1 – Da molti anni ormai si parla di riforma delle nostre istituzioni, senza arrivare ad una qualche conclusione positiva. Le ultime decisioni, che risalgono agli anni novanta del secolo passato, riguardano l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione.
Non essendo intervenute modifiche nell’assetto centrale dello Stato, anche quelle scelte in parte si stanno vanificando, irretite da una complessiva disorganicità del sistema istituzionale.
Intanto il mondo è cambiato in modo vertiginoso: i processi che caratterizzano quella che noi chiamiamo globalizzazione sfidano la democrazia sui tempi delle decisioni e sui confini delle sue competenze. In altri termini gli Stati nazione non sono più in grado di garantire, con gli strumenti che essi possono mettere a servizio della democrazia, le finalità sociali dello sviluppo, la sua sostenibilità ambientale, le regole per la trasparenza dei mercati finanziari, lo stesso rinnovamento di un welfare dell’uguaglianza nelle opportunità di vita.
La risposta nel nostro continente è la costruzione di una vera democrazia sovranazionale: gli Stati Uniti d’Europa.
Al tempo stesso – non c’è un prima o un dopo rispetto a quell’obiettivo, ma solo la necessità di un disegno coerente – è indispensabile realizzare una riforma degli Stati nazione: in Italia, per i ritardi accumulati nello scorrere degli anni, ciò si pone con particolare urgenza. Ma, come si può vedere, dibattiti e decisioni politiche relativi a riforme istituzionali hanno attraversato, con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, pressoché tutte le nazioni europee, dalla Gran Bretagna alla Francia.
2 – In Italia, come ho detto, siamo ormai giunti ad un punto limite: il nostro sistema politico-istituzionale non è più in grado di assicurare la partecipazione dei cittadini e la capacità di assumere decisioni efficaci. Questo doppio deficit produce una perdita di credibilità della politica, attenua le distinzioni esistenti tra i diversi partiti e schieramenti, determina frammentazioni, amplia gli spazi di un populismo nemico della democrazia e dell’Europa.
Le ultime elezioni politiche hanno drammaticamente evidenziato questa situazione: un movimento eterogeneo di protesta, anti-sistema e intriso di pulsioni demagogiche e tendenze autoritarie, ha raccolto il 25 % dei voti. La costituzione materiale sta divorando la Costituzione.
L’inedita e temporanea soluzione di un governo di larghe intese tra sinistra e destra è stata la risposta necessaria a questo stato di cose: il suo compito, e la sua giustificazione, risiedono in un programma di misure per affrontare le emergenze economico-sociali – una crisi che ci colpisce duramente da circa cinque anni, con una disoccupazione superiore al 12% – ed insieme nel condurre in porto la riforma delle istituzioni, condizione per una normale democrazia dell’alternanza, per un bipolarismo maturo, non trascinato in una distruttiva contrapposizione permanente.
Quali sono le riforme delle istituzioni da realizzare in questa legislatura?
Una modernizzazione e un rafforzamento sia del Governo che del Parlamento; il riordino del sistema delle Regioni e delle Autonomie locali; una nuova legge elettorale.
La discussione, in questa nuova fase di avvio del percorso riformatore, si è concentrata più sullo strumento – la legge costituzionale che prevede la nomina di un comitato di 21 deputati e 21 senatori e talune procedure tra cui una circoscritta e momentanea modifica dell’articolo 138 della Costituzione per predisporre i progetti di riforma, che in ogni caso le Camere, autonomamente, esamineranno e approveranno – che sul merito, sulle impostazioni guida.
Addirittura Movimento 5 Stelle e Sel hanno condotto una battaglia ostruzionistica alla Camera per impedire o almeno ritardare l’approvazione della legge: una esagerazione di cui non si avvertiva il bisogno, quasi a sottolineare l’assenza di una consapevolezza e responsabilità per l’urgenza di un intervento di aggiornamento della Costituzione, senza il quale i rischi di un impoverimento e snaturamento della nostra democrazia sono reali. Intendiamoci: direi una bugia se affermassi che considero la legge costituzionale che istituisce il Comitato per le riforme indispensabile e necessaria per giungere ad un esito positivo. Ho anch’io alcune perplessità e riserve, espresse tra l’altro con una lettera pubblica sottoscritta da 43 parlamentari: non so se valesse la pena di scatenare una battaglia per ridurre da tre mesi a “almeno 45 giorni” il tempo che deve trascorrere prima della seconda lettura delle varie leggi di innovazione della Costituzione; più ancora non sono molto convinto che le possibilità e le procedure per gli emendamenti da parte dei parlamentari ai testi costituzionali siano equiparate a quelle in vigore per la legge di stabilità e per quella europea. La Costituzione è altra cosa e non è paragonabile a nessuna delle pur importanti leggi ordinarie. Sono infine persuaso che se tra le forze politiche vi sarà una reale intesa sulla forma governo e sulla riforma del Parlamento l’iter potrà svilupparsi in modo efficace e sufficientemente rapido, mentre nessuna invenzione procedurale potrebbe sostituire un accordo e un clima di ampia collaborazione.
