Autorità, Signore e Signori,
Come molti qui ricorderanno la  presentazione del Rapporto sulla Legislazione era stata prevista per il mese di Novembre in Sardegna, presso la sede del Consiglio regionale, (ora rinnovato  dal voto di domenica scorsa), qualche giorno prima che la furia dell’alluvione  la colpisse.
Voglio cogliere l’occasione per rinnovare qui alle popolazioni colpite tutto il cordoglio per i gravi lutti e per la devastazione conseguiti a quell’alluvione, con gli auguri di positivo lavoro al nuovo Presidente, all’intero Consiglio.  Il Governo e il Parlamento sono intervenuti, ed è all’esame la conversione del d.l. n. 151 del 2013, il cui art. 7 reca “misure per la Regione Sardegna”, resa più complessa e difficile dalle vicende della crisi di governo. Molto, tuttavia, resta ancora da fare per quel territorio e l’auspicio comune è che l’attenzione e gli interventi di cui c’è bisogno siano effettuati nel modo più tempestivo ed efficace possibile.
L’intervento d’urgenza a favore della Sardegna – questo sì necessario, perché doveroso ed indifferibile –  ci riporta ai temi al centro del nostro incontro.
La decretazione d’urgenza è, infatti, una delle due chiavi di lettura principali che propone questa nuova, edizione dell’annuale Rapporto sulla legislazione.
L’altra è, a mio avviso, l’Europa.
La difficoltà (anche politica, oltre che economica)  di porre mano a riforme organiche continua a  rendere protagonista della produzione normativa la decretazione d’urgenza, pur nei margini stretti consentiti dal quadro dei nuovi reciproci impegni dell’Unione europea.
Come segnala  anche la Nota di sintesi al Rapporto, la legislazione si è dunque prevalentemente svolta lungo il sentiero disordinato degli interventi straordinari, costringendo al pendolarismo  o – se si preferisce – allo “stop and go” le spinte riformatrici interne di cui pure ci sarebbe bisogno (penso, ad esempio, al federalismo fiscale, una riforma dal buon impianto bloccata da un quadro di difficoltà finanziarie).
La sensazione che se ne può avere è che la legislazione sia in qualche modo condannata alla gestione dell’emergenza sotto il segno dei vincoli economico-finanziari.
É  una ricostruzione che mi appare miope rinunciataria e priva di prospettive. Serve, al contrario, consapevolezza che i vincoli alle nostre scelte non sono esogeni, perché irreversibili scelte europeiste le hanno rese parte integrante del nostro orizzonte ordinamentale.
Non ci siamo noi, gli altri Stati membri e all’esterno l’Unione Europea: noi siamo parte integrante dell’Unione.
Il “vincolo” va inteso nella sua accezione positiva di legame, non in quella negativa di limite: l’indiscriminato ricorso al debito non sarebbe una libertà, sarebbe una condanna.
Quello che, semmai, siamo chiamati a fare è contribuire con più forza e maggior qualità alla normativa europea, perché la normativa europea è la nostra normativa.
Ed è un impegno che riguarda, in primo luogo, le Assemblee legislative, ed è una delle sfide che il titolo di questo Convegno  evidenzia.

LA LEGISLAZIONE STATALE: LA DECRETAZIONE D’URGENZA.
Un altro importante impegno delle Istituzioni tutte deve essere quello del superamento della normativa d’urgenza come preponderante strumento di regolazione.
L’uso del decreto-legge – che il Rapporto inquadra  fruttuosamente in una prospettiva di lungo periodo (1962-2012) – è probabilmente il fenomeno parlamentare più importante dell’intero svolgimento repubblicano e quello che tuttora caratterizza – e mette in crisi – i rapporti interistituzionali nella condivisione del processo legislativo.
Il decreto-legge è diventato nel tempo l’ordinario modo di legiferare, sostituendo in ciò la “legge ordinaria”, un paradosso anche verbale oltre che istituzionale.
Il Rapporto lo dimostra plasticamente, segnalando  l’aumento del numero di leggi di conversione dalle 6 del 1962 alle 29 del 2012, a fronte di una diminuzione delle leggi ordinarie – negli stessi due anni di riferimento – da 363 a sole 37  !
Ma il dato su cui mi vorrei soffermare è piuttosto quello che evidenzia, all’interno dei sottoperiodi del cinquantennio 1962-2012, come i decreti legge crescano moltissimo fino agli anni ’90 per poi ridursi, pur continuando a restare numerosi.

