Trascrizione intervento Mons. Mansueto Bianchi, Vescovo di Pistoia
Pistoia – Presentazione libro “Religioni e politica nel mondo globale”
31 maggio 2011

Grazie e buonasera. Quando leggo un libro di Vannino Chiti sempre rimango stupito perché l’autore trova naturale andarsi a collocare sulla frontiera. È come un uomo che la linea di orizzonte se la porta dentro, nella mente e nel cuore, tenta continuamente di raggiungerla ed avvicinandosi la dilata e la prolunga, la fa avanzare.
Mi intriga molto questo modo fatto di intelligenza e di coscienza, di empiricità e di apertura all’interiorità e alla speranza. Trovo sintomatico che un libro speso sulla relazione tra religioni e politica in un mondo globalizzato, si apra con tre citazioni che parlano di stelle e guardano il cielo. Forse il modo giusto per capirsi e capire è quello di scoprirsi guardati, di sentirsi capiti. Svilupperò alcune riflessioni sul libro, quasi intrecciandolo e facendolo dialogare con un testo del Card. Scola che ho recentemente letto e dal quale mi lascio condurre (cfr. A. Scola, Una nuova laicità, Venezia 2007).
Per saccheggiare espressioni altrui vorrei iniziare dicendo che stiamo vivendo la stagione del “ritorno degli dei”. Smentendo una previsione diffusa forse addirittura da due secoli, ma certo già nel dopoguerra ed intensificata fino alla scontatezza nei recenti decenni della conclamata secolarizzazione, quello che sta sorgendo in questo inizio di terzo millennio non è un mondo finalmente mondano ma una proliferazione del sacro talora anche in forma selvaggia e irrazionale.
Non penso certamente alla crescente presenza dell’islam nel cuore dell’Europa che merita ben altra analisi  e valutazione, come appunto Vannino Chiti fa. Penso piuttosto alle forme settarie, febbricitanti di paure apocalittiche, proposte come rifugio o rimedio automaticistico agli spazi della sofferenza, della delusione, della problematicità della vita. Penso a quel fiorente supermercato del sacro che ho trovato in tante strade delle megalopoli terzomondiali ma che sta anche, attraverso il fenomeno immigratorio, silenziosamente pervadendo certi substrati delle città europee.
Certamente, anche prescindendo dalla esuberante patologia del sacro, il nostro mondo, mondo  globale e post secolare, ha da fare nuovamente il conto con la dimensione religiosa delle persone e delle collettività, ha da fare il conto con quelle forme collettive, strutturate della fede che sono le religioni. Credo che occorra con onestà storica ed intellettuale ammettere una dialettica tra cristianesimo e modernità. È serena oggi l’affermazione che la modernità ha aiutato per certi aspetti il cristianesimo a diventare cristiano esplicitando con nettezza e rigore la distinzione tra politica e religione già enunciata nel vangelo: “date dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Ancora, la modernità ci ha aiutato a cogliere più esattamente il rapporto tra verità e libertà, misurando il limite di un’affermazione teoretica che era insieme apparentemente persuasiva ma micidiale, cioè “l’errore non ha diritti”, soprattutto perché si riduceva la verità ad una dimensione dottrinalistica, a sistema di proposizioni concettuali a partire dalle quali si faceva diretta irruzione di intervento sulla realtà personale, familiare, politica e sociale.
Si perdeva così il carattere storico della verità che nella Bibbia è fortissimo e soprattutto si perdeva la centralità di valore della persona, centralità che mette inevitabilmente in rapporto verità e libertà attraverso il valore apicale della “libertà di coscienza”.
Nella dialettica del rapporto modernità-cristianesimo c’è però un elemento che dal patrimonio cristiano è transitato e continua fecondamente a transitare nella modernità. Ed è il principio della “differenza nell’unità”. Esso appartiene sorgivamente alla rivelazione cristiana che lo afferma nel suo livello più alto come criterio interno alla vita divina, alla vita trinitaria, “la distinzione nell’ unità” e da essa discende, attraverso la storicità di Gesù, dentro la vita del mondo, della società, per diventare principio e criterio storico di comprensione, di composizione, di valorizzazione della differenza nello spazio intenso dell’unità. Ripeto: nello spazio intenso dell’unità. Questo impedisce che anche la più radicale delle differenze degeneri in disgregazione dell’unità, come pure che l’unità soffochi o spenga la differenza, divenendo totalitarismo o, ancora, che l’unità si sbiadisca in contenitore indifferenziato ed amorfo appiattito sulle procedure e sulle osservanze formali.