Ciò detto nella legge costituzionale vi sono aspetti importanti, che si proiettano anche in chiave futura e riguardano la sovranità del popolo sulla Costituzione: ogni legge di modifica costituzionale, anche se approvata in seconda e definitiva lettura con i 2/3 dei voti dei deputati e dei senatori, potrà essere sottoposta a referendum. Questa innovazione – a mio giudizio da rendere permanente dal momento che le leggi elettorali non avranno più un impianto di tipo proporzionale – spazza via ogni farneticazione su leggi liberticide, colpi di mano o peggio di stato, per snaturare la Costituzione. È troppo pretendere che nel nostro Paese prevalga la misura, l’equilibrio, il rispetto della diversità delle idee e soprattutto della verità?
3 – La scelta che nei fatti diviene dirimente e condizionerà l’esito delle riforme riguarda la forma del governo: soluzione parlamentare forte, imperniata attorno al ruolo del Primo Ministro – come è in paesi chiave d’Europa quali la Germania, la Spagna, la Gran Bretagna – oppure presidenzialismo? Sì presidenzialismo, perché non credo che il modello del semipresidenzialismo francese sia positivamente esportabile: ciò in ragione della peculiarità storica della sua nascita – non solo instabilità interna e degenerazione del parlamentarismo, ma necessità di fare i conti con la guerra d’Algeria – ed ancor più per una caratterizzazione che vede sostanzialmente subalterno, anche dopo le recenti modifiche costituzionali, il ruolo del Parlamento. Il semipresidenzialismo francese non è un modello attenuato bensì fortemente accentuato di presidenzialismo: è assente quell’equilibrio tra i poteri legislativo e esecutivo che sostiene l’esperienza degli Stati Uniti.
Ciò detto non vi è dubbio che il presidenzialismo rappresenti una soluzione del tutto democratica, una possibile risposta al bisogno di rinnovamento delle istituzioni della Repubblica: è al tempo stesso coerente con il progetto di democrazia sovranazionale europea, che dovrà vedere, in una prospettiva augurabilmente non confinata in un futuro lontano, l’elezione diretta del Presidente dell’Unione.
Si può aggiungere che il presidenzialismo non sarebbe distonico rispetto al quadro istituzionale italiano, dal momento che non solo i Sindaci ma anche i Presidenti delle Regioni – e alle Regioni sono stati affidati poteri legislativi – sono eletti direttamente dai cittadini.
La mia convinzione, nella concreta situazione del nostro Paese, è che sia tuttavia da scegliere il rafforzamento del governo parlamentare, con un Primo Ministro eletto dalla Camera dei deputati su indicazione del partito o dello schieramento vincitore delle elezioni, dotato del potere di nomina e revoca dei ministri; della possibilità – come in Germania – di richiedere al Presidente della Repubblica le elezioni anticipate; introducendo infine in Costituzione la sfiducia costruttiva.
La mia scelta per il governo parlamentare forte è dovuta a tre considerazioni, due di merito, l’ultima di metodo.
La nostra Costituzione ha un impianto di tipo parlamentare: il passaggio al presidenzialismo richiederebbe più ampi e profondi cambiamenti (tanto per fare degli esempi, non certo esaustivi, si pensi al fatto che il Presidente della Repubblica in Italia presiede il Consiglio Superiore della Magistratura e nomina un terzo dei componenti della Corte costituzionale).
