Ieri, a Castiglioncello, nel corso della cerimonia per il conferimento del premio che porta il nome di Giovanni Spadolini – ricevuto insieme a Gustavo Zagrebelsky – ho affrontato, nel mio intervento, un tema rimasto di strettissima attualità nel dibattito politico. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera del 9 agosto 1992, Spadolini affermò: «non si tratta di confinare le forze politiche tradizionali in una specie di museo archeologico. Si tratta di far sì che i partiti italiani ritrovino la via che la Costituzione aveva tracciato per loro, una via troppo spesso abbandonata: quella di contribuire a determinare, con metodo democratico, la politica nazionale. Guidare la politica e non gestire le banche, le Usl, i teatri dell’opera, l’informazione tv e, perfino, in qualche caso, i giornali. Solo così riavremo il consenso dei giovani, che abbiamo perduto».

In Italia non si è avvertito per tempo che un ruolo dei partiti, quello  di sostegno fondamentale e anche di supplenza alle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza, era venuto meno proprio per il consolidamento della democrazia e per il divenire la Costituzione sempre più un riferimento dei cittadini, del pluralismo culturale, politico, religioso, territoriale del paese. I partiti protagonisti della prima fase di vita della Repubblica non hanno saputo governare il necessario cambiamento. Al tempo stesso la divisione del mondo in due blocchi ideologico-militari contrapposti, che attraversò l’Italia rendendo impraticabile per quasi cinquant’anni una reale alternanza nei governi, produsse quella questione morale, denunciata con forza da Enrico Berlinguer, che segnò non solo casi di disonestà personale, ma meccanismi di ingerenza di partiti o loro componenti nella vita economica, negli appalti, nelle aziende di Stato.

Da questo tracollo nacque quella che è stata chiamata seconda Repubblica, fondata tuttavia prevalentemente non su una riforma delle istituzioni, ma su leggi elettorali, su una costituzione materiale che tende a prevaricare su quella scritta, su una caduta preoccupante di spirito pubblico, infine su un indebolimento e talora precarietà degli stessi partiti.
Nei quasi vent’anni che sono alle nostre spalle si è assistito, più che al rinnovamento dei partiti, al nascere e rapido morire di tante formazioni politiche, messe in campo spesso non per corrispondere a fondamentali innovazioni strategiche, a discontinuità storiche bensì ad ambizioni di singoli protagonisti.

Dei partiti la democrazia ha bisogno, anche se non risiede più solo in essi la titolarità dell’agire politico: vi è tuttavia l’esigenza di partiti che siano presenti, magari contribuendo a rinnovarle culturalmente e organizzativamente, nelle famiglie politiche europee; che si caratterizzino per processi decisionali realmente democratici.
Vi sono partiti che non hanno neppure svolto, nell’arco di tanti anni, i normali congressi. Una forza politica che può accedere al governo del Paese, deve assicurare trasparenza e partecipazione democratica nella sua vita interna.
Solo così si risponde a quanto la Costituzione affida ai partiti.
Attuarne l’articolo 49 e approvare una legge elettorale che cancelli il porcellum – dopo il dimezzamento del finanziamento pubblico ai partiti – sono prossimi passi da compiere.