Non è mai facile, in nessuna sede, ricordare una persona che non è più tra noi, dare in breve il senso della sua vita, senza scadere in retorica o indulgere a farne un’occasione per parlare un pò anche o soprattutto di noi stessi. Meno che mai lo è qui, nell’Aula del Senato, in un luogo del Parlamento dove la norma è il confronto, talora lo scontro politico, tra impostazioni legittimamente diverse, l’esame di provvedimenti di legge, di atti dei governi. Il rischio è quello di far diventare la morte qualcosa di ordinario, peggio di banale: invece la morte è un evento al tempo stesso personale e universale, di straordinario significato e rilievo, si sia o meno credenti in una fede religiosa; ci riguarda tutti, cancellando disuguaglianze, differenza di genere, di potere, ricchezza, razza, culture. Il nostro tempo, a differenza dell’antichità che ne faceva, almeno filosoficamente, la prova più grande per l’uomo, il fondamento generale del valore dell’esistenza di ognuno, e a differenza, qui da noi, dei secoli maggiormente improntanti dal cristianesimo, che ne fa la via d’accesso ad una vita più vera e piena, non più segnata dallo scorrere degli anni, il nostro tempo, dicevo, ha espulso la morte dalla dimensione collettiva, relegandola negli spazi più riservati e quasi nascosti degli affetti individuali e familiari. Questo esito non è legato ad un di più di rispetto, di condivisione, di partecipazione, ma ad una illusione di potenza, di un nostro controllo pieno sull’esistenza, sui quali [si deve] modellare il senso comune.
Sento perciò al tempo stesso il dovere di ricordare a noi tutti Umberto Carpi, di recente scomparso, un intellettuale insigne, eletto per due legislature – nel 1994 e 1996 – al Senato, sottosegretario al ministero dell’Industria, nel primo governo Prodi e nel governo primo D’Alema, poi, al termine dell’attività parlamentare, sindaco di Crespina, il Comune del pisano in cui abitava. E’ un dovere, perché è giusto sottolineare il suo contributo alla vita pubblica del paese, ancor più oggi quando un abisso sembra stratificarsi, dietro l’ombra di un rinnovamento colorito di improvvisazione, tra cultura, politica, istituzioni. E’ un dovere perché quali che siano le comunanze o le divergenze con chi ci ha lasciato, uno Stato che non serbasse la memoria e indicasse i meriti dei cittadini che si sono dedicati alla vita della nazione, non potrebbe ambire a nessun futuro degno. Al tempo stesso in me c’è un pò di trepidazione perché sento questo compito tutt’altro che facile. Umberto Carpi era per alcuni di noi un amico, con il quale esisteva una cordialità, consuetudine e intesa, al di là della stessa frequenza dei rapporti; ed era un compagno. Voglio usare e precisare – perché vera – questa parola, diventata espressione che caratterizza partiti e movimenti di sinistra, progressisti, sindacati: da noi è diventata quasi desueta, si pronuncia – se si pronuncia – con prudente cautela, accompagnata da altre, quasi per necessità di equilibrio politico – verbale. Togliete a questa espressione ogni curvatura di segno strettamente ideologico, andate alla sua radice etimologica: cum panis. Sta qui, nella condivisione addirittura del pane, l’espressione di una solidarietà piena, di una comunanza che si fa carico degli altri, di quanti con noi condividono la straordinaria esperienza della vita umana, non rassegnandosi a ciò che di ingiusto vedono, trovano, non negandosi al sogno e all’impegno per rendere il mondo migliore, per se stessi e per quanti verranno dopo di noi. Non cadendo in assolutismi, in verità da imporre ad ogni costo, in tragiche velleità di realizzare la società perfetta, ma non chiudendosi nell’egoismo, nel cinismo dell’indifferenza. So che prima di tutto Umberto avrebbe voluto essere ricordato così, nell’aula che fu anche sua come senatore: un compagno, un intellettuale che ha vissuto con valori e convinzioni da uomo di sinistra, capace di rispettare gli altri, quanti avevano valori e convinzioni diverse e lontane dalle sue. Umberto Carpi era nato a Bolzano nel 1941: andò a Pisa, per gli studi universitari, allievo della Facoltà di Lettere e Filosofia della Scuola Normale, e lì restò, lì ha trascorso la sua vita, è stato anche dal 1975 al 1980 Consigliere comunale, ha svolto – tranne un periodo a Roma, alla Sapienza, – la sua attività di docente di letteratura italiana, divenendo direttore dell’istituto e poi Preside della Facoltà. Tanto si era legato a Pisa che, per tutti quelli che lo conoscevano, il suo nome era “Paci”, come fin da piccolo lo chiamavano nella sua famiglia: lui stesso, rispondendo al telefono, si qualificava così, almeno con gli amici. Una caratteristica da sottolineare è stata dunque questa: la sua passione per gli studi, per l’attività di formazione di generazioni di allievi e l’impegno civile e politico. Un impegno vero e serio