Nel nostro Paese si è in presenza di una crisi seria dei partiti politici, dei meccanismi della rappresentanza, della organizzazione dei cosiddetti corpi intermedi, da sempre una ricchezza ed una peculiarità della nostra democrazia. Un radicale cambiamento di regime provocherebbe probabilmente una gelata, che sradicherebbe anziché innovare queste esperienze di articolazione della nostra società. In altri termini un ruolo di garanzia, di rappresentante dell’unità della nazione da fare compiutamente assumere al Presidente della Repubblica, anziché trascinarlo direttamente nella contesa politica, serve oggi non soltanto agli equilibri politico-istituzionali, ma anche alla tenuta degli assetti su cui si fonda la nostra convivenza.
La valutazione di metodo riguarda gli strumenti di cui ci si è dotati per realizzare le innovazioni costituzionali: cambiamenti più di fondo, come quelli richiesti dalla scelta del presidenzialismo, non possono essere affidati ad un comitato di esperti, che collabora con il governo, e a 42 tra deputati e senatori.
Sarebbe stata necessaria l’elezione, su base proporzionale, da parte dei cittadini o del Parlamento, di una Convenzione a ciò incaricata: se ne era parlato, ma non si è fatto. La praticabilità politica era complicata, me ne rendo conto, ma sulla Costituzione bisogna intervenire con mezzi adeguati, con estrema, puntuale, rigorosa attenzione e con strumenti proporzionati ai fini che ci si propongono. Non esserne consapevoli preparerebbe nuovi insuccessi.
Resto oltretutto persuaso che la via maestra sarebbe stata quella invano proposta nella scorsa legislatura attraverso un progetto di legge costituzionale presentato insieme a Stefano Ceccanti: fare esprimere i cittadini italiani, in concomitanza con le elezioni politiche, su presidenzialismo o governo parlamentare del Primo Ministro. Sulla base di questo esito il Parlamento avrebbe dato vita agli strumenti operativi – commissioni o convenzione – per attuarlo.
Permane purtroppo un timore arcaico rispetto alla scelta di affidare ai cittadini italiani le decisioni di più grande rilievo.
E’ un vecchio vizio che condiziona la sinistra italiana, limitando la sua azione riformista attraverso il permanere di residui di giacobinismo e concezioni che racchiudono nei vertici della politica istituzionale e partitica la guida, sicura ed esclusiva, dei processi di cambiamento. Si incontrano qui residui di visioni gramsciane del partito come moderno Principe – salvo che quel partito non esiste più – e orientamenti di sfiducia nel popolo, proprie anche delle correnti democratiche del XIX secolo. Il risultato però, nel XXI secolo, è un’autoreferenzialità che produce elitarismi e prepara solo insuccessi.
4 – Appare, se non scontata, almeno più definita in alcuni tratti fondamentali la riforma del Parlamento.
È acquisita l’esigenza di una riduzione del numero dei deputati e dei senatori: oggi, come quando dal 2006 al 2008 ho avuto l’incarico di Ministro per i Rapporti con il Parlamento e le Riforme, resto convinto che 400 deputati e 200 senatori siano sufficienti per contribuite a rendere le istituzioni rappresentative nazionali, cuore della democrazia repubblicana, più moderne, efficienti, maggiormente in grado di dare indirizzi ai governi e controllarne l’operato.
Altrettanto è diventato patrimonio condiviso dalle forze politiche l’obiettivo del superamento del bicameralismo perfetto, in linea con quanto avviene in Europa (anche se non è così negli Stati Uniti). Restano impostazioni differenti per il Senato Federale.
Occorre ad ogni costo evitare pasticci: per questo dobbiamo compiere scelte semplici e lineari, non darci ad invenzioni che aumenterebbero disfunzionalità e confusione.
Si vuole seguire il modello tedesco del Bundesrät? Lo si faccia senza aggiunte od omissioni. Quella soluzione – che ha varie zone d’ombra – si fonda sulla presenza dei governi regionali e sulla loro unitarietà di voto. Non va nella medesima direzione un Senato in cui confluiscano Presidenti delle Regioni (e dunque governi), eletti nei Consigli regionali (e dunque anche rappresentanti delle opposizioni), Sindaci (designati dalla Conferenza regionale delle Autonomie).
Dal bicameralismo perfetto si passerebbe ad un Senato espresso da forme variegate di rappresentanza, dotato di scarsa autorevolezza e fragile legittimazione.