In questo senso il principio cristiano-trinitario della differenza nell’unità ha certamente una sua specifica causalità nella nascita delle democrazie sostanziali, delle ricche articolazioni e vitalità della società civile, della necessità dei corpi intermedi, armonicamente finalizzati alla vita dello Stato.
Tale principio, “la diversità nell’unità”, ritengo abbia ancora oggi, la forza e la fecondità di generare nuovi percorsi culturali e politici per le nuove sfide che la presenza religiosa pone alla politica, soprattutto in Europa. Ed è a questo principio che la dottrina sociale della Chiesa potentemente si ispira, anche quando parla, ad esempio, di solidarietà e sussidiarietà.
Ripeto e sottolineo fortemente che il principio cristiano della “differenza nell’unità” può ispirare al futuro dell’Europa una democrazia sostanziale, capace addirittura di forgiare in inedita risorsa di civiltà la nuova fisionomia che l’occidente sta assumendo con la trasformazione interculturale ed interreligiosa in questa stagione globalizzata.
Quale potrebbe essere allora il profilo pubblico nuovo che l’attuale situazione storica chiede alle religioni, almeno in occidente ?
Anzitutto, e non è scontato, il definitivo superamento della riduzione del fatto religioso a dimensione privatistica o individuale con la conseguente rimozione dalla sfera pubblica e riduzione a categoria di costume o di contingenza storica. Questo è un ben riduttivo modo di intendere la laicità dello Stato.
Bisognerebbe chiederci se non sia possibile uno Stato laico senza un laicismo di Stato, dove la sfera politica è chiaramente separata dalla sfera religiosa ma è anche dichiaratamente disposta a dialogare con essa perché è ben consapevole che nessun governo può produrre, per così dire, cittadini morali ma sono cittadini morali (per lo più su motivazione religiosa) che producono la democrazia e il governo. Tanto più che occorrerebbe accorgersi, come scrive David Novak, che “le persone religiose, sono capaci oggi di costruire la laicità, ricavandola dalle proprie tradizioni religiose fondate sulla rivelazione”. Questo è vero almeno per quanto riguarda la grande tradizione ebraico-cristiana.
Occorre così che il potere politico, anche in occidente, passi da un atteggiamento di passiva tolleranza, o di piatta neutralità, nei confronti della dimensione religiosa ad una attiva apertura e ad un esplicito dialogo nei confronti delle religioni, esse devono però abbandonare autointerpretazioni di tipo fondamentalista per creare un terreno di interscambio diretto tra di loro e con le altre culture e mondi valoriali in questo modo si crea uno spazio di dialogo, di relazione civile, quasi un luogo intermedio tra l’individuo e lo Stato, in cui le religioni possono giocare il loro ruolo nel pubblico dibattito sui valori di civiltà ed esprimere il loro giudizio o apportare il loro storico contributo al cammino democratico di una società. Non basta dunque una religione ridotta alla pura sfera privata, né uno Stato che intenda la laicità come asettica neutralità, rispetto alla dimensione religiosa, quasi un “a prescindere da”. Occorre invece il pieno riconoscimento delle fedi personali comunitariamente strutturate e organizzate, cioè delle religioni, che siano portatrici di una soggettività pubblica, tesa ad offrire a tutti, a tutta la società, senza privilegi, nel libero campo del confronto democratico, laico, pubblico e pluralista, proposte per una vita umana buona e felice, nella dimensione personale e in quella sociale.
Mi pare che il libro di Vannino Chiti, che stasera qui a Pistoia presentiamo, si muova positivamente e, oserei dire, decisamente, nel superamento di alcune storiche e ben assestate linee di confine e nell’intuizione di orizzonti nuovi, verso i quali coraggiosamente si protende.
Soprattutto, la chiave di volta del libro mi persuade e mi affascina, perché la sento e la vivo come straordinariamente sintonica al mio piccolo modo di intendere e di tentar di vivere il rapporto tra la fede e la storia: cioè il valore della persona e della sua dignità come motivo e spazio, insieme culturale ed etico, per intessere un dialogo nuovo tra le fedi e tra fede e politica, intraprendendo con questo una strada coraggiosa anche se adesso appena tratteggiata. Una strada verso un nuovo umanesimo, aperto alla trascendenza, aperto a Dio: un umanesimo dal volto umano dopo i molti umanesimi disumani che abbiamo anche recentemente conosciuto. L’umanesimo possibile, necessario, di un mondo globalizzato.
Grazie Senatore Chiti per questa sua fatica e per questa sua voce.