Trascrizione intervento Vannino Chiti, Vice Presidente del Senato
Pistoia – Presentazione libro “Religioni e politica nel mondo globale”
31 maggio 2011

Prima di tutto un ringraziamento sincero a Giancarlo Niccolai e al centro Donati che hanno organizzato questa presentazione. Un ringraziamento a tutti voi che siete qui e a quelli che sono da questa parte del tavolo: a Monsignor Mansueto Bianchi, al sindaco Renzo Berti, a Michele Ciliberto, a Luciano Violante e a Luca Collodi che coordina questo nostro dibattito.
Con Collodi abbiamo fatto il primo confronto proprio a Radio Vaticana, ma questa è la prima presentazione pubblica del mio ultimo libro e sono contento che avvenga proprio a Pistoia, la mia città.
Perché il libro? Monsignor Bianchi, da una parte, e Michele Ciliberto, dall’altra, forse hanno contribuito a togliere un velo. A volte, per scelta, per carattere si esita a dare nomi precisi a stati d’animo, sentimenti che ci muovono. In questo libro forse c’è davvero il senso di una esperienza mia personale, il senso dell’esperienza di una vita. E questo, almeno da due punti di vista. Da una parte perché su tutti i temi- ma su questo in particolare – io sento molto il peso del dubbio, dell’inquietudine, l’ansia di una ricerca, di un confronto, di un dialogo vero. La mia convinzione è che certezze assolute non ne esistano. Possono esserci delle convinzioni, ma è un’altra cosa. Ci si avvicina alla verità: non si padroneggia e il dubbio stimola anche se, a volte, mette ansia. Magari i miei amici diranno che a me mette soprattutto ansia, però vi assicuro che mi stimola anche. Questo è un aspetto, l’altro è che io penso che non soltanto la politica – e per questo negli ultimi tempi io provo momenti di disagio, perché a volte nel confuso vocio di contrapposizioni continue, capita di sentirsi estranei – ma la vita sia dialogo, proprio perché sono convinto che in qualsiasi confronto, anche il più lontano dalle mie posizioni, possa esserci un elemento che, ascoltandolo bene, mi dà una sollecitazione, o contiene qualche aspetto positivo, di verità. Il dialogo non è una esperienza semplice perché, se è un dialogo vero, ognuno sa come ci entra ma non sa come ne esce.
Questo è un po’ l’humus che sostiene la costruzione del libro. In esso ci sono tutti gli aspetti che Michele Ciliberto richiamava e che sono frutto di una mia formazione e di un confronto portato avanti con tante voci, nelle fasi diverse della mia esperienza, ma, spero, con questo aspetto di continuità nel metodo.
Il dibattito ha messo a fuoco quello che volevo dire con il libro. Io penso che oggi ci misuriamo con una fase nuova della storia del mondo e che niente sia scontato. Si è di fronte a quello che chiamiamo mondo globale come ha detto giustamente, con una sintesi molto efficace, Luciano Violante. In effetti, il mondo globale ci dà sì grandi potenzialità, ma anche un ribaltamento completo del rapporto tra mercato e stato, e quindi anche tra mercato e politica. Il che vuol dire che non soltanto esiste il problema, che richiamava il sindaco Berti, di come facciamo funzionare – e ad oggi non abbiamo risposte adeguate – gli strumenti di governance democratica a livello internazionale. Questa è una grande e urgente questione, ma noi non siamo neppure sicuri, anzi, il contrario – e lo sottolineava Luciano Violante – di come i diritti umani che affermiamo vengano salvaguardati, affermati ovunque. Infatti, torniamo a parlare di schiavitù, ci sono in tanti paesi torture, repressioni. Si, ad oggi, agli inizi del XXI secolo, non siamo ancora in grado di tutelare i diritti umani. Io sono convinto, per parlare di un tema che ci appassiona molto, che ci possano essere operazioni di polizia internazionale: dove ci sono dei diritti umani calpestati, si metta a rischio l’esistenza di minoranze etniche o vengano compiute delle stragi. Devono però essere in modo rigoroso operazioni di polizia internazionale. Ad esempio, se nel nostro paese c’è una rapina in una banca e vengano magari presi degli ostaggi, ognuno capisce che si deve intervenire, che forse ci possono volere anche delle ore o dei giorni, che si possa talora avere una perdita di vite umane, ma è difficile pensare che per una operazione di questo tipo ci possano volere degli anni, si possa radere al suolo la città o la regione in cui si trova quella banca. Il fine non giustifica i mezzi: il fine deve essere “buono” e i mezzi coerenti, giusti. Le vicende, che in questi mesi viviamo, della Libia e della Siria, dimostrano i nostri limiti.