Per me resta preferibile la soluzione sulla quale, nel recente passato, avevano trovato occasioni di convergenza centrosinistra e centrodestra: un Senato eletto direttamente dai cittadini, ma in collegamento con le elezioni nelle diverse regioni; con differenti meccanismi di incompatibilità e una diversa legge elettorale rispetto alla Camera; concentrato come competenza sui rapporti tra Stato centrale, sistema delle Regioni e delle Autonomie locali, Unione Europea.
Il bicameralismo resterebbe perfetto per le modifiche alla Costituzione, le leggi elettorali, la ratifica dei Trattati internazionali, la legislazione sui diritti umani.
Il Senato, è ovvio, non darebbe più la fiducia al governo: questa modifica, da tanti sbandierata e rivendicata, è in realtà priva di contenuti reali. Quale che sia la soluzione che finirà per prevalere e cioè governo parlamentare del Primo Ministro o Presidenzialismo, la fiducia ai governo, così come oggi la conosciamo, non esisterà più.
5 – Il sistema delle Regioni e delle Autonomie locali deve essere ripensato e riorganizzato. Ci si può limitare a misure di razionalizzazione, importanti e abbastanza scontate, oppure – come mi auguro e secondo me è necessario – andare più a fondo, in un’azione riformatrice graduale ma radicale.
Il Titolo V della Costituzione deve essere modificato, sulla base delle sentenze già pronunciate dalla Corte costituzionale: le grandi infrastrutture di comunicazione e quelle per la conduzione dell’energia devono tornare nella responsabilità dello Stato centrale. Occorre operare una semplificazione e un chiarimento nelle competenze, così da evitare sovrapposizioni e confusione di ruoli. La legislazione concorrente è fallita: occorre perciò una inversione di rotta e il suo superamento. È indispensabile introdurre in Costituzione quel criterio di prevalenza presente in ogni ordinamento federale, che consenta alle istituzioni la capacità di assumere decisioni, senza paralizzarsi in conflitti inconcludenti.
Tutto questo è necessario, ma non sufficiente: non lo sarebbe stato comunque, meno che mai può esserlo ora che è stata decisa la cancellazione delle Provincie dalla Costituzione e la loro trasformazione in enti di secondo grado.
Se questa scelta non mette in moto un profondo mutamento nell’assetto dei poteri democratici locali, la conseguenza sarà non una loro modernizzazione bensì un arretramento complessivo del sistema istituzionale più vicino ai cittadini, già colpito dai tagli di risorse e da una compressione dell’autonomia decisionale.
La cancellazione delle Provincie non può essere soltanto la conseguenza di una campagna di stampa, che, a volte, confonde sprechi e privilegi, certamente da eliminare, con i costi di una democrazia, senza paragone minori dei presunti risparmi dei regimi autoritari o delle dittature.
Il superamento delle Provincie deve dunque rappresentare l’occasione per un riordino delle Autonomie, in grado di assicurare maggiore funzionalità ed un contributo efficace a quel rinnovamento della democrazia, indispensabile per riconciliarla con i cittadini.
Naturalmente nessuna riforma avrà successo se alle competenze assegnate a Comuni e Regioni non si accompagneranno le risorse corrispondenti per gestirle; se non vi sarà una reale autonomia di decisione; se la revisione della spesa non avverrà in modo rigoroso e equilibrato al centro come nei territori; se infine non verrà modificato il Patto di stabilità interno, così da permettere a Regioni e Comuni con i bilanci in ordine di poter utilizzare parte degli avanzi di amministrazione.
Tornando al tema degli assetti delle istituzioni regionali e locali, a me pare evidente che non si possa continuare a conservare un numero di Comuni addirittura maggiore di quello che si aveva al formarsi dell’unità d’Italia: 8.094!
Il numero degli abitanti – ha ragione la Corte costituzionale nell’averlo indicato nella sentenza sul ricorso delle Provincie, nella quale ha ribadito che nessun organo costituzionale può essere sciolto per decreto – è un riferimento, ma non l’unico: si deve considerare ad esempio la specificità dei territori.
È evidente che in talune, più remote, zone di montagna o nelle piccole isole non si possa sradicare la presenza di un municipio solo perché non è consistente il numero dei cittadini residenti: in generale occorre però stabilire un termine – 2/3 anni – entro il quale, tranne le eccezioni a cui ho fatto riferimento, non vi siano Comuni con meno di 15.000 abitanti.