tanto che, come ho detto, terminata l’esperienza di senatore e sottosegretario, fece il sindaco nel suo piccolo comune di 3.700 abitanti, valorizzandone quella vocazione culturale che, a partire dalla seconda metà dell’800, ne aveva fatto un centro frequentato da artisti importanti come Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Telemaco Signorini, molti altri macchiaioli come Cannicci e Cecconi. Altro aspetto per me degno di nota e di una qualche riflessione è questo: professore di letteratura italiana, politicamente impegnato in parlamento e al Governo in settori come l’industria, il Commercio, il Turismo, l’energia. Non è proibito nella vita politica che un medico si occupi di salute pubblica, un urbanista di territorio e Lavori Pubblici, un insegnante di scuola, ma, a differenza che per i funzionari della Pubblica Amministrazione – per i quali esiste effettivamente un rapporto diretto tra competenza specifica e ruolo svolto – non è obbligatorio. Un ministro o un assessore non sono direttori generali del loro dipartimento: a quanti hanno responsabilità in politica è richiesto rigore, sforzo di approfondimento, di conoscenza – il dilettantismo è effimero e non produce niente di positivo per la società e nelle istituzioni – ma le attitudini richieste sono differenti, risultano legate all’esperienza, alla forza e chiarezza di un progetto, alla capacità di collegarvi energie, organizzarle, motivare le persone. Umberto Carpi svolse bene i suoi compiti in politica: aveva passione e acquisì una conoscenza profonda per i settori a cui venne delegato. Si impegnò sui temi dell’energia, sulla riorganizzazione delle reti di distribuzione dei carburanti, ricercò con determinazione, nei confronti con i petrolieri, equilibri più giusti che salvaguardassero i diritti dei consumatori. Prima, molto prima, da studente, era stato protagonista di una delle pagine più significative del movimento studentesco e del sessantotto, destinata ad avere influenza e ad essere uno dei riferimenti per i giovani anche venuti successivamente all’impegno politico, a partire dalla scuola e dall’Università: aveva collaborato alla stesura, nel febbraio del 1967, delle Tesi della Sapienza (dal nome del Palazzo, sede dell’Università pisana, occupato per protesta in occasione di un incontro nazionale dei Rettori). Il quelle tesi si trova una dura critica al sistema accademico italiano, ad una organizzazione del sapere divisa in compartimenti stagno; la proposta di Dipartimenti fondati sulla interdisciplinarietà e di una gestione democratica della vita accademica, capace di associare gli studenti ai processi decisionali. Vi era una lettura degli studenti come “forza lavoro in formazione” e l’appello perché venissero realizzate strutture organizzative rappresentative analoghe a quelle dei sindacati dei lavoratori. L’asse era quello di un collegamento tra lotte all’interno dell’Università e conflitti del lavoro al suo esterno: la classe operaia era posta al centro di ogni azione di trasformazione della società e si sosteneva l’esigenza di dar vita a “collegamenti organici” tra movimento studentesco e movimento operaio. Come è evidente non tutto quello che era nelle Tesi della Sapienza riesce a parlare al nostro presente, ma senza dubbio non si trovano in quelle impostazioni sostegni a assurde rivendicazioni successive, come quella del voto garantito, nè a cadute estremistiche che portarono rivoli non inconsistenti a militare nel terrorismo italiano. In quelle antiche impostazioni è fermo il valore della formazione, delle istituzioni universitarie e scolastiche; l’ottica e la prospettiva di un migliore funzionamento del sistema dell’apprendimento e della ricerca, di un accesso più ampio al sapere, oltre le condizioni di reddito che pesavano – ed ancora pesano – sul destino dei giovani. Se voi andate su siti internet e cercate alla voce “Umberto Carpi”, troverete la dizione “accademico e politico italiano”, e poi, in alcuni, “fu sempre vicino agli ambienti del PCI ed alle tendenze filostaliniste”. Vera la prima parte di questa espressione; incredibilmente falsa, vuota di fondamento la seconda. Umberto Carpi, con Cazzaniga, dette vita ad una mozione contraria al superamento del PCI e non aderì subito al nuovo partito. Ma la falsità a cui faccio riferimento è ben più profonda di una inesattezza che non si avvede che Carpi si ritrovò poi – dopo una fase con Rifondazione comunista – nei Democratici di Sinistra e con noi infine nel Partito Democratico. La falsità riguarda le “tendenze staliniste”, sbrigative e liquidatorie verso molti che non condivisero la nostra scelta di andare oltre il PCI e formarono altre organizzazioni; ingiuste e prive di fondamento nei confronti di Umberto, che – utilizzo le parole del Sindaco di Pisa – mantenne una sua impronta coerente nella capacità “di dialogare oltre