“Religione e politica” è il titolo del libro appena pubblicato dal vicepresidente del Senato Vannino Chiti (Pd). Cosa l’ha spinta a riflettere e a scrivere su questo argomento?
«Quello del rapporto tra religione e politica è un tema da sempre presente nelle mie riflessioni. Sono nato in una famiglia cattolica e l’elemento religioso è parte integrante della mia biografia sin dagli inizi: ad ogni modo al di là della formazione ho sempre coltivato la convinzione che l’interazione tra religione e politica rappresenti una di quelle questioni sulle quali sia impossibile non interrogarsi. Personalmente lo avevo già fatto una volta in forma di libro, quando ho scritto “Laici & cattolici” (Giunti editore, 2008, n.d.r.) che poi era una mia riflessione sull’esperienza maturata in Italia tra l’area cattolica in tutte le sue forme istituzionali, politiche e sociali e le sinistre. Questo libro invece si pone un interrogativo diverso: si chiede, dentro il mondo in cui siamo e che chiamiamo globale, quali siano gli obiettivi che dobbiamo porci per rendere migliore questa nostra grande casa comune».
A quali conclusioni è approdata la sua riflessione?
«Che a prescindere dal fatto che un essere umano sia o meno religioso, che sia o non sia cattolico o professi altre fedi, a prescindere da tutto i temi di tutela dei diritti della persona nel mondo contemporaneo restano la sfida centrale. Una sfida posta da uno sviluppo che può distruggere persona e ambiente, che può minare la pace e la convivenza tra i popoli: tutto questo e i corollari che ne discendono non possono essere affrontati se non c’è un confronto rispettoso e attento al di là delle proprie convinzioni anche con l’esperienza religiosa. Non si può considerare il fenomeno religioso come un residuo delle superstizioni del passato, esso va considerato come un esperienza che accompagna l’uomo e che offre delle risposte a degli interrogativi che sono dentro l’uomo, quali che siano le risposte».
Quali sono gli esempi più fecondi di interazione tra mondo politico e religioso che ha incontrato nella sua vita?
«Nel mio percorso ho avuto la fortuna di coltivare rapporti frequenti e intensi con padre Ernesto Balducci e con il cattolicesimo fiorentino: non ho potuto incontrare per motivi cronologici altri grandi personaggi come Giorgio La Pira e Don Lorenzo Milani, ma comunque li ho conosciuti a fondo nelle letture. Ritengo che il cattolicesimo fiorentino abbia avuto un ruolo di primo piano nell’esperienza politica di questo Paese e non solo. Penso che abbia trovato uno sbocco positivo nel Concilio Vaticano II e credo che tutta la mia generazione, quali che siano state le scelte politiche fatte da ciascuno, abbia avuto ben chiari questi riferimenti comuni».
Padre Balducci è uno dei due destinatari della dedica che apre il libro…
«L’altro è monsignor Alberto Ablondi, vescovo emerito di Livorno. Due persone diverse, che hanno ricoperto ruoli differenti ma che presentavano senza alcun dubbio molti tratti comuni. Tra questi certamente una grande capacità d’incontro e di comunicare un’intensa attenzione per la persona che si esprimeva attraverso una fede vissuta senza pregiudiziali aprioristiche. Ablondi ha ricoperto un ruolo di primo piano nella Chiesa istituzionale con la sua straordinaria vocazione ecumenica. Ci siamo conosciuti quando ero presidente della Regione, abbiamo avuto rapporti anche di amicizia molto duraturi ma voglio ricordare che lui è andato a Livorno molto prima che ci incontrassimo: fare il Vescovo di Livorno nel 1970 non era un’impresa facile e il fatto che ne sia diventato cittadino onorario, per volontà dell’amministrazione, testimonia l’impatto positivo che ha avuto nei confronti di quella comunità».
Come si è evoluto il rapporto tra le sinistre italiane e la religione nell’ultimo ventennio, dopo la caduta del Muro?
«Questa è una questione paradossale: nella sinistra italiana, sia nel Pci che nel Psi e, per altri versi, nella sinistra riformista laica come in quella dei Repubblicani, c’è sempre stata una grandissima attenzione nei confronti dell’elemento religioso. Basti ricordare il discorso di Bergamo di Togliatti del 20 marzo del ’63, “Il destino dell’Uomo – Comunisti e cattolici di fronte ai problemi dell’epoca moderna”, oppure Berlinguer che nello scambio epistolare con l’allora Vescovo di Ivrea monsignor Bettazzi andò molto oltre, affermando qualcosa di rivoluzionario per la tradizione della sinistra che veniva dal Pci in Italia: il partito non teista, non ateista e non antiteista era qualcosa che apriva nuovi orizzonti e che, al di là delle formule, voleva dire che un partito in quanto tale deve esprimere dei valori, ma non può impartire una filosofia di vita e delle convinzioni di fede per l’uomo. Poi è arrivato il paradosso perché quando è caduto il Muro, ma ancor meglio quando anche in Italia è stato accolto il pluralismo delle scelte politiche per i cattolici credenti, sorprendentemente c’è stata una caduta complessiva d’attenzione da parte delle forze progressiste della sinistra nei confronti dei temi religiosi. Quasi che il riconoscimento formale del pluralismo politico, che era stato un obiettivo perseguito nel corso di tutta la storia della sinistra, equivalesse di per sé al fatto che ci sarebbe stato il voto a sinistra. Invece, il pluralismo significa proprio la cosa opposta, che se non c’è convincimento non è detto che ci sia consenso e il convincimento non è soltanto sulle scelte programmatiche concrete, ma anche sui valori».
