30 marzo 2012
Senato della Repubblica, Sala Capitolare
In occasione del 97° compleanno di Pietro Ingrao
L’alta febbre del fare
Democrazia e lavoro nel nuovo secolo
Ringrazio il Centro Riforma dello Stato per l’invito che mi ha rivolto ad essere presente a questo incontro. Sono contento di partecipare insieme a voi ad una iniziativa che si tiene in occasione del 97° compleanno di Pietro Ingrao. Il mio saluto in questa circostanza non vuole essere per niente formale.
Pietro Ingrao rappresenta una voce importante nella politica, nella cultura e nella vita istituzionale e civile del nostro Paese. Ma, insieme a questo, è un riferimento significativo nell’esperienza di tutti noi, anche se sono ormai trascorsi tanti anni dai primi incontri con lui, quando ancora molto giovani, iniziavamo il nostro impegno in politica.
Un primo aspetto che viene in mente guardando a Pietro Ingrao è la sua coerenza e il suo rigore: non è il solito modo di dire. È stato sempre così. Voglio fare un solo esempio, piccolo nella sua importanza, ma che fa parte della mia esperienza personale. Ricordo lo stupore di autorevoli dirigenti regionali toscani dell’allora Pci, quando in occasione di una conferenza programmatica provinciale, nell’autunno del 1972, si trattenne per tre giorni a Pistoia, non perdendo un solo intervento. Mi pare che anche questa semplice esperienza sia espressione di un modo serio di intendere la politica e di un sentimento di grande rispetto nei confronti degli altri. Quello che tuttavia rimane più impresso, almeno in me, se guardo alla lezione – in verità non facile da seguire – che viene da Pietro Ingrao, è la ferma, vorrei dire assoluta, fedeltà alle proprie idee. È qualcosa di più di una semplice coerenza: è la volontà di dare battaglia per le proprie impostazioni, perché si ritengono quelle giuste e dunque da affermare. Al tempo stesso Ingrao piuttosto che sacrificare o confondere le proprie convinzioni, ha sempre preferito rinunciare ad una momentanea vittoria. È una lezione questa che assume ancor più valore in questi nostri anni, abituati ormai in ogni campo della vita della società – dall’economia alla politica, dalla cultura addirittura allo sport – a far coincidere il valore esclusivamente con il successo del momento.
La scelta di approfondire, in occasione del compleanno di Pietro Ingrao, i temi della democrazia e del lavoro, è quanto mai opportuna, non solo per la riflessione che Ingrao vi ha dedicato nel corso della sua attività, ma per il peso che hanno nell’attualità. Il lavoro, per quanto non più avvolto da veli talora ideologici che ne facevano un momento totalizzante, rappresenta il fondamento dell’autonomia, della creatività e della dignità di ogni persona. Vorrei sottolineare come Pietro Ingrao usi spesso, in alcuni suoi scritti, termini quali dignità e potenzialità di ogni persona, che si ritrovano anche nel linguaggio della dottrina sociale cattolica: richiama alla nostra attenzione – semmai ce ne fosse bisogno – quali possano essere i temi e i campi fondamentali di un incontro non episodico o strumentale tra componenti progressiste, anche di diversa ispirazione ideale.
Oggi verranno letti una poesia e alcuni stralci del pensiero di Ingrao sul lavoro che ben sottolineano l’importanza che questo tema ha per lui. Il lavoro, i lavoratori, nei vari campi, dalla produzione alla cultura, ai servizi rappresentano il cuore non solo del suo ragionamento politico-ideale ma del suo sentire. Del resto, ancora oggi, è semplicemente inconcepibile una forza progressista e di sinistra sradicata dai temi del lavoro.
La nostra Costituzione – non invecchiata ma attuale nei suoi valori e impostazione e confermata dal popolo italiano quasi 60 anni dopo la sua entrata in vigore con il Referendum del giugno 2006 – ci dice al suo primo articolo che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Il lavoro dunque per la Costituzione è un valore da tutelare e garantire. Per Ingrao vi è un legame profondo tra queste parole scritte dai Padri Costituenti, gli operai e i lavoratori, che le incarnano nel loro impegno quotidiano, in quell’alta febbre del fare che percorre le nostre città. Oggi ancor più di ieri, visto l’esplodere di tante forme di attività, spesso neppure regolate, ma rese necessarie dalla difficile difesa di un tenore di vita dignitoso per tante famiglie. Per Ingrao non c’è distanza tra le aule parlamentari e i capannoni delle fabbriche, vero presidio della democrazia, primo luogo di dialogo e di difesa dei diritti. Parole come “compagno” e “solidarietà” si ergono come pilastri in un mare di egoismo. Come scrive lo stesso Ingrao ne La civiltà dell’indifferenza.