Trascorso questo lasso di tempo si dovrebbe procedere in via automatica da parte dello Stato centrale: il numero dei Comuni nel XXI secolo, per essere il tassello di una democrazia partecipata ed efficiente, dovrebbe essere quantomeno dimezzato rispetto all’attuale.
L’associazione di Comuni per gestire i servizi è giusta e utile, ma complementare a questo disegno, non sostitutiva.
Anche le Regioni non possono restare così come sono: vi è intanto il problema di quelle a statuto speciale, che ormai non trova più fondamento. È evidente che rimane attuale, anzi permanente, il dovere di garantire le specificità linguistiche alla Val d’Aosta e al Trentino: ma non possono più sussistere gradi diversi nei poteri, nelle risorse, nel farsi carico dei sacrifici finanziari necessari al Paese.
L’altra questione è rappresentata dalla consistenza del numero di abitanti, dalla diversità di estensione territoriale tra le varie Regioni: alcune, riguardo ai cittadini residenti, superano o si avvicinano a Stati europei, altre sono come un Comune di medie dimensioni. Negli anni novanta dell’altro secolo la Fondazione Agnelli aveva posto il tema del numero delle Regioni, avanzando la proposta di unificazioni che portassero dalle attuali 22 (20 regioni e due province autonome) a 12-13: poi il dibattito è cessato e su tutto è calata una cortina di silenzio. L’appiattimento sull’esistente non nasconde tuttavia il dato di una progressiva crisi e involuzione delle Regioni né il fatto che un ruolo efficace ed innovativo di istituzioni dotate di potere legislativo – ed anche l’efficacia nell’uso delle risorse – non è indipendente dalla loro dimensione demografico-territoriale. Del resto l’art. 117 della Costituzione e la stessa Unione Europea, per le sue politiche di sviluppo territoriale, prevedono la costruzione delle cosiddette macroregioni: togliendo a questo obiettivo ogni ambiguità indipendentista, propria del tardo leghismo decadente, sarà bene iniziare a muoversi su questa strada e sperimentarne le potenzialità.
Le città metropolitane sono una istituzione fondamentale per modernizzare il nostro sistema delle autonomie: è essenziale mantenere la scadenza del gennaio 2014 per dar loro, infine, attuazione. L’Italia in questo è in forte ritardo rispetto ai più avanzati paesi europei: solo da noi piccole comunità o grandi aggregati urbani hanno i medesimi strumenti, regole, competenze per l’azione di governo. Nell’inconcludenza, fino ad oggi, del percorso per dar vita alle città metropolitane ha pesato tuttavia anche un’ambiguità presente nella loro configurazione: possono interamente diventare città metropolitane le vecchie provincie che corrispondono alla loro individuazione, con ciò unendo spesso – e derubricando da Comuni a Municipi – centri urbani e aree montane distanti svariati chilometri. Bisogna invece, secondo me, delimitare più rigorosamente i conglomerati urbani, avendo una flessibilità di modelli e perseguendo preferibilmente l’obiettivo di una Città-Comune metropolitano, come Parigi o Bruxelles e da noi Roma. È chiaro che questa seconda opzione renderebbe necessaria una riconfigurazione dei confini delle vecchie Provincie ad opera dello Stato centrale, delle Regioni e dei Comuni interessati, ma una tale scelta sarà comunque necessaria una volta che quegli enti, privati di uno status costituzionale, a differenza delle città metropolitane, non saranno più eletti direttamente dai cittadini. Né possiamo rinunciare a riorganizzare, razionalizzare, semplificare la presenza nei territori degli uffici decentrati delle Stato o impedire alle Regioni di trasferire alle nuove Provincie, enti elettivi di secondo grado, competenze e funzioni da gestire in un’area più vasta rispetto ai singoli comuni, tenendo conto delle esperienze esistenti e soprattutto per evitare che le istituzioni regionali siano sospinte verso un approdo di centralismo amministrativo, che le renderebbe superflue o addirittura dannose.
Non sono questioni retoriche: rappresentano alternative reali e le scelte che si compiranno, decideranno del successo o meno di un progetto riformatore, da avere presente nel suo complesso, da fare approvare, ma al tempo stesso da governare nella sua concreta attuazione sul territorio.
5. Infine una parola sulla nuova legge elettorale. Non mi convincono operazioni di manutenzione, più o meno estesa, dell’attuale porcellum giustificate come interventi di garanzia. Garanzia di cosa? Di lasciare la democrazia italiana con una legge non adeguata al diritto-dovere dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento e di contribuire con il loro voto a determinare le maggioranze di governo?
