meno in bianco, ma di partecipazione diretta dei cittadini.
Ciò è reso necessario – è l’ultima considerazione di questa mia parentesi, forse troppo generale – anche da come è entrata nella nostra vita, nella quotidianità quella che chiamiamo rivoluzione informatica (internet, varie reti etc.): sono occasioni e stimoli a intervenire, discutere, confrontarsi su decisioni assunte o da prendere.
Talune forze politiche vorrebbero sostituire queste forme di partecipazione diretta alla democrazia rappresentativa: sarebbe un grave errore, una impostazione che va affrontata e battuta.
Ma sarebbe un errore nostro se non riuscissimo a rendere capace la democrazia rappresentativa di misurarsi con le forme tradizionali e nuove di partecipazione: renderle, saperle rendere complementari, non contrapposte.
Saper operare per ampliare non restringere gli spazi – un tempo si diceva le basi – della democrazia: questo è stato il tratto di continuità delle forze progressiste nella storia d’Italia, quale che sia stato il loro nome. Guai a smarrirlo.
Resta valido l’impegno per far sentire le stesse istituzioni come di tutti i cittadini, non di quanti di volta in volta vi sono eletti.
In caso contrario ogni opposizione, esclusa dalla istituzioni, vecchia o nuova, scivolerà su un piano anti-istituzionale.
Si moltiplicherebbero i motivi di conflitto: non ne abbiamo davvero bisogno.
Già deve preoccuparci la partecipazione dei cittadini al voto nelle elezioni politiche, europee ed amministrative: sta progressivamente riducendosi, tanto che ormai il primo partito è quello del non voto e delle schede bianche e nulle.

4) Torno direttamente alla riflessione sugli aggiornamenti che è necessario introdurre nella nostra Costituzione, affrontando il discorso sulle competenze paritarie che il nuovo Senato dovrebbe continuare ad avere con la Camera, naturalmente rese coerenti dalle modalità della sua elezione e legittimazione da parte dei cittadini:

a)    Libertà religiosa.
E’ pensabile affidare questa materia (domani, Concordato SI oppure NO; quale e se Intesa ad esempio con i musulmani etc?) alla sola maggioranza che ha vinto le elezioni per la Camera dei Deputati? Lo sottolineo ora, per non ripeterlo in ogni punto che tratterò: una maggioranza legittima in seggi, attraverso meccanismi maggioritari, ma che non sarà maggioranza come reale consenso espresso dai cittadini italiani.
b)    Leggi eticamente sensibili, dalla fecondazione assistita, al fine vita, a temi che domani saranno sollecitati alla politica.
c)    Diritti delle minoranze (vie di integrazione, modalità in società plurietniche); grandi principi ordinatori di diritti civile e politici (ad iniziare dal voto agli immigrati e dalla cittadinanza ai bambini che sono nati in Italia e frequentano le nostre scuole).

Vi sono poi aspetti di fondamentale rilievo riguardo alla legislazione su materie nelle quali la Camera avrà l’ultima parola: così come è oggi impostata la riforma, il Senato si limiterà di fatto ad esprimere pareri, dal momento che la Camera può non tenerne conto con la semplice maggioranza dei voti, al massimo in qualche ambito (provvedimenti di interesse regionale) con la maggioranza assoluta: ma la coalizione o il partito che vince le elezioni avrà alla Camera il 53% – 54% dei seggi!
Questo stesso ragionamento vale anche per la clausola di supremazia, la priorità cioè dell’interesse nazionale da affermare talora anche di fronte a competenze proprie delle Regioni.
E’ vistosa e preoccupante anche la disparità che non si avvia al superamento, ma viene ad accentuarsi tra le 15 Regioni a statuto ordinario e le 5 (Val d’Aosta, Trentino, Friuli-Venezia-Giulia, Sicilia e Sardegna) “speciali”.
La riforma del Titolo V non le tocca. Le modifiche verranno introdotte non solo con legge costituzionale, ma solo se vi sarà l’intesa.
Accentuare il divario non produrrà solo confusione istituzionale (basti pensare, per fare un solo esempio, alle Provincie), ma anche conflitti sociali, indebolendo tra i cittadini il senso di una comunità nazionale, proiettata in Europa.
Un’ultima rilevante e preoccupante contraddizione generale, che ferisce a mio giudizio, il complessivo sistema delle garanzie, assicurato dalla nostra Costituzione, riguarda la elezione del Presidente della Repubblica alla luce della riduzione a 100 del numero dei Senatori e della conservazione – per me assurda – a 630 di quello dei Deputati. Dopo 8 inutili votazioni, tutte a maggioranza qualificata, con la 9ª votazione la maggioranza che ha vinto le elezioni alla Camera potrà eleggersi il Presidente della Repubblica: per questa via potrà controllare Corte Costituzionale (di cui il Presidente nomina 5 giudici su 15) e il C.S.M.
E’ lo spostamento – al quale facevo prima riferimento – degli equilibri, non legati solo alla governabilità, ma a più complessivi aspetti di garanzie costituzionali, a favore delle maggioranze che siano risultate vittoriose nelle elezioni per la Camera.
Può anche aprirsi così la strada ad un Presidenzialismo non equilibrato dai poteri del Parlamento, come negli Stati Uniti, ma ricalcato sul pessimo modello regionale [dove è venuto meno il patto fondativo dell’ autonomia delle Assemblee elettive, con il simul stabunt, simul cadent, cioè le dimissioni del Presidente provocano lo scioglimento dei consigli.].