La democrazia non può essere vitale ed efficace se si arresta alle porte dei luoghi di lavoro, se non sa investire i processi dell’economia, dando regole al mercato. Se questo non avviene – ed è la minaccia che sfida il cosiddetto mondo globale – la democrazia stessa si impoverisce e rischia di diventare una semplice tecnica organizzativa delle istituzioni, con tendenze all’autoreferenzialità.
Vanno non solo contro i lavoratori, ma contro principi fondamentali della democrazia, politiche aziendali che reprimano il dissenso nelle fabbriche. Per questo è nostro dovere contrastarle. L’ostracismo imposto dalla Fiat nei confronti degli iscritti Fiom è il caso più noto, ma non il solo, nelle grandi come nelle piccole aziende.
La responsabilità di scelta da parte dei manager non può significare lasciare campo libero alla violazione dei diritti costituzionali dei cittadini, quando con il lavoro quotidiano realizzano le condizioni di autonomia e dignità della loro vita, contribuendo al tempo stesso al progresso della società e dell’impresa.
In questi giorni è un tema di attualità il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che il governo si appresta a presentare in Parlamento. Già questa espressione, ormai accettata, “mercato del lavoro” considero che sia sbagliata da un punto di vista della cultura progressista: di fronte a noi ci sono regole che riguardano diritti e responsabilità di donne e uomini in carne ed ossa, non semplici oggetti di uno scambio all’interno delle logiche del mercato. Il provvedimento dovrà essere valutato non solo in riferimento all’art.18, ma al tempo stesso in relazione alle misure che conterrà per rendere realmente universali gli ammortizzatori sociali; per il superamento del precariato che sta togliendo fiducia nel futuro, in primo luogo alle ragazze e ai ragazzi del nostro Paese; per impedire la vergogna delle dimissioni in bianco.
Ancor più in un periodo di crisi, di mancanza di prospettive per l’occupazione non si può procedere con teorie – oltretutto già fallite – che esprimono visioni di un mercato senza regole e il rifiuto di un confronto e di ogni forma di mediazione, che rappresentano invece la ragione d’essere della democrazia.
Trovo singolare il bombardamento anche mediatico che viene fatto sull’art. 18 come un semplice e ormai inutile simbolo, la cui abolizione modificherebbe poco nella vita dei cittadini italiani: fosse davvero così, non si capirebbe perché le forze conservatrici da quasi un quindicennio sprechino tante loro energie per tentare di abbatterlo. A parte il fatto che anche i simboli hanno spesso un valore e orientano la vita e le aspirazioni delle persone, qui si tocca qualcosa di ben più profondo: la conquista di garanzie e di diritti della persona che lavora. Non è dunque indifferente l’esito che ne deriverà. Al momento costituisce un primo risultato positivo l’aver evitato che si procedesse con un decreto legge che avrebbe nei fatti impedito un reale confronto in Parlamento.
Esiste certamente – ed è una realtà negativa, da affrontare sia a livello politico che sindacale – un dualismo nel mondo dei lavori, divisioni e frammentazioni che hanno separato i lavoratori delle fabbriche da quelli del pubblico impiego, i precari da chi ha un’occupazione stabile. La via d’uscita non è tuttavia a senso unico: il risultato può essere quello di una stagione con maggiori diritti per tutti o di un arretramento brutale e generalizzato.
Raccogliere le sfide della modernità, fare i conti con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione, dai profondi mutamenti nel campo delle attività produttive, introdotti dalla rivoluzione tecnologica e informatica, è una necessità per le forze progressiste. Non tutto nella tradizione della sinistra resta valido, spesso devono cambiare almeno gli strumenti con i quali si da’ concretezza ai grandi sistemi di valore. Esiste però un confine netto e invalicabile: non è possibile far pagare il prezzo della modernità ai lavoratori, non è accettabile che in nome della globalizzazione si colpiscano e si riducano diritti fondamentali, che sono parte integrante della stessa democrazia; che si rinunci ad obiettivi di uguaglianza e di giustizia sociale.
È dunque un compito irrinunciabile delle forze progressiste quello di contrastare la precarietà. Nell’ultimo decennio anche in Italia si sono diffuse forme di lavoro che possiamo definire a pieno titolo “schiavitù del terzo millennio”. Mi riferisco in particolare a milioni di precari, giovani ma non solo, costretti a fingersi soci di attività commerciali, autonomi a partita iva o contrattisti a progetto e che invece sono lavoratori subordinati a tutti gli effetti, privati di tutte le tutele che spetterebbero loro e che percepiscono uno stipendio esiguo in cambio di lunghe giornate di lavoro. Ad essi vanno aggiunti lavoratori – spesso donne e giovani – al nero e la nuova platea degli immigrati: questi ultimi, in assenza a volte di tutele sindacali, sempre dei diritti civili e politici, possono dar luogo nelle nostre società a nuove forme di apartheid. Si tratta di situazioni inaccettabili, che offendono la dignità dei lavoratori e minano la coesione sociale e diritti di cittadinanza.