Non riusciamo a venire fuori dalla situazione della Libia e, come ricordava in questi giorni Romano Prodi, spendiamo ogni mese, per i bombardamenti, quanto sarebbe necessario per contribuire al sostegno e alla ripresa di uno sviluppo in Egitto e Tunisia. Al tempo stesso fingiamo di non vedere e comunque non muoviamo sostanzialmente un dito nei confronti della Siria, dove una dittatura altrettanto spietata di quella al potere in Libia, fa uccidere a migliaia i cittadini che si oppongono al regime. Per me è necessario non solo compiere svolte politiche, riformare l’Onu, dar vita a relazioni internazionali fondate sul rispetto, ovunque, dei diritti umani: è indispensabile, anzi una pre-condizione, ricostruire dei valori comuni, edificare una nuova etica mondiale. Questo intendo quando parlo di un nuovo umanesimo.
A Michele Ciliberto non piace questo termine, ma la sostanza per me è questa: porre al centro la persona, la sua dignità, considerarla nelle sue molteplici dimensioni, nella sua complessità. Questo significa che nella persona ci sono anche dei bisogni e delle domande non tutte immediatamente riconducibili allo schema dell’empiricità. Certamente si possono dare le risposte più diverse, ma esistono delle domande, quelle che riguardano la nostra origine, il dopo – se c’è un dopo – la fine della nostra vita, che non sono banali per dare un senso alla nostra esistenza. Riunificare concettualmente la pluralità delle dimensioni della persona è una esigenza forte di una rinnovata cultura umana, cioè per l’uomo, non contro l’uomo.
A questo bisogno alcuni danno una risposta religiosa, altri no: l’importante è che si riconosca la pluralità delle dimensioni della persona, che si avverta la stessa trascendenza di ogni essere umano come fondamento della sua libertà e dignità, e non come una superstizione destinata ad essere superata con le conquiste della scienza e della tecnologia. E’ molto importante – e nel libro è un aspetto fondamentale – anche il senso del limite che deve accompagnarci nella verifica del progresso, non della libertà di ricerca ma dell’attuazione della ricerca, in tutti i campi della vita.
Sono stato colpito da alcuni elementi significativi e ricorrenti in aree di quello che consideriamo sud del mondo. Dal punto di vista della ricerca, sia religiosa che culturale, il tema della persona, dello sviluppo e del rischio che l’attuale modello di crescita fa gravare sull’ambiente è molto più presente di quanto lo sia nel nostro dibattito sia politico che culturale; non soltanto in Italia ma anche in Europa. Lo richiamava anche il sindaco: l’Europa rischia di smarrire il senso della sua identità e della sua funzione.
Ecco, io penso che questo orizzonte di valori e di nuova cultura di vita, di lavoro, di progresso, sia il nuovo umanesimo e, rispetto a questo obiettivo, ritengo che sia indispensabile il contributo anche delle religioni. Naturalmente questo contributo non è scontato. Può esserci, se le religioni si pongono questo problema, se cioè una religione vuole spendersi, nella sua autonomia, per dare il suo apporto a migliorare la “città dell’uomo”; se viene assunto come fondamentale il dialogo interreligioso; se – come tante volte ha sottolineato l’attuale pontefice Benedetto XVI – si rifiuta l’intolleranza, la violenza e di essere utilizzati come armamentario ideologico per scontri di civiltà. Le religioni, nel nostro tempo,debbono assumere, come proprio valore, il pluralismo, lo Stato di diritto, la laicità. Dal versante della politica, per rendere possibile questo dialogo e un contributo delle religioni all’affermarsi di una nuova e più alta civilizzazione umana, deve esserci non solo rispetto e attenzione, ma valutazione della positività della esperienza religiosa, ben oltre dunque un riconoscimento della sua legittimità; e in Europa la capacità di dar vita ad una “diversa” secolarizzazione, in grado di fare i conti con il diritto delle religioni di non essere confinate nella sola dimensione privata.
L’impostazione di Alexis de Tocqueville si afferma negli Stati Uniti e non in Europa, tant’è che in Francia viene sconfitta.
