Roma, lunedì 24 maggio 2010. Facoltà di Scienza dell’Informazione

Sono lieto di essere stato invitato a riflettere con voi su di un tema rilevante: sussidiarietà, solidarietà, bene comune. Si tratta in sostanza di ragionare sul rapporto tra etica ed economia dalla prospettiva della politica.
Il Professor Aldo Schiavone nel suo saggio “L’Italia Contesa”  sviluppa alcune considerazioni affermando che negli ultimi decenni vi è stata una subalternità della politica all’economia, che in qualche misura essa ha accettato di avere una funzione di secondo piano, assecondando scelte e decisioni prese altrove, sulla base di criteri privi di trasparenza, dominati dall’opacità di poteri che non avrebbero mai dovuto rispondere alla collettività del loro operato.
Questa deriva, secondo me, esiste ed è visibile non soltanto nel nostro Paese, anzi, a motivo della globalizzazione, anche in molte parti del mondo.
Il bene comune, la solidarietà possono essere realizzati soltanto dalla politica.
Il mercato lasciato a se stesso, senza regole, ha provocato disuguaglianze e sprechi: privo di principi di solidarietà e fiducia reciproca non ha funzionato. Il mercato è uno strumento – utile, importante, fondamentale – ma non deve essere mai un fine. Il fine è la persona, la sua dignità, la sua realizzazione, la sua promozione.
La globalizzazione senza un indirizzo, senza un governo genera uno squilibrio tra i popoli: la parte ricca si sente legittimata a pretendere il diritto al superfluo e quella ai margini si trova condannata alla mancanza dell’essenziale.
Le politiche degli aiuti sono state distolte dalle loro finalità e le barriere all’istruzione hanno escluso una parte del globo dal progresso e dai diritti stessi. Occorre puntare a ricostruire un nuovo tessuto etico delle responsabilità e dei doveri – sia individuali sia pubblici – attraverso i quali ridare un equilibrio allo sviluppo.
La finanza è utile se serve alla miglior produzione della ricchezza e a una sua ottimale distribuzione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo.
È qui che interviene anche la rivalutazione dell’azione delle politiche pubbliche se sanno comprendere la vera natura del bene comune. Laddove la nuova agorà è il mondo stesso che ha sempre più bisogno di un governo globale fondato sulla sussidiarietà: la crisi lo ha dimostrato e può essere per questo l’opportunità della svolta.
Vi è la necessità di un fondamento etico, che abbia al centro la persona; di uno sviluppo sostenibile; perché il mondo sia vivibile anche domani, per quelli che verranno dopo di noi; di solidarietà perché se uno cade o resta indietro occorre aiutarlo, fargli riprendere il cammino. Fare da sé, non da soli: questo è un punto di riferimento per l’impegno politico e di governo.
Vi è l’esigenza di nuove istituzioni, in special modo a livello globale. L’Onu ha urgente bisogno di una riforma: non può restare la foto della fine della seconda guerra mondiale. E per quanto riguarda il nostro continente, il riferimento deve essere l’Unione Europea.
Porre questi problemi non è abbandonarsi all’utopia, anche se ve ne sarebbe bisogno nel nostro mondo: è compiere uno sforzo di realismo.
La democrazia ha bisogno di istituzioni adeguate ai tempi, la politica ha bisogno di strumenti rinnovati. Le regole, la governance nel tempo della globalizzazione richiedono una nuova Onu; in Europa una unione politica, una democrazia sovranazionale.
Ancora, è decisivo portare a compimento la riforma dello Stato, ancorando il rinnovamento della democrazia alla prospettiva di costruzione della dimensione politica dell’Unione Europea. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore dopo un lungo e travagliato processo di ratifica, fa compiere un passo avanti all’Europa, anche se non percorre tutto il tratto di strada necessario. Renderà l’Unione più efficace politicamente su temi come la sicurezza, le relazioni internazionali, l’ambiente, l’energia. Occorre renderla anche in grado di misurarsi con le sfide dello sviluppo, nell’epoca della globalizzazione, e con quelle delle migrazioni. L’Unione Europea deve diventare un grande, appassionante valore ideale, come in passato lo furono il Risorgimento e la Resistenza. È in questo quadro che va iscritta anche la conclusione del processo di riforma del sistema politico – istituzionale del nostro paese, quella transizione infinita che rischia di renderlo parte della crisi, anziché risposta ad essa, in grado di realizzare un nuovo sviluppo, socialmente e ambientalmente sostenibile.