La legge migliore per l’Italia è un maggioritario a doppio turno di collegio: può essere la motivazione per un accordo politico quella di collegarlo alla scelta della forma di governo ma è una sciocchezza e determina una subalternità culturale l’accettazione di una sua inseparabilità dal presidenzialismo.
Non è così. Il maggioritario a doppio turno si concilia perfettamente anche con un governo parlamentare forte, imperniato sul Primo Ministro. La prima esigenza politica è dunque quella non di limitarsi ad evocare, come una sorta di posizione di bandiera, bensì di sostenere con convinzione una legge elettorale maggioritaria a doppio turno. Così fino ad ora, nei fatti, non è stato.
Mi è difficile ritenere davvero possibile che in una legislatura, le cui previsioni tra l’altro non sembrano essere quelle di una normale durata, si possano approvare due distinte e successive leggi elettorali. Sarà dunque importante concentrarsi sull’impegno per dare vita ad una buona legge, attraverso un confronto non solo tra le forze politiche, ma con il mondo della cultura istituzionale, i sentimenti espressi dai cittadini e dalle organizzazioni che operano nella società.
Come ho detto non sono molto convinto della praticabilità di una legge elettorale provvisoria o di garanzia, ma se proprio si vuole procedere in questa direzione allora il modo più semplice e politicamente più indolore per farlo è quello di cancellare in Parlamento il Porcellum, richiamando in vigore la legge Mattarella.
Questa scelta da un lato risolverebbe il problema dei vari casi di incostituzionalità che gravano sul Porcellum e che la Corte a fine anno non potrà non rilevare – del resto da tempo e più volte avevamo denunciato questi seri discostamenti dalla legalità costituzionale -, dall’altro lascerebbe aperta più facilmente la strada per realizzare una nuova legge elettorale che contribuisca alla normalità della democrazia dell’alternanza in Italia. La legge Mattarella offre una base per aggiornamenti in grado di renderla coerente sia con un governo parlamentare forte che con il presidenzialismo.
La riforma del sistema parlamentare, con il superamento del bicameralismo perfetto, ha come conseguenza anche quella di rendere possibile una più marcata differenziazione tra la legge elettorale per il Senato e quella per la Camera.
Se il Senato – come io propongo – continuerà ad essere eletto a suffragio universale diretto, regione per regione, in concomitanza con le rispettive elezioni, e non vi sarà più un suo ruolo nella nomina del Presidente del Consiglio e nella sfiducia costruttiva, sarà opportuno che la legge elettorale sia proporzionale.
Questo consentirà una differenziazione reale – di competenze, di funzioni, di formazione, fondate anche sulle norme elettorali – tra le due Camere.
6 – A conclusione mi pare giusto esprimere alcune considerazioni sulla società italiana.
I limiti della politica, le difficoltà delle istituzioni, la crisi dei partiti, il bisogno di generale rinnovamento che avvertiamo e che con crescente difficoltà riusciamo in concreto a fare avanzare, non è separabile dalle più generali e profonde tendenze della società italiana.
Il contrapporre una società felice ad una politica malata può consolare gli animi, ma non corrispondere alla realtà: la politica è una espressione della nostra convivenza. Può riuscire a guidare bene la società o esserne incapace, ma non è un mondo estraneo o separato.
Il problema da guardare in faccia, senza infingimenti, altrimenti non è possibile neppure individuare vie d’uscita, non facili ma pur sempre possibili, è il declino del nostro Paese.
Basta porre attenzione agli andamenti demografici: in Italia vi sono poche nascite e un forte invecchiamento della popolazione. In queste condizioni, se non sarà operata una netta inversione di tendenza, il futuro è precluso: la spinta all’innovazione non riuscirà ad avere il sostegno di soggetti reali, anzi verrà meno anche nell’orientamento culturale, nello stesso senso comune dell’opinione pubblica.
Le resistenze spesso insormontabili che trova ogni misura di cambiamento nelle attività produttive, nelle professioni, nelle relazioni sindacali, nelle istituzioni della democrazia, lo confermano.
