Trascrizione intervento Renzo Berti, Sindaco di Pistoia
Pistoia – Presentazione libro “Religioni e politica nel mondo globale”
31 maggio 2011

Sì grazie, buonasera a tutti i presenti e benvenuto ai relatori che abbiamo il piacere di ospitare quest’oggi.
Il nuovo libro di Chiti Religioni e politica attualizza l’inevitabile ma irrisolta dialettica tra i due principali processi di aggregazione identitaria del pensiero umano prendendo spunto dagli effetti sconvolgenti della globalizzazione. L’allargamento degli orizzonti, della mobilità fisica e mentale, la aumentata consapevolezza delle disuguaglianze, riferite in particolare alle diverse condizioni di vita nelle diverse parti del mondo, ha generato, a ben vedere, una catena di processi destabilizzanti. Non sono soltanto implosi regimi e ideologie, caduti dittatori, muri e alleanze militari, ma è profondamente cambiata la nostra cultura, le modalità con cui ci relazioniamo con il mondo.
E i punti di riferimento a partire da quelli più tradizionali, ne hanno fortemente risentito.
La politica in primo luogo, con una sua progressiva perdita di credibilità.
Il rapporto di sfiducia tra cittadini e partiti, secondo l’ultimo rapporto Eurispes, ha raggiunto un punto di caduta impressionante: soltanto 7 cittadini su 100 ripongono fiducia nei partiti che, per quasi la metà di loro (46.6%), sono al primo posto nella scala della corruzione.
La partecipazione alla vita politica è d’altra parte scemata. È enormemente cresciuta l’astensione elettorale (ormai anche da noi sulle cifre del 40%, anche nelle recentissime elezioni amministrative abbiamo visto che le percentuali differenziate tra province e comuni sono intorno a questo dato), e si è ancor più ridotta quella relativa all’attività interna delle forze politiche spesso limitata agli addetti ai lavori.
Un limite di rappresentatività che si è tentato di arginare in vari modi, e tra questi la sostanziale abdicazione alle funzioni essenziali delle organizzazioni politiche un tempo definite “di massa”.
Vediamo così che l’analisi delle problematiche sociali e le ipotesi di costruzione di una società virtuosa, vengono oggi spesso affidate al responso dei referendum o dei sondaggi o, in subordine, ad una libertà di coscienza più intesa come soluzione opportunistica che argine allo sconfinamento politico nel campo dell’etica.
Come se ci fosse timore a scegliere, quasi che il compito della politica non consistesse appunto nella declinazione di un progetto di società ma nella gestione/conservazione del potere come obiettivo fine a sé stesso.
E così, su un piano diverso ma parallelo, vediamo anche la rinuncia alla selezione della classe dirigente, sostituendo alle storture della cooptazione fiduciaria il processo delle autocandidature e le consultazioni primarie dell’elettorato almeno per chi le svolge.
Un arretramento quindi nel ruolo della politica e nell’attenzione al merito, che ha di fatto cronicizzato l’incertezza, aumentato il disorientamento proprio di quei cittadini che, oggi più di ieri sono storditi dall’incalzare della globalizzazione, ed avrebbero bisogno di ancore, di supporti e stimoli interpretativi.
Detto in altri termini, alle bombe della contemporanea e tumultuosa trasformazione non si e’ risposto con la contraerea dell’intelletto ma spalancando i rifugi.
Rifugi peraltro sovente ingannevoli, dove prosperano discriminazioni e intolleranze, fattori di un circuito perverso che alimenta la percezione crescente di insicurezza, lo sbigottimento – non solo degli anziani – di fronte al parossismo delle novità.
Le nuove tecnologie, il miscuglio inedito di razze e colori, i cambiamenti nelle abitudini alimentari, l’espansione degli orizzonti turistici, il brevissimo ciclo di mode e consumi, anche culturali, che assomiglia sempre più a un grande  falò di carta.
E così, si ricercano le nicchie, i rifugi mentali, una dimensione esistenziale più rassicurante. Oppure nel campo più propriamente politico si assiste ad un tendenziale surfeggiare sulle onde della cronaca immediata alla ricerca dell’effetto visibilità, dell’immagine che viene interpretata come propedeutica alla crescita del consenso.
Sono compatibili in questo scenario i pensieri lunghi che Chiti propone di recuperare alla nostra attenzione?
Risposta: devono esserlo, non possiamo rinunziarvi.
Ma questo a mio avviso ha implicazioni ulteriori – locali e personali – a quelle di un circuito delle relazioni internazionali capace finalmente di evolvere a modello.
Certamente, un paradosso della globalizzazione è dato dal fatto che all’ampliamento degli scenari ha corrisposto l’indebolimento degli organismi di rappresentanza sovranazionale.
L’O.N.U., la F.A.O., L’O.M.S. (purtroppo), ma anche il F.M.I. e la W.T.O. (menomale) non riescono a esercitare politiche incisive.
Una debolezza della quale approfittano i colossi dell’economia, si insinuano i progetti d’intervento cosiddetti verticali che finiscono per amplificare le diseguaglianze o nobilitare approcci invero speculativi.
D’altra parte, lo vediamo, e lo vediamo quotidianamente, l’Europa si è allargata ma non decolla la sua entità politica, mantiene la sua incapacità a declinare iniziative unitarie sul piano delle politiche estere, sociali ed economiche.