La difesa dei diritti è e dovrà essere sempre il cuore dell’impegno delle forze progressiste. Pietro Ingrao, il 5 luglio 1976 – nel suo discorso di insediamento alla Presidenza della Camera – sottolineò come le soluzioni individuate per affrontare i problemi del Paese non potessero prescindere da una maggiore partecipazione delle classi lavoratrici alla vita democratica. Queste parole dimostrano quanto sia attuale un pensiero espresso ormai quasi 36 anni fa.
Un’ultima considerazione.
Riflettere sulla esperienza umana e politica di Pietro Ingrao ci riconduce anche alla mente la necessità di un compito, al quale siamo mancati, pur con gradi di responsabilità diversi, negli scorsi decenni. Resto convinto che il superamento del Pci e la costruzione di un partito nuovo della sinistra, che allora differenziò le strade di molti di noi, fosse giusto e ineludibile. L’impostazione che doveva sorreggere questo processo è stata talora non all’altezza, ma soprattutto resta un errore che continua a pesare sul presente: non aver fatto politicamente i conti con la sua esperienza, quasi assecondando una sua cancellazione dalla storia italiana. L’aver permesso questa sorta di sparizione, così come per altro verso – da parte di altri protagonisti – quella di altri grandi partiti della prima fase di vita della Repubblica, ha favorito, in un presente privo di memoria, l’affacciarsi e l’affermarsi di forze politiche senza legami con fasi decisive della vicenda italiana come la Resistenza, la Costituzione, le lotte per l’emancipazione sociale e civile. Il Pci commise certo errori, alcuni di grande spessore, come il ritardo nel valutare criticamente e prendere con decisione le distanze dall’esperienza del cosiddetto socialismo reale. Lo sforzo per collocare su posizioni nuove l’intero mondo del lavoro e dei ceti popolari, che facevano riferimento al Pci, era un compito fondamentale della direzione politica, ma non sufficiente a giustificare incertezze, contraddizioni e troppi indugi. Ma il Pci non fu soltanto questo e la sua esperienza e le sue battaglie per la promozione, l’avanzamento democratico e sociale dei cittadini italiani non possono essere messe tra parentesi.
Fin quando i conti non saranno fatti anche da un punto di vista storico-culturale, sarà fragile una rinnovata presenza, auspicabilmente unitaria, delle forze progressiste e di sinistra in questo Paese e risulterà marginale il loro contributo ad un rinnovamento della sinistra europea. Oggi mancano non solo le sedi comuni per questa ricostruzione storico-politica, ma anche per approfondire temi di grande rilievo come la natura e lo spessore della crisi che ci colpisce; le priorità per uscirne attraverso un profondo cambiamento di valori e programmatico e l’avvio di uno sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile; la necessità di un rinnovamento della democrazia, non solo nella dimensione – importante ma insufficiente – degli Stati nazionali ma per noi su scala europea, attraverso la costruzione di una democrazia sovranazionale, una vera e propria Europa federale.
I partiti – è una constatazione, non un giudizio – vivono ormai nella sola dimensione del governo: per questo occorrono sedi non episodiche in cui si ricostruisca, attraverso un confronto libero, una cultura progressista all’altezza delle sfide del XXI secolo.
Pongo questo tema all’attenzione del Centro della Riforma dello Stato perché potrebbe dar vita esso stesso ad una sede comune per questi approfondimenti e confronti. Del resto questa era stata già tanti anni fa una funzione che Ingrao aveva affidato al Centro per la Riforma dello Stato: sui temi della democrazia si misuravano non solo opinioni e riflessioni di dirigenti autorevoli del Pci e di altre forze di sinistra, con intellettuali, ma anche con esponenti di generazioni più giovani, non necessariamente iscritti ad un partito. È quindi un compito al quale il Centro potrebbe continuare ad assolvere in una fase complessa di mutamenti, di sfide, ma anche di potenzialità, per me soprattutto legate alla costruzione di un comune orizzonte di valori e di obiettivi programmatici fondamentali tra le forze progressiste in Europa.
Concludo con questo auspicio il mio saluto augurando di cuore Buon Compleanno Pietro!
Vannino Chiti