È necessario non separare economia e politiche sociali. Dare all’economia un pluralismo di presenze, di soggetti, non solo quelli che legittimamente perseguono il profitto, ma anche il profitto “sociale”. Creare un welfare che sia fondato non sul risarcimento ma sull’uguaglianza di opportunità. Dunque prima di tutto pari opportunità di partenza. Mi torna in mente una frase di Enrico Berlinguer, uno dei leader della sinistra europea che per tempo colse la necessità di un cambiamento dei modelli culturali e di sviluppo: “Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana” .

È necessario civilizzare l’economia e il mercato. Non è all’altezza dei nostri tempi né funziona avere un’economia guidata da spiriti egoistici e poi assegnare al welfare compiti di solidarietà e redistribuzione. Questa è, secondo me, una delle indicazioni più forti, più significative della recente enciclica di Papa Benedetto XVI, la “Caritas in veritate”.
Non possono esserci un’economia o una finanza guidate da un individualismo egoistico, fondate su un profitto che non si cura dei modi con cui si realizza e delle finalità con le quali viene impiegato, e poi un campo del sociale, a cui viene affidata nei limiti delle risorse (purtroppo sempre minori e residuali), la funzione di riparare i guasti, introducendo aspetti di solidarietà e di giustizia redistributiva.
La globalizzazione ha bisogno di regole, di principi morali e il principio fondamentale che deve esserne alla base è la persona nella complessità delle sue dimensioni.
A partire da questi temi, crisi del welfare, rinnovamento della democrazia, centralità della persona, occorre rinnovare la cultura politica e darsi obiettivi programmatici coerenti.
Creare uno spazio non solo per uno “scambio tra uguali”, ma anche per presenze solidaristiche e mutualistiche in tutta la società, nell’economia e nel welfare. Fornire agevolazioni alle imprese non profit, creare loro spazi nella vita economica e sociale. Del resto lo Stato investe e aiuta le imprese che vivono legittimamente del profitto, perché creano occupazione, sviluppo, ricchezza non solo privata ma sociale: può e deve farlo anche per le altre, diverse non nella efficienza, ma nella destinazione degli utili e talora delle forme della loro organizzazione.
La qualità dell’ambiente, la diffusione del reddito, dell’occupazione, dell’istruzione devono diventare elementi di misurazione della crescita, insieme ai dati sul Prodotto Interno Lordo. Occorre mettere al centro della vita dei Paesi e dell’Unione Europea il tema della povertà, imporre obiettivi, anche quantitativi, di riduzione delle disuguaglianze sociali.
È giusto imporre – come ha sostenuto Carlo Azeglio Ciampi – obiettivi anche quantitativi di riduzione delle disuguaglianze sociali, allo stesso modo come in Europa ci si è posti la questione del rapporto deficit – prodotto interno lordo per il Patto di stabilità.
Lo stesso criterio per misurare la crescita e il benessere di una nazione non può essere rappresentato soltanto dall’aumento delle produzioni industriali, agricole o di servizi: deve comprendere anche il dato della qualità dell’ambiente, della diffusione del reddito, dell’occupazione e della sicurezza sul lavoro, della disponibilità di istruzione e di cultura.
All’interno dell’Unione Europea è necessario realizzare un patto per il XXI secolo: il nostro modello di economia sociale di mercato, indispensabile per assicurare anche in futuro coesione e giustizia, richiede uno sforzo nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica, altrimenti non sarà possibile garantire il diritto al lavoro a tutti i nostri cittadini.
Gli investimenti in ricerca, modernizzazione delle infrastrutture e formazione devono essere al di fuori del Patto di stabilità.
L’Unione Europea deve essere indipendente in campo energetico, utilizzando tutte le fonti di energia pulita e rinnovabile, ponendosi alla testa della ricerca anche di un nucleare di nuova generazione.
Non è pensabile perseguire questi obiettivi, che vogliono tenere insieme sviluppo, ambiente e giustizia sociale, senza un ruolo, rinnovato ma forte, dello Stato. Ripensare lo Stato, i suoi compiti nella programmazione dell’economia, nella ricerca avanzata e di frontiera, negli indirizzi e nel controllo del welfare è compito delle forze progressiste nel mondo.
