Castiglioncello (LI)
14 luglio 2012

Mi sento davvero molto  onorato nel ricevere questo premio legato al nome di Giovanni Spadolini. Il prof. Ceccuti sa come sia rimasto all’inizio in dubbio nell’acconsentire.
I nomi di quanti avevano avuto questo riconoscimento e la stessa figura di Giovanni Spadolini – un protagonista di primissimo piano nella vita culturale e politica del nostro Paese – mi rendevano realmente incerto.
Le motivazioni di Cosimo Ceccuti – con il quale ho un rapporto sincero di stima e di amicizia -, un po’ di amor proprio, che non nascondo sia naturalmente presente anche in me, e soprattutto l’orientamento a fare di questo riconoscimento un motivo per cercare di impegnarmi ancora di più nell’affrontare i problemi del nostro Paese, mi hanno convinto ad accettarlo con profondo senso di gratitudine.
Mi ha sempre molto colpito un’affermazione del Presidente Kennedy, nel solenne momento in cui, come Presidente degli Stati Uniti,  giurava sulla Costituzione: «Non chiedete cosa possa fare il Paese per voi: chiedete cosa potete fare voi per il Paese» .
Questa impostazione oggi è ancor più necessaria, per tutti noi: vorrei dire in primo luogo per noi italiani e per noi europei.
Come italiani, ci induce a porre di nuovo al centro della nostra attenzione il senso del dovere, inseparabile dal legittimo godimento o aspirazione alla pienezza dei diritti. Di questo ci parla anche la lezione lasciataci da Giovanni Spadolini.
Riguardo alla inseparabilità tra diritti e doveri, ho in mente la riflessione di Aldo Moro, nella temperie di rinnovamento culturale, politico, di costume della fine degli anni sessanta del secolo passato, e nei rischi che già allora vi si presentavano, non minori delle potenzialità positive: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere» .

La società civile italiana soffre di diverse fragilità, radicatesi da molto tempo: l’indebolimento dei valori base della convivenza; la diffusione di un individualismo distruttivo; la competizione e l’ambizione personale portate alle estreme conseguenze, senza alcun riferimento alla legalità o a fondamenti etici che ne legittimino l’affermazione; il precariato nel campo del lavoro, cresciuto smisuratamente nel corso degli ultimi anni, che sta colpendo la fiducia nel futuro, in particolare delle giovani generazioni; oggi la forte riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto delle fasce popolari e dei ceti medi. Tutto ciò ha frammentato la nostra coesione e accresciuto l’insicurezza delle persone. Quello che abbiamo definito “berlusconismo”, e che va oltre un singolo uomo e una stagione politica, ha demolito l’etica pubblica, minato il principio del rispetto delle regole. Le stesse istituzioni dello Stato sono uscite indebolite, in primo luogo per la separazione dai cittadini, accentuata da quella pessima legge elettorale, ormai conosciuta come “porcellum”; per altro verso per il persistere troppo a lungo di norme avvertite ormai dall’opinione pubblica come privilegi non più sopportabili e solo tardivamente, in gran parte, superati; infine per la mancata conclusione di un serio percorso riformatore, che aggiornasse la Costituzione nella parte relativa all’organizzazione dello Stato, senza superficialità o incoerenze con la sua struttura e i suoi valori.
Rispetto ai tempi di Spadolini è venuta meno e non si è rinnovata una presenza dei partiti, indispensabili al corretto funzionamento della democrazia.
Per superare queste criticità dobbiamo tornare a ragionare sulla necessità di quella riforma intellettuale e morale, di cui ci parlarono, in epoche differenti, protagonisti diversi della storia italiana: da Mazzini a Gramsci, da Gobetti a Sturzo, solo per fare alcuni nomi.
Le semplificazioni giornalistiche degli ultimi anni, tendenti ad accreditare una contrapposizione netta e senza alcun legame, tra una società civile integralmente sana, corretta, vitale e una politica indifferenziatamente corrotta e malata, senza neppure più alcuna considerazione sui ruoli di maggioranza o opposizione e su come siano esercitati, ha allontanato – non avvicinato – la riforma intellettuale e morale della società e il rinnovamento dei partiti.
Perché nella società, non solo nei soggetti politici e nella rappresentanza sindacale e degli interessi, si trovano contraddizioni, cedimenti, difese corporative, indifferenza e insensibilità nei confronti dell’interesse generale, del bene comune.