gli steccati”, con una apertura intellettuale che si nutriva e arricchiva di generosità umana, passione per la cultura, attaccamento alla bellezza della vita. Ci fu nel PCI e poi nelle diverse posizioni contrarie al suo superamento, anche quella di un riformismo gradualista nella politica nazionale, ma preoccupato dei rapporti di forza internazionali e ancor più del rischio di uno smarrimento delle peculiarità che avevano segnato in positivo l’esperienza dei comunisti italiani. Con quelle impostazioni sul finire degli anni ottanta – permettete questo riferimento personale – ci scontrammo sul piano politico in modo anche duro e senza far venire meno rispetto e stima; poi con alcuni, non pochi, ci ritrovammo. Ma definire stalinisti personalità della cultura come Umberto Carpi, o su un altro piano Cesare Luporini, Nicola Badaloni, Aldo Zanardo, per fare qualche esempio, è non solo privo di senso, ma un’offesa alla verità. Un’ultima parola su quella che è stata una delle ragioni della sua vita: la passione per la letteratura. Si è occupato e ha scritto testi importanti sulle avanguardie del novecento: Belli, Leopardi, Montale, Carducci; ha studiato e pubblicato opere sui rapporti tra letteratura e politica quali Montale dopo il fascismo, Il poeta e la politica: Belli, Leopardi, Montale, L’estrema avanguardia del Novecento. Negli ultimi anni si è dedicato a lungo alla ricostruzione biografica e ideologica della personalità di Dante, recando apporti nuovi alla conoscenza del grande poeta, ad esempio con il volume La nobiltà di Dante. Nella sua ricerca letteraria un tema è fondamentale, quello legato alla analisi della società italiana. Carpi muove dal presupposto che nella società moderna lo scrittore sia “una figura sociale determinata” e che la sua produzione abbia un oggettivo valore politico. In particolare per Carpi il nesso poesia-politica caratterizzava la funzione sociale del poeta nell’ottocento, quando viene a definirsi un’ideologia e un orizzonte culturale strettamente connessi alla lotta del Risorgimento. L’analisi della collocazione sociale e dell’orientamento ideologico degli intellettuali è per lui strumento essenziale per comprendere la natura della loro stessa proposta letteraria. Con questo criterio leggerà la poetica di Leopardi e di Carducci. Così dalla mancata partecipazione di Leopardi all’impresa culturale del Viesseux e alla Antologia, Carpi faceva discendere un giudizio negativo riguardo al carattere progressivo della posizione e della produzione letteraria del poeta di Recanati. Questa sua ricostruzione lo portò a forti polemiche, già negli anni settanta, con Timpanaro e con lo stesso Cesare Luporini, autore di quel libro, Leopardi progressivo, che per tanti di noi è stato e resta basilare per una comprensione della riflessione e dell’opera leopardiana. Non è certo questa l’occasione per andare oltre negli approfondimenti della sua ricerca sulla letteratura, nè è questo il mio compito: basterà qui sottolineare che pesano nella sua valutazione gli atteggiamenti sulla formazione del nuovo Stato unitario, la missione civile della letteratura, la sua autonomia da altri condizionamenti e poteri, compresi quelli di natura religiosa; una visione, se si vuole un gusto, per la vita, nella sua immanenza, nella concretezza della sua esistenza. Umberto Carpi ha saputo affrontare con coraggio e dignità il male terribile che da oltre due anni lo aveva colpito. Ad un amico comune che gli aveva telefonato, pochi giorni prima della sua morte, per chiedergli come stava, dalla sua casa in campagna in cui aveva voluto ritirarsi, solo, per condurre la sua battaglia, aveva detto: “due anni fa diagnosticandomi il tumore, mi avevano dato pochi mesi di vita. Sono ancora qui e sto lavorando”. Lavorava, con la passione di sempre, attorno ad un intervento, che aveva ritrovato, di Togliatti nel 1954 sul tema della storiografia, in polemica con Arturo Colombi.
Questa volta però non ce l’ha fatta.
Si è spento. E ci manca già la sua intelligenza, vivacità, la sua passione. Il suo senso pieno della vita. La sua cultura e il suo impegno.
Come dicevo all’inizio, la morte è un nostro destino, un futuro comune. Non è possibile sottrarvisi: nelle nostre mani è come affrontarla. Affidato a noi è quello che di noi lasciamo agli altri, che di noi resterà, qui, vi sia oppure no qualcosa che va oltre la nostra vita, un dopo che supera la morte e che è più forte delle nostre stesse convinzioni. Umberto Carpi ha lasciato una traccia, un contributo che vanno oltre la cerchia dei suoi affetti, delle sue amicizie: di lui resterà l’impegno nelle istituzioni e il contributo alla conoscenza della nostra letteratura. Per questo, pur nella tristezza, gli siamo grati; il Senato gli rende onore; lo salutiamo ancora con amicizia e affetto. Siamo vicini con sincerità e amicizia ai suoi familiari.