Senza un ruolo fondamentale dello Stato l’uguaglianza delle opportunità di vita diventa una chimera.
Non si tratta certo di vagheggiare un dominio dello Stato nell’economia: il mercato ne resta il fondamento.
Lo Stato deve svolgere un ruolo di arbitro e di regolatore, al quale – sotto l’influenza dell’ideologia neo-liberista e il prevalere politico delle destre – è spesso venuto meno.
Le regole da affermare e da far rispettare non riguardano però – come in modo riduttivo si ritiene in settori della sinistra – solo la finanza e il sistema economico: sono anche quelle necessarie a cambiare il welfare, finalizzandolo alla realizzazione di un’uguaglianza di opportunità, e gli indirizzi necessari a dar vita ad un nuovo equilibrio tra sviluppo e ambiente. Uno sviluppo indiscriminato sacrifica infatti non solo l’individuo ma anche il pianeta.

Il principio di sussidiarietà progressivamente è divenuto una delle regole fondamentali dello Stato democratico moderno e dei suoi rapporti con la società, fino ad essere assunto come riferimento, guida e norma, dell’Unione Europea. Originatosi dall’esigenza di ripensare il ruolo del pubblico e la sua integrazione col privato, è entrato, anche formalmente, nella nostra Costituzione.
L’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione impegna infatti Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni a favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Le disposizioni della nostra Carta fondamentale intendono introdurre nell’ordinamento italiano, per via scritta ed esplicita, la sussidiarietà orizzontale, stabilendo che la solidarietà non può essere prerogativa esclusiva dello Stato, bensì deve divenire dovere dei cittadini, resi responsabili nella costruzione della convivenza più giusta e avanzata possibile.
È indispensabile incentivare la sussidiarietà. Ma quest’ultima non si afferma pienamente senza una espansione della democrazia. Nello specifico, se la democrazia non permea di sé i luoghi di lavoro, se non si radica nei territori, se non si affida alla autonomia e responsabilità anche di Comuni e Regioni.
Ne discendono alcune conseguenze: la prima riguarda la riforma delle istituzioni. Non è sufficiente ridefinire e riorganizzare le competenze tra lo Stato centrale, le Regioni e le Autonomie locali. È indispensabile cambiare i rapporti tra Stato, nelle sue diverse articolazioni, centrali e locali, e cittadini.
Anzi risiede in questo obiettivo il senso e la giustificazione dello spostamento di alcune funzioni nelle Regioni, nei Comuni e nelle  Province.
L’affermazione del principio di sussidiarietà non determina una scomparsa, né una riduzione dello spazio delle istituzioni  pubbliche, bensì un profondo cambiamento del loro ruolo.
Alle istituzioni dello Stato spetta principalmente una funzione di programmazione e di controllo: la gestione dovrebbe intervenire solo quando sia indispensabile per garantire la destinazione universale e la qualità delle prestazioni.
A monte di questa impostazione vi è una radicale modifica nella cultura politica. L’interesse pubblico, il bene collettivo non sono esclusivamente una prerogativa dello Stato, non sono dovuti soltanto alla sua azione. Possono essere – e talora anche con più efficacia – perseguiti da organizzazioni di cittadini, da associazioni di volontariato, da imprese che definiamo del Terzo Settore.
È una innovazione non di poco conto.
La centralità passa da chi organizza e gestisce un servizio sociale, alla qualità e alla destinazione di quest’ultimo.
L’applicazione del principio di sussidiarietà non determina sfere separate di competenza tra pubblico e privato, ma crea un sistema articolato al cui interno le competenze vengono divise tra diversi soggetti in grado di agire con efficacia nell’ambito di un fine comune: l’interesse generale. I cittadini, singoli o associati, vengono coinvolti nel perseguimento dell’obiettivo del bene comune e divengono primi tutori di diritti sociali, poiché viene loro riconosciuto il diritto di organizzare e gestire servizi sociali.
Va evidenziata la valenza antitotalitaria della sussidiarietà, che consente di affermare la preminenza della persona contro la pretesa per cui solo lo Stato è in grado di conoscere i bisogni degli individui e rispondere a questi in modo adeguato.