E la debolezza della politica dà ampio spazio alle incursioni di un mercato che, nonostante le recenti tremende lezioni, non vuole saperne di regole.
Non è un caso che i temi che vengono costantemente sottoposti alla platea universale siano il debito e la spesa pubblica.
Non, come vorrebbe Jean Paul Fitoussi, la degenerazione della spesa pubblica (distinguendo cioè tra quella buona e quella cattiva) ma la supposta incompatibilità del suo livello attuale nell’equilibrio economico del nuovo mondo.
E molti governi nazionali “devono” quindi correre ai ripari, deprimendo la spesa pubblica e finendo con ciò per assecondare una progressiva trasformazione dello stato sociale in mercato.
Come uscirà la Grecia del rischio di default? vendendo o svendendo il suo patrimonio?
In questo scenario abbiamo un duplice effetto: quello di accrescere ancora le diseguaglianze (sarebbe davvero interessante un confronto, anche da noi, tra i diritti reali e quelli su carta), di incrementare la spesa globale, di ridurre la competitività dei sistemi economici di riferimento.
Non certo perché l’alternativa debba tornare ad essere la spesa allegra o il piè di lista del tanto paga o meglio pagherà Pantalone.
Ma per non rinunciare a quell’obiettivo tanto difficile quanto virtuoso che non è la conservazione ma l’evoluzione dello Stato sociale (quell’evoluzione di cui anche Chiti parla) al fine di promuovere una vera pari opportunità di stimoli e di occasioni, di sgretolare quel gesso che ostacola, che immobilizza, la mobilità sociale facendo sempre più dipendere il destino dei figli da quello dei padri, di restituire insomma entusiasmo e speranza ai nostri giovani che ne sarebbero voraci.
Già, i nostri giovani. Quell’universo composito, di volta in volta disilluso o bamboccione, voglioso di contare o ripiegato su sé stesso.
A Pistoia, in questa nostra città abbiamo avuto nello scorso fine settimana un’esperienza straordinaria.
La quantità di persone, soprattutto giovani, appunto, che sono affluite al festival “dialoghi sull’uomo”, l’attenzione che ne è scaturita, le ricadute.
Ho sentito i commenti di alcuni ragazzi a fine serata, la soddisfazione che traspariva dalla scoperta di una dimensione fino ad allora troppo trascurata.
Messaggi in bottiglia, frammentati, fors’anche contraddittori, non impossibili però da decrittare.
Ci dicono che la politica ha oggi di fronte a sé un compito ancor più rilevante di quello che nel secolo scorso ha accompagnato in occidente la trasformazione industriale e lo sviluppo del welfare.
Ci dice della necessità di un definitivo distacco dagli schemi ideologici per poter entrare maggiormente nel merito dell’attualità dei problemi.
Certo, occuparsi delle forme organizzative e delle regole: la riforma dello Stato, della sua organizzazione ridondante perché ancora figlia di un’epoca in cui si andava a piedi o a cavallo mentre oggi c’è internet, l’alta velocità e le low cost.
Certo, i sistemi elettorali, con l’80% degli italiani che reclama il ritorno alle preferenze.
Ma in primo luogo la partecipazione, come corroborante essenziale della democrazia rappresentativa e per non  assecondare il populismo in voga crescente.
Ma ancora più nel merito, nella cultura, nelle scelte.
L’identità, le identità, come frutto di un processo evolutivo e non come dato acquisito una tantum, come barriera al contatto col mondo, alla contaminazione culturale.
Il nuovo Stato sociale, come complemento anziché negazione dello sviluppo economico.
Il rapporto pubblico–privato, un tema che io credo sarà la questione fondamentale dei prossimi anni e che occorre aggredire partendo dalla consapevolezza che – come ha dichiarato Angela Merkel – il debito pubblico è cosa nostra.
Un contesto in cui si colloca certamente la problematica che è la premessa del libro di Chiti – e che accenno solo alla conclusione di questo mio intervento – ovvero il dialogo con le religioni, intese al plurale.
Un rapporto che può trovare attraverso il dialogo da lui evocato dei formidabili punti di contatto, che può produrre alleanze mirate incrociando le opzioni politiche di fondo con le dottrine sociali.
Facendo perno su alcuni concetti base come quelli del dialogo interculturale, dell’etica e dell’equità sociale, della sussidiarietà.
Senza ansie egemoniche, ma in modo tale che come afferma chiti sia possibile per tutti i figli riscoprire il dio perduto dai loro padri.
Io non so se il nuovo umanesimo da lui propugnato, quell’umanesimo che anche il nostro Vescovo accennava alla conclusione del suo intervento, sia davvero alla nostra portata, credo però che dobbiamo in ogni caso provarci e che la strada in questo libro indicata, quella del dialogo, del confronto, sia in effetti non solo la più giusta ma anche la più appropriata.
Non quindi l’appropriazione indebita, la voglio così definire, di precetti religiosi, ad uso e consumo di speculazioni politiche, penso al natale bianco e razzista propugnato in nome del cattolicesimo tradizionale dalla Lega, penso alle varie campagne a difesa dei crocifissi e presepi. Il fervore peloso a sostegno di uno stato non laico ma dogmatico. L’accettazione o anzi la messa a valore di una dimensione pubblica delle religioni non come rinuncia alla secolarizzazione ma come contributo ad un più compiuto processo di analisi e di costruzione della società del futuro.
Grazie anche da parte mia Vannino per questa bella pubblicazione.