Questo relativo calo dei decreti d’urgenza è da attribuire alla nota sentenza n. 360 del 1996 della Corte Costituzionale, che pose fine alla reiterazione dei decreti legge, pratica fino ad allora del tutto diffusa e considerata – in qualche modo – “normale”.
Ritengo utile ricordare questo fatto, seppur ormai acquisito al sistema, perché dimostra – tutt’altro che banalmente – che cambiare si può.
La reiterazione dei decreti-legge è stato a lungo un fenomeno consistente, all’epoca dato quasi per scontato da Governo e Parlamento. Oggi è  il ricordo, di una cattiva pratica legislativa di cui si deve fare a meno.
Sono certo che le vicende del ricordato d.l. 151 (il cosiddetto “salva Roma”9 sono una parziale eccezione  che conferma la regola.
Resta da riflettere, semmai, perché questo risultato positivo sia stato conseguito non grazie ad una ferma determinazione del Parlamento, ma solo in virtù di una spinta esterna, in questo caso dalla Corte costituzionale.
Troppe volte, nella storia istituzionale, il Parlamento è riuscito a recuperare l’alveo della normalità solo grazie a supplenze istituzionali, dalle sentenze della Consulta ai referendum. Troppe volte, specie se si consideri  che spesso basterebbe la modifica dei Regolamenti parlamentari – senza necessità di novelle costituzionali – per garantire al Governo l’attuazione ragionata del suo programma ed all’opposizione un costruttivo diritto di replica.
Il fenomeno della decretazione d’urgenza resta ancora oggi negativo e prevalente, anche sotto il profilo dell’altro requisito spesso ignorato, quello dell’omogenità, di cui, ancora una volta, la Corte costituzionale chiede, a partire dalla sentenza 22 del 2012, uno stringente rispetto.
Un rispetto che pare platealmente contraddetto in primo luogo – sono ancora dati del Rapporto  – dai 2600 nuovi commi aggiunti in sede di conversione ai 6.800 originari e, inoltre, dalla sede di assegnazione in sede referente delle conversioni che, per quasi la metà dei casi , non va ad una, bensì a due Commissioni, diverse per competenza.
Non mancano naturalmente, ed il Rapporto non manca di evidenziarli, segni di miglioramento, come il calo dei maxi-emendamenti nel 2012 , sostituito dalla questione di fiducia posta sul testo elaborato dalla Commissione referente.
Il recente, fermo richiamo del Presidente della Repubblica  a ricondurre lo strumento della decretazione d’urgenza nell’alveo previsto dalla Carta costituzionale e l’attenzione dimostrata delle Presidenze dei due rami del Parlamento  confermano che ci sono le condizioni di sensibilità istituzionale per affrontare e risolvere una patologia ormai insopportabilmente cronica della normazione.
Da questo impegno, non dichiarato, ma attuato con coerenza, si dovranno sottoporre a verifica i risultati concreti.

LA CONFUSIONE LEGISLATIVA
L’abuso dei decreti legge, oltre a falsare irrimediabilmente il corretto dialogo tra Parlamento e Governo, genera assai spesso un cattivo prodotto legislativo.
A conversioni non solo ipertrofiche, ma spesso improvvisate e occasionali, consegue infatti un preoccupante disordine normativo dove la legislazione d’urgenza finisce per si sovrapporsi a sé stessa anche a brevissima distanza di tempo, talora ignorandosi e contraddicendosi.
Un quadro che incide, e su cui incide, inevitabilmente, anche la stessa legge di stabilità che condivide con i decreti-legge la natura di norma ad alto tasso di probabilità di approvazione, attirando così su di sé gli stessi fenomeni di disordine normativo.
Un esempio per tutti: quando il disegno di legge di stabilità è pervenuto all’esame del Senato, in materia di patto degli enti locali contemporaneamente  erano presenti e sottoposti ad approvazione tre provvedimenti del Governo: un decreto-legge appena convertito ma non ancora pubblicato nella gazzetta Ufficiale, un decreto legge da convertire e il disegno di legge di stabilità.
Si capisce bene come, così disegnato, il Patto di stabilità, già percepito dagli enti territoriali come assai poco pattizio, si presenti ancor meno stabile, alla luce dei plurimi, continui, ravvicinati e spesso non coordinati interventi.
E’ difficile, in queste condizioni, parlare con serietà di ruolo delle Autonomie Locali e di miglioramento nella efficienza della Pubblica amministrazione.
Della necessità di coinvolgere in modo organico e meditato le legittime aspettative della autonomie territoriali nel circuito della decisione legislativa, dirò di qui a breve.