Siamo però ben lontani dall’ideologia liberale, secondo cui il ruolo dello Stato è ridotto all’assolvimento di poche funzioni essenziali. Il liberalismo, inoltre, ha come caposaldo l’individualismo, che mal si concilia con lo spirito della solidarietà. La profonda crisi economica in cui ci troviamo tuttora è proprio figlia dell’ideologia neo-liberale dominante dall’inizio del nuovo millennio.
La sussidiarietà, invece, valorizza le potenzialità dell’individuo finalizzate all’interesse generale. Si fonda sulla persona che non è soltanto un “Io” ma al tempo stesso un soggetto che ha una parte del suo senso di vita nella relazione con “gli altri”. La società contemporanea vede un processo di affermazione della soggettività individuale: questo esito riguarda i rapporti con la politica, le istituzioni, le stesse fedi religiose. Occorre non ignorare questo approdo, ma neppure rassegnarsi ad esso: in forme nuove bisogna ricostruire “legami”, collegamenti, relazioni, altrimenti il bene comune non trova fondamenti su cui realizzarsi.
Lo Stato non abdica in alcun modo ai suoi doveri. Non ci troviamo di fronte all’incentivazione dello spontaneismo sociale o di una sorta di anarchia d’iniziativa.
La sussidiarietà orizzontale fu anche oggetto di dibattito all’interno dell’Assemblea Costituente che scrisse la nostra Costituzione, in particolare nella prima Sottocommissione. Ciò non deve stupire, dal momento che la persona umana è fulcro del sistema costituzionale elaborato tra il 1946 e il 1947. L’idea della centralità della persona e delle comunità intermedie era condivisa dal pensiero dei costituenti e, pur nell’ambito delle differenti prospettive delle famiglie politiche rappresentate, si trattava di una base che accomunava tutte le posizioni politiche, dalla dottrina cristiana al pensiero socialista.
La concezione pluralista e il concetto di Stato sociale, entrambi elementi cardine della Carta, si conciliano perfettamente con il contenuto del principio di sussidiarietà e con la promozione degli organismi sociali, costituendone quindi una sorta di presupposto naturale.

È proprio in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo che è importante attuare, dare gambe concrete, alla concezione di welfare society, che vanta una lunga tradizione nel nostro Paese. In esso troviamo l’idea di mercato e di società che parte dal basso, dall’iniziativa di persone singole, associazioni, imprese che si mettono insieme per costruire opere sociali. Dobbiamo saper valorizzare la capacità e l’esperienza che abbiamo nel nostro Paese di fare impresa sociale e assistenza dei più deboli: è una caratteristica che ci distingue dagli altri. È necessario che lo Stato valorizzi il ruolo dei corpi intermedi. Ed è proprio nell’ambito dell’azione del terzo settore che il principio della sussidiarietà orizzontale trova la sua migliore affermazione, perché le formazioni sociali che si impegnano nel terzo settore operano con le stesse finalità del pubblico.
Accettare la logica di uno Stato retto sul principio di sussidiarietà significa accogliere una prospettiva per la quale lo Stato promuove l’impegno dei cittadini, ne sollecita una responsabilità a fare, anziché a essere solo destinatari di politiche e servizi. Significa credere in uno Stato presente ma che sa riconoscere l’inestimabile e insostituibile ruolo delle associazioni di volontariato che operano nel campo dell’assistenza, della cura, dell’integrazione.
L’ex primo ministro britannico Tony Blair è stato uno dei primi leader europei che ha voluto e saputo porre all’attenzione della politica la necessità di uno sviluppo del modello sociale europeo, lavorando a una grande e coraggiosa riforma. È questa infatti la via per farlo corrispondere oggi alle esigenze della società, dopo che ha svolto una fondamentale funzione di progresso nella fase della rivoluzione industriale.
In un suo discorso , Blair disse che “così come ci siamo spostati dalla produzione di massa nell’industria, dobbiamo allontanarci dalla produzione di massa nelle azioni dello Stato. Al centro del servizio o della struttura, entrambi aventi il diritto e la responsabilità di cogliere le opportunità offerte e di svilupparne i risultati, ci deve essere l’individuo. Compito del governo è di facilitare non di imporre. La natura dell’offerta – pubblica, privata o del settore volontario – diventa meno importante dell’erogazione di un servizio come lo vuole l’utente. Al posto della rigidità e dell’uniformità subentra la flessibilità e l’adattabilità”.