In questo quadro il superamento dello ius soli, la definizione di una diversa impostazione per le politiche di immigrazione, l’accesso alla cittadinanza – immediato per i bimbi che nascono in Italia, legata ad un percorso con regole precise per gli adulti -, il diritto di voto amministrativo, dopo alcuni anni di residenza in un Comune, non sono soltanto, e prima di tutto atti di civiltà: rappresentano anche porte aperte sul nostro futuro. L’Italia deve saper vincere le sue paure, i corporativismi, gli egoismi di categoria o territoriali, le nostalgie che la imprigionano nel rimpianto del passato: la nostra storia rappresenta un bagaglio prezioso, una memoria da conservare e condividere, ma come sollecitazione e stimolo ad aprirsi sul futuro. Potremmo riuscire in questa impresa se ci ancoreremo ancor più strettamente all’Europa: è nell’Unione Europea il nostro futuro e il nostro destino. Ne siamo stati uno dei paesi fondatori, mostrando allora lungimiranza e capacità di partecipare ad un grande progetto. È questa la spinta ideale che deve continuare a muoverci e ad orientare le forze migliori dell’Italia.
La prospettiva che potrà restituire senso ed efficacia alle democrazie nazionali, promuovere uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile, rilanciare un welfare che superi l’orizzonte delle garanzie, per assumere la priorità dell’uguaglianza nelle opportunità di vita, è l’Unione europea.
Ne ho già parlato all’inizio di questo scritto.
Ora mi preme sottolineare che in questa chiave l’Italia deve ridefinire una sua funzione, il suo stesso interesse nazionale di paese europeo e mediterraneo: per questi obiettivi deve sollecitare la sua cultura, la ricerca; in questo quadro deve individuare le priorità per il rilancio e la riconversione ecologica della sua economia, la realizzazione o modernizzazione delle grandi infrastrutture di comunicazione; contribuire all’affermarsi di nuove politiche di cooperazione e pace con gli Stati della riva sud del Mediterraneo.
Per rispondere a questi compiti, misurarsi con queste sfide e con l’ambizione di un grande progetto collettivo, vale la pena di impegnarsi: anche a questo serve il rinnovamento delle istituzioni democratiche della Repubblica.
Si tratta di non rassegnarsi alla decadenza dell’Italia né alla marginalizzazione di un’Europa ancora troppo divisa e incompiuta: il domani non è già scritto. Dipende da noi. In fondo il senso di una politica, oggi, può essere ritrovato solo se si comprende che viviamo un tempo di svolta, di cambiamento e se si prova a costruire e a far essere vincente un progetto di società, che corrisponda a questa esigenza e a queste attese, per l’Italia, per i singoli paesi europei, per l’Unione Europea. Il nostro tempo ci chiede di costruire una cultura politica nuova, perché quelle che abbiamo ereditato, giuste o sbagliate che fossero, hanno esaurito la loro capacità di leggere criticamente la società e di proiettare una proposta verso il futuro. Bisogna capirlo e, senza smarrirsi o arrendersi, dotarsi di valori inediti, di strumenti di analisi, di progetti, di partiti, di istituzioni per la società del XXI secolo.
Senza provarci e senza riuscirci diventa vuoto di significati lo stesso termine di “progressisti”: anch’esso non può essere rendita di posizione del passato o sua contemplazione, ma coraggio e voglia di misurarsi con le sfide del presente, per costruire un futuro degno, a misura della persona e dell’ambiente in cui viviamo.
P.S. Queste riflessioni sulle riforme ho finito di scriverle prima che la sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi provocasse nel Pdl agitazioni tanto forti da non far capire quale sarà la sorte non solo del governo Letta, ma della stessa legislatura. Solo per inciso è il caso di sottolineare la fragilità di un Paese che non ha per ora in sorte una destra europea, bensì un partito personale, nelle mani di un capo che antepone sé stesso e i suoi interessi alle leggi e alla Costituzione. È evidente che il percorso delle riforme ha necessità di un tempo – due tre anni – per poter giungere ad una sua conclusione. Se la legislatura dovesse concludersi al più tardi con le elezioni europee e amministrative del maggio 2014, dovremmo fare il possibile per dare all’Italia almeno una buona legge elettorale e magari la riduzione del numero dei parlamentari. Una ragione in più che conferma quanto ho sostenuto nelle pagine precedenti: non vi può essere una mediocre legge elettorale, con la giustificazione che sarebbe di garanzia e temporanea. Ci vuole una buona legge elettorale, come in tutte le grandi democrazie europee.
