Martedì scorso abbiamo ricevuto una bella notizia: Meriam, la ragazza sudanese che era stata condannata a morte per apostasia, è stata liberata perché una Corte d’appello del Sudan ha annullato la sentenza.
Meriam era stata rinchiusa in carcere insieme al figlio di 20 mesi e con in grembo una bambina che ha visto la luce il 27 maggio nell’ala ospedaliera del carcere in cui Meriam si trovava da febbraio. Era stata condannata all’impiccagione. La sua “colpa” era quella di essersi sposata con un uomo americano ed essersi convertita al cristianesimo, lasciando il credo musulmano. È superfluo dire che un trattamento del genere è di una gravità assoluta. Si deve ribadire il no alla pena di morte, in ogni caso e ovunque, e a qualsiasi forma, anche minima, di punizione o privazione di libertà per convinzioni culturali o religiose. Si tratta dei diritti fondamentali della persona. Non vi può essere indifferenza per casi come questo. É inammissibile per il Sudan o qualsiasi altra nazione perseverare su una strada che colpisce la persona nella sua integrità e nella sua dignità. È ora che, anche sulla scorta di questo importante risultato, si cancelli in tutto il mondo l’offesa ai diritti umani, rappresentata dal reato di apostasia.
Purtroppo poche ore dopo la notizia della liberazione ne è arrivata un’altra di segno opposto: Meriam è stata fermata dalla polizia all’aeroporto di Karthoum mentre con la famiglia si apprestava a lasciare il Sudan per andare negli Stati Uniti. Dalle notizie che arrivano sembra si tratti solo di verifiche su documenti forse non in regola. Ci auguriamo che questa vicenda si chiuda definitivamente in modo positivo e che Meriam e la sua famiglia possano trovare serenità negli Stati Uniti o dove decideranno di andare a vivere. Il marito di Meriam ha chiesto un intervento italiano: siamo certi che arriverà presto.

La liberazione di Meriam e la cancellazione della sua condanna sono un risultato ottenuto anche grazie all’impegno della comunità internazionale e in particolare, in Italia, dell’associazione Italians for Darfur e del quotidiano Avvenire. A loro va un doveroso ringraziamento.