In questi giorni è intenso, anche sul Riformista, il dibattito sulla possibile nascita di un nuovo partito a cui i cattolici possano fare riferimento, una nuova Dc per intenderci.
Io non credo che questa possibilità sia concreta. Un partito di piccole o medie dimensioni con queste caratteristiche può sempre nascere. Ma la Democrazia Cristiana, per come si è caratterizzata e per il ruolo che ha ricoperto nella nostra storia repubblicana, non può ritornare. Il quadro politico italiano negli ultimi vent’anni si è radicalmente trasformato, assumendo connotati europei. I valori che uniscono il mondo cattolico non portano automaticamente a ritrovarsi in un unico soggetto politico. In tutta l’Europa alcuni cattolici militano in forze progressiste mentre altri si riconoscono in forze moderate e conservatrici. L’anomalia era la situazione che c’era prima in Italia, che però ora ha perso i presupposti su cui si fondava.

Nella prospettiva del laico credente non è possibile rilasciare deleghe politiche in bianco a nessuno, né soprattutto è possibile delegare all’istituzione ecclesiale le scelte di carattere temporale. Questo concetto è espresso magistralmente da Paolo VI nella “Octogesima Adveniens”: penso che sia ancora oggi il punto di vista della Chiesa, anche se non sempre, almeno in Italia in questi ultimi anni, vi sono stati, in tutti gli esponenti della gerarchia, comportamenti coerenti. I Vescovi hanno non il diritto, ma il dovere di esprimere i principi e i valori di fede, ma la traduzione in politica necessita di una mediazione, che deve essere affidata alla responsabilità dei laici. Se c’è confusione fra questi due momenti ci rimettono sia la politica che la religione. Da questo punto di vista ritengo che la segreteria di Stato vaticana dovrebbe essere estremamente prudente e molto attenta a non veder rappresentate le proprie iniziative come un’azione che sconfina nella costruzione di partiti, di correnti, di governi. Ben altro e di carattere universale mi appare essere il suo ruolo.

Nel mio campo di appartenenza, il centrosinistra, è necessaria una riflessione: nel rapporto tra la sinistra italiana e la religione c’è un paradosso che si è determinato nel corso della storia repubblicana. Nel Pci, nel Psi e, per altri versi, nella sinistra riformista laica c’è sempre stata una grande attenzione nei confronti dell’aspetto religioso. A questo proposito è utile ricordare lo stesso discorso di Bergamo di Togliatti del 20 marzo del ’63, “Il destino dell’Uomo – Comunisti e cattolici di fronte ai problemi dell’epoca moderna” e, più di recente e ancor più innovativo, lo scambio epistolare tra Enrico Berlinguer e l’allora Vescovo di Ivrea monsignor Bettazzi. Lì, Berlinguer affermò un concetto “rivoluzionario” per la tradizione della sinistra Italiana: un partito in quanto tale deve esprimere dei valori, ma non può basarsi su di una filosofia di vita, una concezione del mondo. Sta qui il fondamento della sua laicità, non rendere cioè una religione o una cultura non religiosa esclusive nella vita dello Stato, che deve invece essere improntata al pluralismo.

Il paradosso è sorto dopo la caduta del Muro di Berlino, con la fine della prima Repubblica e, con essa, dell’unico grande riferimento politico per i cattolici: la Democrazia Cristiana.
Avvenuti questi passaggi, affermatosi nel concreto il pluralismo delle scelte politiche per i cattolici, si è impoverito il livello di attenzione da parte delle forze progressiste nei confronti dei temi religiosi. Quasi che il riconoscimento formale del pluralismo politico, che era stato un obiettivo perseguito nel corso di tutta la storia della sinistra, producesse automaticamente uno spostamento dei voti cattolici.
Invece, la storia di questi ultimi 15 anni dimostra che il pluralismo produce un meccanismo diverso: laddove non si riesce a convincere gli elettori cattolici con idee, programmi ma anche con valori condivisi, non si ottiene il loro consenso. Non vi è proprio niente di scontato: anzi, in questo mondo vi è spesso un di più di richiesta di coerenza, di partecipazione.
Oggi, il compito delle forze politiche progressiste è quello di far venir meno ogni pregiudizio, o anche soltanto incomprensione nei confronti della esperienza religiosa. Non si tratta certo di abbracciare per forza una fede, ma di comprendere che le domande di senso della vita alle quali essa dà una risposta, non sono un residuo arcaico, superstizioni del passato. E si tratta, al tempo stesso,  di non temere ma di consentire la dimensione pubblica delle religioni, non relegabili nel segreto del cuore. Nell’epoca della globalizzazione può realizzarsi una grande intesa – non riducibile a contingenti convenienze elettorali – tra partiti progressisti e religioni, attorno alla centralità della persona, alla tutela e promozione della sua dignità, alla affermazione ovunque dei diritti umani, alla costruzione di uno sviluppo nuovo, che faccia della salvaguardia del nostro pianeta, una priorità assoluta.