Blair sottolineava in particolare due aspetti: la centralità della persona e la qualità del servizio erogato che è più importante della sua genesi, pubblica piuttosto che privata.

È dunque indispensabile operare per umanizzare economia e società, saper cambiare il mercato, introducendovi dei protagonisti orientati – nella ricerca dell’efficienza – anche dal dono, dalla gratuità, dalla solidarietà. E ciò tanto nelle attività economiche e produttive quanto in quelle sociali.
Si tratta dunque per le istituzioni dello Stato – se si condivide questo obiettivo di fondo – di sostenere la crescita, la presenza, il ruolo di questi nuovi protagonisti: quello che si è soliti chiamare Terzo Settore.
Vi sono scelte legislative e finanziarie da compiere.
Le risorse per sanità, assistenza, interventi sul disagio non devono essere negoziate ogni anno o rimesse in discussione con il cambio delle coalizioni di governo. È indispensabile una programmazione pluriennale.
L’istruzione e la formazione sono centrali: qui trova fondamento la ricerca di un equilibrio tra uguaglianza e merito, che, nelle nostre condizioni, oggi significa realizzare una uguaglianza di opportunità.
E’ fondamentale “modificare” il rapporto tra cittadini e Stato, anche rispetto alla affermazione indispensabile dei “doveri”. Come ad esempio le tasse.
Vi è un disegno di legge per rendere stabile il 5 per mille presentato in modo bipartisan, ma fermo alle Camere, ormai da più di un anno: il governo non ha ancora indicato alcuna forma di copertura finanziaria.
Per quanto riguarda la situazione attuale, il 23 aprile scorso è stato varato il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri che definisce modalità di iscrizione e criteri di ammissione al riparto dei fondi per i soggetti interessati per l’anno 2010.
La legge finanziaria del dicembre 2009 ha previsto uno stanziamento di quasi 400 milioni, a fronte degli 800 necessari, fondi che vanno a copertura dell’anno 2007! Il disegno sul 5 per mille è serio, utile non soltanto alle organizzazioni del Terzo Settore, ma anche a costruire un rapporto di fiducia tra cittadini e Stato: non è un caso che ben 16 milioni di persone che pagano le tasse su 26 milioni, abbiano scelto di dare una finalizzazione al 5 per mille. Occorre al tempo stesso sottolineare nuove attenzioni che vengono dal mondo del credito, da importanti istituti bancari che hanno messo a punto specifiche linee di intervento per il Terzo Settore, sia per aiutarlo a fronte dei ritardi con cui vengono erogati i contributi assegnati dalle istituzioni pubbliche, sia per individuare nuovi strumenti di valutazione – differenti da quelli basati sulle garanzie di tipo tradizionale – per il sostegno dei progetti da portare avanti. E un tale orientamento è importante non solo nei confronti del Terzo settore, ma più in generale verso il mondo delle imprese.

Voglio ora tornare all’apertura di questo mio intervento: alla questione della subalternità della politica rispetto all’economia.
Le riforme sono tornate ad essere un tema attuale del confronto politico. È bene che sia così, e le ragioni sono da attribuirsi proprio a questa esigenza che la politica ha di non ricoprire una posizione di inferiorità.
Sono vitali e si tratta di un processo da condurre in Parlamento, di comune accordo e con metodo democratico.
La democrazia moderna ha bisogno di trovare un suo equilibrio nella valorizzazione sia del Governo che del Parlamento.
L’efficienza non si realizza mediante una diminuzione del tasso di rappresentatività, ma semmai attraverso una sua qualificazione ed una capacità di coinvolgere in modo attivo i cittadini, anche utilizzando le potenzialità collegate alle moderne tecnologie di comunicazione.
In questo quadro, per quanto attiene alla forma di governo dovrebbero essere modificati i seguenti articoli della Costituzione:
Revisione dell’articolo 92 attribuendo al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di nomina e di revoca dei membri del Governo.
