La terribile strage che ha colpito venerdì 22 luglio la Norvegia ha scosso le coscienze di tutti noi.
A Oslo, il 32enne Anders Behring Breivik,  un terrorista nazista che cerca di strumentalizzare il cristianesimo (come cercano di fare con l’islam i terroristi di opposta matrice), ha piazzato davanti al palazzo del governo un’autobomba che ha provocato la morte di 7 persone. Nell’isola di Utoya, lo stesso killer, travestito da poliziotto, ha radunato centinaia di ragazzi che partecipavano all’annuale campo estivo dei giovani laburisti, uccidendone almeno 69. Un bilancio probabilmente destinato a salire: alcuni ragazzi risultano ancora dispersi.
Nel rinnovare la mia personale solidarietà e amicizia a tutto il popolo norvegese voglio ribadire che, in occasioni così drammatiche, è bene essere tutti uniti e fermi nel respingere ogni forma di violenza terroristica e nel dare pieno sostegno a chi è stato duramente colpito dall’attentato.
È giusto sottolineare come dal popolo norvegese, dal suo premier Stoltemberg, dal vescovo di Oslo Kvarme sia arrivata una lezione di democrazia e dignità.
“Siamo una nazione piccola ma orgogliosa e non rinunceremo mai ai nostri valori – ha dichiarato il premier – La nostra risposta sarà più democrazia, più apertura, più umanità, ma non saremo mai ingenui”.
Il vescovo di Oslo ha lodato l’esempio di “unità” dato dalla classe politica norvegese di fronte ad un fatto “incomprensibile” che “va contro tutto quello su cui abbiamo costruito la nostra comunità”. I colpevoli – ha affermato – “dovranno essere giudicati con severità, secondo le regole e le procedure del nostro sistema giudiziario, perché una società democratica non risponde alla violenza con la violenza”. E si è detto certo che la strage non condurrà a una società più chiusa, a più controlli di polizia per le strade, ma dovrà invece rafforzare i valori di tolleranza.
Confronto e dialogo sono scelte necessarie e giuste per costruire quella società dell’integrazione di cui abbiamo tutti bisogno e per delineare un’etica mondiale condivisa, che costituisca la base della convivenza nell’epoca della globalizzazione.
Abbiamo bisogno di dialogo non di violenza; di integrazione, non di intolleranza e terrorismo!
Il fondamentalismo va collocato, per essere compreso in modo adeguato, all’interno dei processi di globalizzazione. Gli sconvolgimenti che essi provocano, gli «spaesamenti» e la perdita di senso nella vita individuale e collettiva, aprono gli spazi che possono rendere la religione, in modo strumentale e fuorviante, anche un riferimento identitario e ideologico, di lotta politica.
Posizioni culturali e ideologiche non condivisibili, addirittura estranee ai principi della democrazia e della tolleranza, devono essere affrontate con determinazione, ma sul piano delle idee: è necessario saper distinguere, per isolare quanti scelgono invece di imboccare la via armata. Senza questa capacità – che poi esprime il primato della politica – non vi può essere una reale e definitiva vittoria sul terrorismo. La sola opzione della forza, anche quando si renda necessaria, non è mai stata né sarà mai sufficiente.
Gesti atroci, come quello compiuto in Norvegia, che chiamano in causa fondamentalismi e false appartenenze religiose, ci ricordano che occorre fare della laicità un riferimento universale, nel quale si riconoscano credenti e diversamente credenti.
Nell’epoca della globalizzazione può realizzarsi una grande intesa – non riducibile a contingenti convenienze elettorali – tra forze progressiste e religioni, attorno alla centralità della persona, alla tutela e promozione della sua dignità, alla realizzazione ovunque dei diritti umani, alla affermazione della non violenza, alla costruzione di uno sviluppo nuovo, che faccia della salvaguardia del nostro pianeta una priorità assoluta.
Obiettivo comune è la costruzione di un’etica che chiuda la lunga fase storica fondata sulla contrapposizione amico-nemico, fonte e giustificazione di conflitti e scontri che hanno accompagnato il contraddittorio avanzare della civiltà umana.
La nostra ambizione deve essere quella di dar vita a un nuovo umanesimo: il rivendicarlo non è un’utopia, oggi, ma una necessità per dare un segno positivo al futuro.
Dipende da noi, non dal destino: dal non rassegnarsi, dal non essere cinici e indifferenti, dalla capacità di dare orizzonti concreti di giustizia e di pace ai nostri sogni e alle nostre speranze.
Ci è richiesto in fondo di dedicare qualche momento della nostra vita ad un impegno con gli altri e per gli altri. Non è tempo sprecato: dà un senso alla nostra stessa esistenza. Un mondo migliore è possibile, ma dipende da ciascuno di noi.