LA LEGISLAZIONE REGIONALE
Prima qualche considerazione sulla legislazione regionale, su cui c’è troppa distrazione, quasi che le Regioni non siano percepite – dall’opinione pubblica e dai mass media – come quelle Assemblee politiche che condividono con lo Stato le potestà legislative e di indirizzo, ma piuttosto entità minori, la cui immagine si generalizza in una non sempre motivata – ed allora non condivisibile – visione della politica locale come componente malvista di una società. (?)
La potestà legislativa delle Regioni è un dato qualificante, che caratterizza il sistema italiano delle autonomie.
Il Rapporto fornisce dati concreti, utili a formarsi un’opinione non preconcetta , quando ricorda – a proposito di un tema ricorrente, quale la riduzione del numero dei Consiglieri regionali – che a fronte degli 80 membri del Consiglio regionale della Lombardia che rappresenta 10 milioni di persone, la Baviera ha un Parlamento di 180 membri (e poco più di 12 milioni di cittadini) e la Catalogna di 135 membri (con poco più di 7 milioni di abitanti).
Le Regioni, intendendo l’asse governo-assemblea legislativa, devono recuperare – come le Istituzioni tutte – in modo progressivo un rapporto di credibilità con i cittadini,  costruito sulla base di comportamenti ineccepibili e di servizi efficaci.
Non basta cambiare una targa per rendere il servizio più efficiente né all’incapacità di migliorare le prestazioni si può rispondere moltiplicando le rivendicazioni.
A questo riguardo, il Rapporto evidenzia  quella che ritengo una buona notizia, vale a dire che il primo settore di intervento della legislazione regionale nel 2012 (790 leggi regionali in totale) è tornato ad essere quello dei “servizi alla persona e alla comunità” (178 leggi), scalzando l’“ordinamento istituzionale” (157) che l’anno precedente era al primo posto.
L’attività normativa dell’ente regione è dunque tornata a volgersi verso il cittadino, più che verso sé stessa.
Degna di riflessione, infine, è anche la prospettiva circa un trend futuro in cui le leggi regionali conterranno – come già contengono – sempre più un intreccio di competenze con l’aumento dell’esercizio contemporaneo delle due potestà concorrente e mista. Come ha notato la Regione Toscana – e come rileva il Rapporto – aumenta la frequenza di una legislazione che “abbraccia più materie” e “la potestà effettivamente esercitata si interseca”.
Ne consegue – a mio avviso – che un progetto efficace di riforma del bicameralismo che voglia davvero centrare nel Senato la rappresentanza della dimensione territoriale, dovrà considerare con attenzione l’ampiezza e il rilievo crescenti della legislazione regionale che interagisce con quella statale.
Dunque, la lettura che un futuro Senato potrà fare – non solo della legislazione concorrente (di cui si ipotizza la soppressione ma io credo sia più corretto dire la “diminuzione”) – ma anche di quella esclusiva (comunque non separata, quasi fosse in un’altra dimensione dalle competenze regionali), non potrà essere ridotta ad una mera formalità, pena la mortificazione dell’espressione territoriale del Paese.
Un Senato che dovrà, inoltre, guardare con attenzione all’Europa.

LA DIMENSIONE EUROPEA
Sono, per convinzione e per l’incarico parlamentare che attualmente rivesto, sensibile ai profili di connessione tra dimensione europea e dimensione regionale, profili per i quali il Parlamento è tramite ed il Senato ha e dovrà rafforzare una vocazione istituzionale.
L’8 novembre scorso, a Milano, ho partecipato ad un assise sul ruolo dei Parlamenti regionali in Europa. In quella sede è stato concordato un documento che chiede di scongiurare il rischio di un’unificazione – così si legge – “artificiale, che i cittadini prima sentiranno lontana e poi rifiuteranno”.
Si tratta di riconoscere alle Assemblee legislative – lo rileva anche la Nota al Rapporto – un ruolo nel processo costituente europeo con un rafforzamento della partecipazione democratica ai processo decisionali della UE all’altezza della loro funzione di rappresentanza.
Ci sono segnali incoraggianti sul livello di attenzione e sensibilità dell’interazione dei Parlamenti nazionali sui processi legislativi europei. Il Rapporto ne dà testimonianza  quando evidenzia il dato di 663 pareri trasmessi dalle Camera di tutta Europa nell’ambito del dialogo politico con la Commissione. Mi fa piacere notare come il Senato italiano si collochi al secondo posto in questa peculiare classifica, con 96 pareri resi.