Revisione dell’articolo 94 stabilendo che sia il candidato alla Presidenza del Consiglio – indicato al Presidente della Repubblica dalla coalizione o dal partito che ha vinto le elezioni – a ricevere, sulla base della presentazione del programma di Governo, la fiducia dal Parlamento. In altri termini dovrà essere adottata una procedura per la fiducia simile a quella seguita in Paesi come la Germania e la Spagna. Revisione dello stesso articolo istituendo che la sfiducia sia condizionata all’attribuzione della fiducia ad un altro candidato (sfiducia costruttiva) purché all’interno di una stessa coalizione, per non dare spazio a ribaltoni.
Revisione degli articoli 88 e 94 prescrivendo la possibilità, per il Presidente del Consiglio, di porre la questione di fiducia alle Camere e, nel caso venisse negata, proporre al Presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle stesse, salvo che non sia presentata entro un certo termine una mozione di fiducia nei riguardi di altro candidato.
Il complesso di riforme costituzionali così delineato deve essere accompagnato dalla riduzione del numero dei parlamentari – 300 deputati e 150 senatori – e dalla conseguente modifica degli articoli 56 e 57 della Costituzione.
Un’altra fondamentale modifica della Costituzione è quella relativa al superamento dell’attuale bicameralismo paritario.
Tale modifica si renderebbe necessaria per poter superare le radicate patologie che hanno caratterizzato l’evoluzione del bicameralismo italiano degli ultimi decenni e configurare il Parlamento, così centrale ed essenziale per la vita democratica del Paese, in modo da rappresentare anche il sistema pluralistico delle autonomie, secondo i princìpi generali dell’articolo 5 della Costituzione e a completamento della riforma avviata nel 2001 con la modifica del Titolo V, Parte II, della Costituzione.
La tendenza, che viene storicamente affermandosi, verso nuove forme di federalismo consiglia di indirizzarsi verso un Senato da configurare come Camera delle Autonomie, nella quale possano trovare rappresentazione gli interessi delle Regioni e delle Autonomie locali. Il Senato ha infatti la vocazione ad essere la sede della rappresentanza territoriale. Il primo comma dell’articolo 57 che ne definisce la “base regionale” come fondamento è lì a testimoniarlo.
Sul ruolo del Senato sono state recentemente avanzate proposte nuove, che modificano il punto a mio avviso più debole della cosiddetta bozza Violante.
E su queste proposte si è avuta una generale convergenza delle forze politiche. La bozza Violante prevedeva che il Senato diventasse una Camera eletta non a suffragio universale diretto da parte dei cittadini, ma con un sistema in parte di II grado (i consigli regionali), in parte addirittura di III grado (i consigli regionali delle Autonomie, a loro volta eletti da Comuni e Province). Se questa dovesse essere la strada, allora è meglio scegliere di avere una sola Camera. Ma se il Senato continua ad essere eletto direttamente dai cittadini è difficile che possa essere privato della elezione del Presidente del Consiglio oppure, nella situazione presente,  della fiducia al Presidente del Consiglio e al Governo. D’altra parte, se nella differenziazione delle competenze, che seguiranno il superamento del bicameralismo perfetto, il Senato si occuperà in modo privilegiato  del rapporto tra Unione Europea, Stato Centrale, Regioni, Autonomie, il Governo non potrà in questo campo non avere punti cruciali del suo programma. In quei casi verrebbe a verificarsi la circostanza per la quale il Senato non partecipa a eleggere o a sfiduciare il Presidente del Consiglio, ma può subire l’apposizione della questione di fiducia da parte del Governo. Allora se la soluzione sarà quella di due Camere, entrambe elette direttamente dai cittadini, con un minor numero di parlamentari e la differenziazione delle funzioni, dovrà essere prevista – per la elezione del Presidente del Consiglio o le questioni di sfiducia costruttiva – una sessione obbligatoriamente comune, un congresso di Camera e Senato, soluzione attorno alla quale già si era discusso in sede Costituente. Su questi aspetti si sono registrate interessanti convergenze.
Le posizioni di maggioranza ed opposizione sono vicine anche per ciò che riguarda la riduzione del numero di parlamentari e sull’attuazione del federalismo.
Sono riforme che potrebbero essere fatte subito. Sulla forma di Governo e sulla legge elettorale ci sono maggiori distanze, ma la discussione resta aperta: mi auguro che possa svolgersi con un confronto serio, senza luoghi comuni e pregiudiziali.