In un contesto profondamente cambiato, oggi un filosofo contemporaneo, Jϋrgen Habermas, riflette e ci interroga su queste tematiche. La democrazia e la laicità hanno tutto da guadagnare se nella società, ad opera della stessa politica, si avrà il riconoscimento di una dimensione non solo privata, chiusa nel segreto dei cuori, delle fedi religiose. Questo approdo si realizza all’interno di quei valori costruiti dall’illuminismo e attraverso cui, anche se con fatica, il cristianesimo è passato. Sono i valori del pluralismo e della laicità.
L’esito sarà quello di un arricchimento, non di un impoverimento. Le forze progressiste dovrebbero prendere in mano con forza questi valori, porsi questi obiettivi. Ciò non significa – mi pare evidente – che le posizioni assunte volta volta da vescovi, o imam o rabbini o da chiese cristiane debbano imporre quella linea allo Stato. Ma quelle posizioni sono legittime, non una interferenza: sono lo Stato e la politica poi che devono saper fare la loro parte. Io ritengo questo aspetto fondamentale e penso che l’Europa potrebbe dare, in questo campo dei rapporti tra Stato, culture e religioni, un contributo che influenzi positivamente anche il mondo islamico.
Mi ha molto colpito, quando scrivevo il libro – anzi, ha inciso come spinta per scriverlo -, un fenomeno che ho incontrato e che si chiama ‘Teologia islamica della Liberazione’. Un fenomeno – probabilmente ancora limitato dal punto di vista del peso culturale e politico – che ha preso come suo esplicito riferimento la ‘Teologia cattolica della Liberazione’, soprattutto come orientamento a non vivere la religione come “oppio dei popoli”, secondo una celebre espressione di Marx, bensì come motivazione forte ad occuparsi della persona, cosi come è, della società, delle ingiustizie profonde che continuano a dividerla e spaccarla. Gli esponenti della Teologia islamica della Liberazione si collocano apertamente nel campo progressista e dicono a tutti noi: guardate che noi non siamo d’accordo a stare in politica rinunciando o semplicemente nascondendo le nostre convinzioni religiose. Noi vogliamo avere legittimità a stare con voi, rivendicando le nostre “motivazioni di fede”. Inoltre, ci dicono – e questo mi ha colpito – che già negli anni della guerra fredda questo aspetto è stato un punto grande, forse il più grande, di incomprensione e divisione con la sinistra europea. Per quanto riguarda il mondo islamico, le questioni sono di tipo diverso, perché è vero che nella gran parte dei paesi a prevalenza islamica i conti con l’illuminismo non sono stati fatti del tutto o addirittura non sono stati fatti per niente. In quei paesi, in primo luogo, bisogna costruire una reciproca autonomia tra la politica, lo Stato e la religione, anzi le religioni. Questo è nell’interesse anche della religione, di ogni religione, non soltanto nell’interesse della politica. È fondamentale determinare ovunque il riconoscimento del pluralismo religioso. In quei paesi spesso si riconosce la libertà di culto, spesso si riconosce alle religioni minoritarie il diritto a un’esistenza, ma a un’esistenza non paritaria, non si afferma cioè l’uguaglianza nei diritti di cittadinanza. Questi temi occorre sollevarli perché l’uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato, quale che sia la cultura, l’etnia, la religione di ognuno, è fondamentale per una società democratica: qualifica anzi lo spessore reale di una democrazia. Questi valori sono giusti per tutti, non per i cristiani, o per i musulmani, o gli ebrei etc. Sono giusti per costruire un mondo migliore. E’ evidente che lo stesso spazio pubblico delle religioni, senza laicità e pluralismo delle fedi e delle culture, determinerebbe un esito ben diverso e non più positivo.

DOMANDA: “Rispetto alle identità forti che le religioni portano con sé come è possibile creare una nuova umanità e un nuovo dialogo? La Chiesa in Italia parla spesso di valori non negoziabili. Un politico davanti a questo come si deve comportare?”.

Prima ancora una considerazione di ordine generale.
Io penso che quello che la politica deve assicurare alle religioni sia la libertà e l’autonomia. Le religioni non sono una superstizione, un residuo arcaico di credenze che il tempo scioglierà. La storia dell’umanità dimostra che, via via che ci sono dei progressi scientifici, non diminuiscono ma si approfondiscono le domande sul senso della vita. Si colloca qui un ritorno delle religioni, iniziato prepotentemente già negli ultimi decenni del XX secolo. Cinquant’anni fa Gagarin, il primo uomo ad andare nello spazio, disse “visto da quassù, si vede che non c’è Dio, non ho incontrato Dio”. Io, allora ero un ragazzino, rimasi colpito da quella affermazione, per la sua rozzezza propagandistica. Dietro di essa vi era però una concezione non esclusiva del cosiddetto socialismo reale, ma propria di tutta una cultura positivista, tesa a fare della scienza una vera e propria filosofia di vita. È questa cultura che ha prodotto una svalutazione della esperienza religiosa, una sua riduzione ad una specie di apparato magico, destinato ad essere travolto dal procedere delle conoscenze. Bisogna al contrario riconoscere il valore della religione: solo su questa base è possibile individuare i grandi obiettivi su cui, nella reciproca autonomia, si può operare insieme per migliorare la società umana.