Da qui, anche, si deve ripartire, ciascuno facendo il proprio dovere: singoli cittadini, associazioni, partiti, istituzioni politiche e religiose.
Abbiamo la necessità di costruire un minimo comun denominatore di valori fondato sulla Costituzione, il nostro “Vangelo laico”; sulla legalità; sulla indissolubilità – già richiamata – dei diritti e dei doveri; sulla moralità pubblica e privata; sulla laicità come distinzione tra compiti e autonomia dello Stato e ruolo e spazi, altrettanto autonomi, di religioni e culture, in una società ormai divenuta, anche da noi, pluralista per presenza di fedi, etnie, convincimenti filosofici. Un pluralismo fecondo, del quale non avere paura, purché fondato sul comune riferimento alla nostra Costituzione e sulla coerenza con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Sono questi riferimenti che, da un lato garantiscono la libertà di religioni e culture, dall’altro assicurano che per lo Stato democratico un cittadino non venga trattato in modo differente, non sia considerato diverso, a seconda che condivida una fede religiosa praticata dai più o minoritaria, se non abbia un convincimento religioso, se lo muti nel corso della sua vita, nel succedersi del tempo.
È questa – a me pare – l’idea di Italia che uomini come Giovanni Spadolini hanno saputo immaginare e delineare dedicando alla sua realizzazione il loro impegno civile e politico.

Ad un rinnovamento della società italiana, per superare le sue fragilità, deve accompagnarsi un rinnovamento della democrazia e delle istituzioni: nel XXI secolo, nel tempo della globalizzazione, le democrazie nazionali per esprimere pienamente la loro funzione nelle istituzioni, nei luoghi di lavoro, nell’insieme della società, hanno bisogno di realizzarsi anche in forme di democrazia sovranazionale. Qui da noi, voglio dire nel nostro Continente, abbiamo il compito di dare vita all’Europa Federale, di tradurre in politica concreta il sogno che ha animato grandi italiani, nel Risorgimento, nella Resistenza, nel dopoguerra: italiani celebri, da Mazzini a Cattaneo, da De Gasperi a Spinelli o ingiustamente meno noti come il nostro (nostro in senso di toscano) Giuseppe Montanelli.
La sfida sulla scena mondiale, oggi, non può avere come protagonisti i singoli Stati ma solo l’Europa unita. Ce lo conferma, ve ne fosse bisogno, la più stretta attualità: la crisi dei debiti sovrani, quella dell’economia reale e le drammatiche ricadute sul piano sociale non possono essere superate dai provvedimenti dei soli governi nazionali. Sono necessari un equilibrio – per ora assente – tra misure di rigore, di risanamento e politiche che sostengano l’avvio di uno sviluppo sostenibile, non di una crescita qualsiasi: occorrono solidarietà ed efficienza, politiche fiscali gradualmente comuni. È necessario un più avanzato traguardo di unità politica. Le singole nazioni devono trasferire quote di sovranità alle istituzioni europee e queste devono essere più vicine ai cittadini, attraverso una democratizzazione che renda il Parlamento europeo, fin dalla legge che presiede alla sua elezione, espressione della rappresentanza dei popoli dell’Unione, protagonista degli indirizzi e del controllo politico; al tempo stesso che faccia della Commissione il governo federale dell’Europa, invertendo la scelta alla rinazionalizzazione delle competenze europee, superando il metodo intergovernativo per le decisioni dell’Unione, causa non ultima delle difficoltà crescenti di questi nostri anni.
Colloco qui, perché in questo preciso orizzonte sono convinto che debba collocarsi, il tema della riforma delle istituzioni della Repubblica e degli aggiornamenti alla nostra Carta costituzionale.
In Italia la democrazia è ferita, quanto meno impoverita, dal troppo lungo discutere di riforme senza capacità di realizzarle; dal crollo di credibilità della politica; dal venire meno del senso delle istituzioni e della sobrietà che deve guidare chi sia chiamato a rivestire delle responsabilità.
Non ritengo che esistano più in questa legislatura le condizioni per rafforzare i governi parlamentari e  avviare una differenziazione di compiti tra Camera e Senato: nel momento in cui con quattro emendamenti si pretende di cambiare 13 articoli della Carta Costituzionale e di introdurre – senza alcuna partecipazione dei cittadini – il semipresidenzialismo, vengono meno le ragioni di affidabilità, prima ancora di serietà che consentono di intervenire sulla Costituzione. Perché la Costituzione non appartiene né ai partiti, né ai parlamentari, né allo stesso Presidente della Repubblica: è dei cittadini.