Per altro verso lo stesso Rapporto sottolinea alcuni segni di distrazione, come la presenza occasionale dei rappresentanti del Governo alle sedute parlamentari ove sono in discussione atti o temi relativi all’Unione.
Anche su questo terreno si può e si deve fare di più.
La Risoluzione che la 14a Commissione permanente sulle politiche dell’Unione europea (Doc. XXIV n. 11) ha approvato il 23 ottobre scorso ha sottolineato l’esigenza di rimodulare le modalità di partecipazione – in quel caso del Senato – alla «fase ascendente» di formazione della normativa europea, allo scopo di poter incidere più efficacemente, mediante una adeguata istruttoria, sui principali dossier economici, sociali e politici che interessano il Paese.
In questo senso anche da qui credo sia giusto avanzare l’esigenza, che si proceda ad una sua ricostruzione, così da poter poi coinvolgere insieme alle Assemblee parlamentari e quelle regionali i parlamentari europeo neo-eletti, costituendo un tavolo di cooperazione unico e all’avanguardia in Europa.
Del resto l’Unione Europea è ad un bivio: o un nuovo balzo in avanti, verso una vera democrazia sovranazionale, gli Stati Uniti d’Europa, e davanti a noi il rischio di declino.
Di fronte a noi, nel mondo globale, ci sono giganti, ci sono giganti vecchi e nuovi, protagonisti delle decisioni fondamentali: USA, Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica.
Nessun paese europeo, da solo manterrà di qui al 2030 il ruolo attuale negli equilibri mondiali.
Al tempo stesso, per avanzare verso gli Stati Uniti d’Europa è indispensabile un cambio di politiche: non logiche monetariste, non rigore fine a sé stesso, ma azioni per il diritto al lavoro, per uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile.
E’ così che gli Stati Uniti d’Europa divengono obiettivo politico e valore ideale.

CONCLUSIONI
Osservavo in precedenza che “cambiare si può”.
L’ultima edizione dell’annuale Classifica internazionale redatta da Doing business   – solitamente ripresa dai mass-media per evidenziare il basso livello del ranking italiano  – dava atto dei progressi fatti nel settore della tutela civile.
Di conseguenza, uno degli opinionisti della carta stampata più severi con il mondo della politica , commentava: “È la prova: se si fanno le riforme, il declino si può sconfiggere”.
Non c’è dubbio: le riforme pagano gli sforzi profusi per approvarle.
Ma serve una condivisione convinta, non offuscata da improvvide pregiudizialità.
Ci sono esigenze di razionalità che non possono non essere patrimonio condiviso, quale che sia il posizionamento lungo l’arco politico-parlamentare.
La “sfida del cambiamento” – come recita il titolo di questo incontro – deve partire da questa consapevolezza comune. Il disordine normativo, le forzature degli strumenti istituzionali, la prevalenza dell’occasionalità sulla progettazione non giovano in primo luogo a chi ha cuore il raggiungimento di un obiettivo politico attraverso un’innovazione legislativa.
Un traguardo politico non può essere raggiunto salendo sul primo mezzo normativo che procede. Consenso, chiarezza, conoscibilità sono passaggi obbligati per il reale raggiungimento del cambiamento sociale che si persegue, non un’approvazione a qualunque costo.
L’ultima parte della Nota di sintesi al Rapporto  contiene la proposta di aprire il Parlamento a forme di coinvolgimento diretto dei cittadini sui processi decisionali, rendendoli più trasparenti e meditati.
E’ un rilievo di valore, che va colto.
Altrimenti, il rischio di una politica legislativa ondivaga, confusa, scostante  è tutto nel risultato delle elezioni regionali, in Basilicata il 17 e 18 novembre , in cui ha votato meno della metà degli aventi diritto  un calo di oltre 15 punti percentuali, sulla già scarsa, precedente affluenza.
Il risultato delle elezioni in Sardegna  non presenta un quadro così marcato, ma registra comunque una percentuale di astenuti quasi del 48%.
E’ una tendenza generale che deve preoccuparci tutti e a determinare nei nostri comportamenti – individuali e dei gruppi politici di cui facciamo parte – atteggiamenti costruttivi, responsabili, orientati da senso delle istituzioni, capaci di proposte che riavvicinino i cittadini alle istituzioni. Si tratta infatti di campanelli d’allarme che non possono essere ignorati, né lasciarci indifferenti o inerti.
Si tratta infatti delle istituzioni della nostra democrazia.