A proposito di pluralismo delle scelte per i cattolici credenti, cosa pensa dell’ipotesi di una rinascita di un partito di riferimento come era stata la Dc ai suoi tempi?
«Non credo che questa possibilità sia concreta, nel senso che può sempre nascere un partito piccolo o medio-piccolo che si caratterizzi come punto di riferimento, ma non ritornerà la Democrazia cristiana. Come non ritorneranno altre forze politiche di quel tempo, perché l’Italia da questo punto di vista è un Paese ormai europeo: qui è certamente vero che un cattolico ha dei punti di riferimento che si esprimono in valori di fede, ma come questi si traducano nella vita sociale e politica è un altro discorso. Non esiste un’unica formula e in tutta l’Europa ci sono cattolici che si ritrovano in componenti progressiste e cattolici che si riconoscono in componenti moderate e conservatrici. L’anomalia era la situazione che c’era prima in Italia, un’anomalia legata alla storia che però ora ha perso i presupposti. La prospettiva del laico credente non può delegare a nessuno e non può delegare all’istituzione ecclesiale le sue scelte di carattere temporale. Questo è un concetto meravigliosamente espresso da Paolo VI nella “Octogesima Adveniens” e credo che il punto di vista del Vaticano non sia cambiato: diversamente non funzionerebbe perché la Chiesa ha non il diritto, ma il dovere di esprimere i principi di fede e i valori di fede, ma la traduzione in politica è fatta di quel meccanismo che si chiama mediazione e che deve essere affidato ai laici. Se c’è confusione fra questi due momenti ci rimette sia la politica sia la religione e del resto qualche cosa in questo senso penso che ce l’abbia insegnata Alexis de Tocqueville e sarebbe bene non dimenticarlo».
Quali sono dunque secondo lei le esigenze alle quali risponde l’iniziativa delle componenti cattoliche?
«Leggo come “un contributo” il documento che è stato annunciato dalle organizzazioni del sociale che hanno un riferimento cattolico, un contributo con cui si devono misurare tutte le forze politiche, il Pd come gli altri, per partecipare al progetto che viene suggerito e per verificare i punti su cui c’è convergenza o meno. È in corso il tentativo di riportare in campo il laicato cattolico, che ritengo sia stato fortemente sacrificato e compresso negli ultimi anni e mi pare che la Chiesa si sia resa conto dell’impoverimento del laicato e abbia manifestato il bisogno di dare spazio a questa esperienza. Leggo così la Settimana sociale dei cattolici di Reggio Calabria e leggo così questo documento di Cisl, Acli, Coldiretti e via dicendo: in questa ottica, al di là dei punti su cui si è d’accordo o meno, la interpreto come una iniziativa assolutamente positiva. Ma in definitiva non credo che possa essere un’operazione di piccola o media edizione di un partito cattolico e se così fosse credo si tratterebbe di un errore al di fuori di un percorso storico».
Laicizzazione e secolarizzazione dei rapporti tra politica e religione: crede che anche l’Islam sia destinato a seguire lo stesso percorso?
«La secolarizzazione è un termine che va coniugato al plurale, perché non esiste “la secolarizzazione” ma esistono “le secolarizzazioni”: quella che c’è negli Stati Uniti non è uguale a quella che c’è in Europa e in alcuni Paesi sappiamo che deve ancora maturare. In riferimento all’Europa penso che dovremmo correggere la nostra secolarizzazione in questo senso: le fedi religiose, l’esperienza religiosa e le religioni non hanno soltanto una dimensione privata ma anche una dimensione pubblica, dentro la cornice dello Stato democratico e di diritto e con il pluralismo religioso la dimensione pubblica è non solo legittima, ma positiva e bisogna non solo non averne paura ma farla vivere. Qui dobbiamo iscrivere quell’altro termine che si chiama laicità, che è fondamentale. Nelle società islamiche prevalentemente oggi c’è una religione di maggioranza che condiziona, che non lascia spazio e autonomia allo Stato e alla politica. Va ancora costruita la reciproca autonomia e va costruito l’effettivo pluralismo religioso perché non è libertà religiosa quella che consente alle altre religioni minoritarie di avere solo la libertà di culto, quando va bene. La libertà religiosa si traduce così: ogni persona ha il diritto di avere o di non avere una religione, ha il diritto di poter cambiare una religione. Questi sono principi basilari che dobbiamo far vivere pienamente in Europa e dobbiamo farli conquistare alle società dove è prevalente l’Islam e penso che se costruiamo questo modello in modo pieno in Europa saremo positivamente contagiosi anche per le società islamiche».
Nel suo libro auspica che la Turchia entri in Europa anche perché ritiene che possa rappresentare un positivo terreno di incontro fra culture politiche e religioni.
«In Turchia deve ancora essere portato a termine un percorso di laicità ma sicuramente parliamo di un modello di società fondato sulla democrazia, dove si svolgono libere elezioni e anche se il riconoscimento del pluralismo religioso deve progredire ritengo che quel Paese possa avere un ruolo importante per il Medio Oriente. Non solo, mi auguro che diventi l’esempio a cui guardare anche per i Paesi che hanno attraversato quella che è stata chiamata la Primavera araba. L’ingresso della Turchia nell’Ue rappresenterebbe un contributo definitivo alla sconfitta di quel rischio di scontro di civiltà che attraversa il ventunesimo secolo e che è stato colto e analizzato in primo luogo da Samuel Huntington».
di Nicola Maranesi