In essa sono contenuti non solo i valori, i princìpi di libertà, i fondamenti di un ordinamento democratico, ma gli obiettivi permanenti che consentono un’uguaglianza di opportunità di vita: il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, ad un ambiente vivibile, all’informazione, alla cultura. Tanto che Piero Calamandrei la definì la Carta della nostra dignità: si può dire anche dei nostri diritti e dei nostri doveri.
Ribadisco quanto più volte mi è capitato di sottolineare: ci si limiti in questa fase finale della Legislatura alla legge costituzionale che riduce il numero di deputati e senatori; si approvi una nuova legge elettorale che superi il “porcellum” e restituisca ai cittadini, con il potere di contribuire  a decidere le maggioranze di governo, quello di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento; si dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione, che riguarda ruolo e natura dei partiti e si porti a compimento la modifica dei regolamenti parlamentari.
Sarebbe già molto e soprattutto andrebbe nella giusta direzione.
Ancora una volta appaiono illuminanti e valide le parole di Giovanni Spadolini, nel suo intervento al Senato – era il 17 maggio del 1994 – sulle comunicazioni del Governo: «Dobbiamo rivedere la Costituzione, dobbiamo adeguarla alle esigenze di una democrazia funzionante, di una democrazia dell’alternanza ancora tutta da costruire. Parlamento vuol dire Governo forte. Ma dobbiamo farlo al di fuori di ogni tentazione di sovvertimento, di sconvolgimento dei principi che hanno presieduto alla costruzione della Repubblica, sul fondamento di legittimità del patto nazionale, punto di incontro tra primo e secondo Risorgimento».
Se è vero che occorre attribuire al Presidente del Consiglio maggiori poteri per guidare il Paese – come in Germania o Spagna – è altrettanto vero che questo aggiornamento della Costituzione va realizzato senza sovvertire i principi che stanno alla base della nostra Repubblica. In questi anni abbiamo assistito ad un indebolimento del ruolo del Parlamento. L’uso indiscriminato della questione di fiducia e della decretazione d’urgenza sono l’espressione più evidente dello squilibrio determinatosi nello svolgimento effettivo della vita politico-istituzionale. Rispetto a questa situazione lo stesso Governo Monti, non ha saputo, potuto o voluto introdurre elementi innovativi: ha anzi accentuato in modo macroscopico questa tendenza.
Senza considerare le ratifiche dei trattati internazionali, su 22 provvedimenti del governo Monti (20 approvati definitivamente e 2 in attesa di diventare legge) 19 sono decreti legge e 27 volte è stato chiesto il voto di fiducia. Inoltre i decreti legge approvati complessivamente dal governo sono ben 25.
Appare, sotto questo aspetto, un monito a noi tutti, da non archiviare con noncuranza, quanto Spadolini dichiarò in una intervista al Corriere della Sera del 9 agosto 1992: «il Parlamento può e deve diventare il centro motore del rinnovamento. Contrapporre il rinnovamento al sistema sarebbe l’ultima follia. La democrazia si fonda sulla continuità delle generazioni e degli sforzi. Non ci sono i rinnovatori, come tali, tutti da una parte, e i conservatori, come tali, tutti dall’ altra. Questo è uno schema falso, (…). C’ è una pianta del rinnovamento che può benissimo fiorire sul tronco degli alberi costituzionali. E rafforzarli e irrobustirli. Il rinnovamento è in primo luogo un fatto di coscienza. E la democrazia vive proprio sui dati di coscienza» .

Alla caduta della funzione primaria della politica hanno contribuito anche i partiti: qui vi è uno specifico italiano, al di là di difficoltà che incontra ovunque la forma partito.
Da noi non si è avvertito per tempo che un ruolo dei partiti, di sostegno fondamentale e anche di supplenza alle istituzioni della Repubblica,  nata dalla Resistenza, era venuto meno proprio per il consolidamento della democrazia e per il divenire la Costituzione sempre più un riferimento dei cittadini, del pluralismo culturale, politico, religioso, territoriale del Paese.