5) Qualche parola, prima di concludere, sui cambiamenti necessari alla legge elettorale – l’italicum – approvata dalla Camera e su rischi di mediazioni pasticciate, che sembrano venire avanti.
Non sono concretamente possibili soluzioni che escano da un maggioritario piuttosto forte: questa è la realtà di fronte a noi, di cui prendere atto.
I cambiamenti che si rendono necessari, pur all’interno del quadro al quale ho fatto riferimento, sono:
a)    unica soglia di sbarramento al 4 o 5%.
Non più soglie, come ora, a seconda se una forza politica sia nella coalizione o per suo conto: 4,5% in coalizione; 12% la coalizione; 8% senza coalizione.
Un’invenzione firmata Verdini che spinge a formare coalizioni elettorali, che dopo il voto si sciolgono come neve al sole. (Anche a destra nel 2011, non solo nel centro-sinistra).
b)    Collegi uninominali o preferenze (2, una di genere) se ci sono più candidati. I capilista devono, come gli altri, essere sottoposti a voto di preferenza. Le circoscrizioni sono, ad ora, 118: tutti i capilista sarebbero nominati; i partiti minori e la coalizione che perde le elezioni avrebbero soltanto deputati nominati.
L’esito determinerebbe da 380 a 430 (più vicini a quest’ultimo) deputati nominati su 630 complessivi. Risulterebbero differenziati tra loro i candidati e poi gli eletti; sarebbe negato il diritto dei cittadini di scegliere con il voto tra tutti i candidati.
Ho già detto della legge elettorale, per il Senato, di 2° grado. Dunque in Italia la sovranità del popolo sarebbe ridotta al lumicino.
c)    Divieto di presentarsi candidati in un terzo delle circoscrizioni: meglio solo in una, al massimo in tre. In caso contrario salta – quale che sia il modello scelto, collegi o preferenze – ogni reale e serio rapporto tra cittadini, candidati e poi eletti.
d)    La soglia di sbarramento per ottenere il 53/54% dei seggi deve essere spostata al 40%: altrimenti turno di ballottaggio per conquistare il premio di maggioranza tra i primi due partiti o schieramenti.

In conclusione: a me pare che manchi nella riforma costituzionale e delle nostre istituzioni, il filo conduttore di un disegno unitario, che abbia in mente il superamento del bicameralismo paritario, la forma di governo con l’obiettivo però di rafforzare quello parlamentare, le leggi elettorali.
Resto convinto che una buona riforma sia necessaria e che essa possa e debba tenere insieme rappresentanza e governabilità, rispondendo così alla necessità di rafforzare la democrazia, rinnovarla nel quadro europeo di costruzione di una democrazia sovranazionale, impegno per superare l’abisso di sfiducia che oggi si avverte tra i cittadini nei confronti delle istituzioni.
Mi pare sbagliato che il riferimento guida della riforma costituzionale finisca di fatto per essere la cancellazione delle indennità dei senatori: la politica deve essere più sobria e da subito, perché occorrono esempi di rigore da parte di chi è nelle istituzioni. Si può fare equiparando, ora, le indennità di deputati e senatori a quella del sindaco della capitale: si avrebbe una loro riduzione pressappoco della metà. Con la riforma si deve ridurre anche il numero dei deputati, insieme a quello dei senatori e non per concessioni ulteriori all’antipolitica, ma per un più efficace funzionamento della stessa Camera.
Sono invece preoccupato per il forte restringimento della rappresentanza, che si è operato a livelli locali e regionali.
Quando ero Sindaco di Pistoia, negli anni ottanta, i consiglieri comunali erano 40: con il 2015 saranno 40 i consiglieri della Regione Toscana, che però hanno una funzione legislativa.
Ed alcuni di loro, come secondo impegno, si troveranno anche a fare i senatori.
Non è la strada giusta.
La Francia ha stabilito che con le prossime elezioni Sindaci e Presidenti di Regioni non potranno più essere eletti in Parlamento. E gli Stati Uniti, nel 1913, dopo una prima fase di elezione di secondo grado del Senato, attribuirono ai cittadini questa scelta.
Sarà il caso di riflettere a queste esperienze.
Gli interventi sulla Costituzione non sono mai di banale importanza: le riforme devono essere serie. Riguardano democrazia, libertà, diritti e doveri dei cittadini. E saranno proprio i cittadini ad avere l’ultima parola con il referendum, su cui il governo si è impegnato e che comunque – stando alla votazione in prima lettura – i numeri renderebbero in ogni caso inevitabile.