A mio giudizio il dialogo tra le religioni deve svilupparsi su due piani: uno è quello del confronto teologico, delle diversità e anche dei punti di vicinanza. Perché se si riconosce l’esistenza di un unico Dio – e parlo delle religioni monoteiste – ci sono certamente profonde differenze ma anche aspetti comuni. Se ogni religione si propone di stabilire un rapporto tra la Persona e Dio, in ognuna di esse deve esserci almeno un barlume di verità. Al di là di questo piano, che è un piano autonomo e di grande fascino, ce ne è un altro, sul quale le religioni possono incontrarsi accettando la sfida del tempo presente: la persona, la ricomposizione delle sue molteplici dimensioni, il nuovo umanesimo, la messa al bando della violenza, l’apporto per affermare giustizia ed uguaglianza. Veniamo ora alla domanda posta: dal punto di vista politico non ci sono valori non negoziabili. Io non posso negoziare i valori degli altri e non voglio negoziare i miei. Se però devo fare una legge, se devo costruire un percorso, dare attuazione ad una procedura e approvare un provvedimento, sono obbligato a trovare un minimo comune denominatore, delle soluzioni condivise, delle risposte costruite insieme, così da fare avanzare l’insieme della società. Valori diversi non impediscono di trovare mediazioni alte, compromessi di qualità, consentendo allo Stato di svolgere il compito suo proprio: leggi che tengano conto della comunità nazionale, della collettività, altrimenti non verrebbe perseguito il bene comune, bensì la trasformazione dello Stato in etico o totalitario. Lo Stato non può diventare espressione di una religione, sia pure quella a cui guarda la maggioranza dei cittadini.
Nel campo della bioetica è indispensabile un atteggiamento di prudenza che purtroppo in Italia e a volte anche altrove non viene seguito, dietro la spinta di tendenze alla strumentalizzazione. Non è sempre obbligatorio e non è sempre possibile, a volte è addirittura sbagliato, che la politica faccia da battistrada, perché in alcune occasioni serve che ci sia prima un dialogo, l’incontro tra le competenze, le conoscenze. Io porto sempre un esempio, legato alla esperienza concreta: vi ricordate le discussioni e le lacerazioni attorno alla domanda sul momento in cui la vita ha termine? Quando c’è stato un accordo tra le competenze scientifiche, nel mondo degli esperti, sul fatto che una vita termina dal punto di vista fisico quando il cervello non trasmette più impulsi, quando l’elettroencefalogramma è piatto, le contrapposizioni sono sostanzialmente cessate. Anzi, su quella base, in modo unanime, si è costruita una legislazione che ha consentito quello straordinario gesto di generosità umana che è la donazione degli organi. Ecco, in questo caso, la prudenza della politica ha consentito il raggiungimento di un fondamentale obiettivo.
L’altra condizione necessaria, per muoversi in modo positivo nel campo della bioetica, è quella di ricercare – attraverso un patto tra le forze politiche – il consenso di maggioranze parlamentari qualificate, così da sottrarre provvedimenti, di per sé delicati, che incidono in profondo nella vita delle persone, alle strumentalizzazioni elettorali. Non inserirei questa regola nella Costituzione, ma, come ho già detto, ne farei un patto politico, dunque ugualmente condizionante per i comportamenti.
Affrontando questi temi con la velleità di piantare bandierine e strappare qualche voto in più, si determinano fratture profonde nel paese, divisioni che pesano nella convivenza e ci danneggiano.
Dunque, secondo me, si rende necessaria la paziente ricerca di soluzioni ampiamente condivise: al tempo stesso, per riuscirvi, è indispensabile riconoscere che, nel rispetto dei valori di ognuno, nel campo della politica, della costruzione delle scelte e delle leggi, risulta essenziale la capacità di negoziare i contenuti, di saper realizzare, come ho già detto, un compromesso alto, da valutare nel merito.
Sta in questo il ruolo della politica e la responsabilità dei laici, credenti o meno.