Le forze politiche, protagoniste nella prima fase di vita della Repubblica, non hanno saputo governare il necessario cambiamento. Al tempo stesso la divisione del mondo in due blocchi ideologico-militari contrapposti, che attraversò l’Italia, nel suo delicato ruolo di Paese di frontiera, rendendo impraticabile per quasi cinquant’anni una reale alternanza nei governi, produsse quella questione morale – con tanta forza denunciata da uomini come Enrico Berlinguer -, che segnò non solo casi di disonestà personale, ma meccanismi di ingerenza di partiti o loro componenti nella vita economica, negli appalti, nelle aziende di Stato.
Da questo tracollo nacque quella che è stata chiamata seconda Repubblica, fondata tuttavia non su una riforma delle istituzioni e della politica, ma prevalentemente su leggi elettorali, su una costituzione materiale che tende a prevaricare su quella scritta, su una caduta preoccupante di spirito pubblico, infine su un indebolimento e talora precarietà degli stessi partiti.
Voglio ancora citare le parole di Giovanni Spadolini contenute nell’intervista al Corriere della Sera: «non si tratta di confinare le forze politiche tradizionali in una specie di museo archeologico. Si tratta di far sì che i partiti italiani ritrovino la via che la Costituzione aveva tracciato per loro, una via troppo spesso abbandonata: quella di contribuire a determinare, con metodo democratico, la politica nazionale. Guidare la politica e non gestire le banche, le Usl, i teatri dell’opera, l’informazione tv e, perfino, in qualche caso, i giornali. Solo così riavremo il consenso dei giovani, che abbiamo perduto» .
Nei quasi vent’anni che sono alle nostre spalle si è assistito più che al rinnovamento dei partiti – e qui mi riferisco anche all’esigenza di costruire una nuova cultura politica  per i progressisti – al nascere e rapido morire di tante formazioni politiche, messe in campo spesso non per corrispondere a fondamentali innovazioni strategiche e al venire avanti di discontinuità storico-epocali, bensì alle esigenze o ambizioni di singoli protagonisti.
Dei partiti la democrazia ha bisogno, anche se non risiede più esclusivamente in essi la titolarità dell’agire politico: vi è tuttavia l’esigenza di partiti che siano presenti, magari contribuendo a rinnovarle culturalmente e organizzativamente, nelle famiglie politiche europee; vi è bisogno di costruire forze politiche realmente di tipo europeo; che si caratterizzino per processi decisionali effettivamente democratici.
Solo così si risponde a quanto la Costituzione affida ai partiti ed è per questo che occorre infine attuarne l’articolo 49.
Vi sono partiti che non hanno neppure svolto, nell’arco di tanti anni, i normali congressi: non è questa la strada da continuare a percorrere. Una forza politica che può accedere al governo del Paese, deve assicurare al suo interno trasparenza e partecipazione democratica.
Su questi aspetti deve esservi un’attenzione forte, non un’indifferenza, da parte della cultura, dell’informazione, dell’insieme della società: non sono preoccupazioni delegabili al solo contesto politico-partitico.
Devo rilevare invece che negli anni sono cresciuti disinteresse e disattenzione.
Ho concluso queste mie considerazioni: mi auguro che non sembrino orientate da tinte troppo scure. Ho cercato di vedere nel modo più realistico possibile la situazione della politica, dei partiti e della democrazia.
Non ha senso differenziarsi su stati d’animo di pessimismo o ottimismo: ha senso non cedere mai alla rassegnazione.
Ha senso compiere fino in fondo il proprio dovere, sempre.
Bisogna avere fiducia nell’Italia e nell’Europa: è possibile e giusto. Vedere i ritardi, le contraddizioni, i limiti, serve a impostare un’azione capace di superarli, a trovare le motivazioni, i valori, le forze in grado di riuscirci. A me è sempre piaciuta questa frase, molto lontana negli anni, di Aldo Moro: «Noi non vogliamo essere gli uomini del passato, ma quelli dell’avvenire. Il domani non appartiene ai conservatori e ai tiranni; è degli innovatori attenti, seri e senza retorica» .
Mi pare un buon programma, anche per questi nostri anni: essere innovatori attenti, seri, senza retorica e, aggiungo, demagogia.
Lo ritengo un approccio perennemente valido, per non essere indifferenti, per non essere assenti, per avere il coraggio di affrontare e vincere le sfide che abbiamo di fronte.