La riforma del lavoro è importante per l’Italia e decisiva per il Pd. Nessun partito di sinistra, neppure nuovo nella cultura e nei valori, può esistere senza un riferimento fondamentale al mondo del lavoro e al sindacato.
È importante una riforma dell’art. 18 che lo aggiorni ma non lo abolisca. È giusto che il giudice – come avviene in Germania – possa reintegrare, togliendo l’obbligo del solo indennizzo, anche i lavoratori licenziati sulla base di motivazioni economiche. Dietro queste ultime, anche quando si verifichino come fondate, può sempre nascondersi una scelta discriminatoria.
Anche se mi costerebbe un’intima sofferenza, confesso che al di fuori di questo esito non mi sentirei di esprimere un voto favorevole. Non condivido la retorica che si è fatta contro l’art. 18, qualificandolo come un simbolo arcaico e ininfluente. I simboli hanno un peso e l’art. 18 garantisce il valore di ogni persona nei processi produttivi. Se davvero è insignificante, non si capisce perché la destra da un decennio cerchi di abbatterlo.
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori rimanda a valori fondanti della Costituzione e del modello sociale europeo. All’art. 1 la Costituzione afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Si parla di lavoro, senza distinguerlo in autonomo o dipendente. Quello che si richiede è un equilibrio tra potere degli imprenditori e ruolo dei lavoratori. Sta ovviamente alle leggi, ai rapporti che si stabiliscono nella società far sì che quell’equilibrio si realizzi. Negli ultimi anni si è assistito ad un indebolimento del lavoro dipendente: la Costituzione tuttavia resta un faro e indica obiettivi permanenti da raggiungere.
Non si può snaturare la Costituzione, facendole di fatto affermare che l’Italia è una Repubblica fondata sull’impresa. Naturalmente, le nuove regole sul lavoro dovranno essere valutate anche sull’universalità degli ammortizzatori sociali, sul superamento del precariato, sulla cancellazione della vergogna delle dimissioni in bianco. È singolare che si voglia contrapporre da parte delle destre i giovani ai lavoratori più anziani. Esiste un reale dualismo nel mondo del lavoro: si sono ampliate le divisioni non solo tra giovani e anziani, ma anche tra donne e uomini, pubblico e privato, aree del Paese, italiani e immigrati. La politica progressista e gli stessi sindacati devono costruire prospettive che riavvicinino. La sinistra non può imboccare vie che conducano giovani e meno giovani, ad una riduzione o assenza di diritti e alla precarietà. Sarebbe paradossale introdurre in Italia, con il nostro consenso, un mercato senza regole, mentre in altre parti d’Europa le forze progressiste discutono della crisi dell’attuale sviluppo capitalistico e di come impostarne una nuova fase. Il modello sociale europeo va ripensato e rinnovato, non liquidato.
Il futuro dell’Italia e dell’Europa non risiede in un’economia che riporti i lavoratori ad una subalternità senza diritti: la rivoluzione informatica esige un di più di partecipazione. L’Italia deve costruire forme di democrazia economica, come esistono in altri paesi. La democrazia si impoverisce e vanifica, se si arresta ai cancelli delle fabbriche. Occorre rifiutare le mode che nascondono le persone in carne ed ossa dietro stereotipi che cancellano bisogni e dignità: ieri erano gli esuberi, oggi gli esodati. Non si ha a che fare con delle cose, ma con persone portatrici di diritti e aspirazioni. La sinistra deve saper guardare alla persona, promuoverne autonomia e dignità senza mai sacrificarla a tatticismi o convenienze del momento.