Martedì 23 novembre 2010. Aula Magna Seminario Vescovile, Pistoia
Ringraziamento per questa occasione di incontro; di riflessione e approfondimento.
Nella politica dei partiti mancano ormai queste sedi: ed è una questione non secondaria, dal momento che la concretezza orientata e coerente con una impostazione di valori, è non solo necessaria, ma indispensabile; senza un riferimento valoriale la politica scade a confuso e ondeggiante pragmatismo.
1)    Da questo punto di vista in  primo luogo l’Enciclica “Caritas in Veritate”, ma anche la Settimana Sociale dei Cattolici a Reggio Calabria hanno dato un contributo forte, per usare una espressione della politica «controcorrente».
Perché faccio questa sottolineatura?
Perché parlare di bene Comune per l’Italia e il mondo, del XXI secolo, è in questi anni, almeno qui da noi, nel nostro paese, in antitesi a impostazioni e pratiche che privilegiano interessi di parte, spesso personali o al massimo di fazione, mortificando le istituzioni della democrazia.
È in antitesi a una politica ma anche a un modello di affermazione sociale fondato sulla ricerca del successo individuale ad ogni costo e con ogni mezzo.
È tutto questo che provoca sfiducia nelle istituzioni della democrazia, distacco dalla politica, una specie di boomerang che rende quest’ultima più sterile e povera.
È un degrado, da non sottovalutare, rispetto al quale non essere indifferenti, che va contrastato con una riaffermazione di valori di riferimento.
Del resto quelli fondamentali, che aiutano a immetterci in binari diversi, sono iscritti nella Costituzione.
2)    Dalla dottrina sociale della Chiesa a me sembra vengano all’agire politico in modo costante tre questioni basilari, ogni volta affrontate nel concreto del tempo storico: la concezione della persona; la sussidiarietà; il bene comune. In questa Enciclica, a partire da qui, e di fronte ai processi che definiamo «globalizzazione», emergono contributi di straordinaria forza innovativa per un cambiamento della cultura politica.
Vi è poi un discorso specifico rivolto all’Europa sulla laicità, che affronterò nella parte conclusiva del mio ragionamento.
La persona è centrale. È – deve essere – il soggetto, non l’oggetto della vita economica, politica, culturale, della scienza. Ciò è ancor più necessario di fronte al riproporsi di una questione antropologica. Il compito della politica, della «buona politica», è dar vita alle condizioni che consentano la tutela e affermazione della dignità della persona: e questo è anche il metro di valutazione della qualità degli ordinamenti sociali.
La persona non coincide con l’io individualistico, isolato in sé stesso: è un «io», e dunque dotato di una legittima aspirazione a realizzarsi, a valorizzare la sua creatività, i talenti di cui è dotato; ma al tempo stesso è un «noi», cioè ha necessità di relazioni con gli altri, di responsabilità nei confronti degli altri. Senza un riferimento anche alla comunità, la persona perde di senso, impoverisce la sua esistenza.
Sta qui un fondamento etico – valido per credenti e diversamente credenti  (per usare una espressione adeguata del Cardinale Martini) – del nesso indissolubile tra diritti e doveri.
È necessario civilizzare l’economia e il mercato. Non è all’altezza dei nostri tempi né funziona avere un’economia guidata da spiriti egoistici e poi assegnare al welfare compiti di solidarietà e redistribuzione. A partire da questi temi, crisi del welfare, rinnovamento della democrazia, centralità della persona, occorre rinnovare la cultura politica e darsi obiettivi programmatici coerenti.
Spazio non solo per uno “scambio tra uguali”, ma anche per presenze solidaristiche e mutualistiche. Agevolazioni alle imprese non profit o che investono nel sociale.
Lasciare il campo alla sussidiarietà. Ma quest’ultima non si afferma pienamente senza una espansione della democrazia. Nello specifico se la democrazia non permea di sé i luoghi di lavoro.
E si ha in questa ricchezza relazionale con gli altri, che rende centrale ogni persona, la traduzione nella dimensione sociale e politica di quel principio cardine di ogni religione: ama il prossimo tuo come te stesso (in alcuni credi religiosi formulato come “non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te”).
La sussidiarietà esprime un corretto rapporto tra istituzioni dello Stato, a tutti i livelli (l’Enciclica lo pone in riferimento a esigenze inedite di una governance mondiale; dell’Europa non solo nel quadro delle singole nazioni) e centralità della persona.
Due sono oggi i rischi di un approccio al tema della sussidiarietà.
Il primo: dietro al riferimento alla sussidiarietà non può nascondersi il disimpegno dello Stato nei confronti di politiche pubbliche necessarie a garantire ai cittadini giustizia e uguaglianza. Senza uguaglianza, non vi sono opportunità di vita che consentano alla persona di realizzarsi e al merito di affermarsi per il valore della intelligenza e dell’impegno e non come effetto di una rendita di posizione.
L’Italia è una società a scarso, e quasi nullo, dinamismo sociale: le famiglie nelle quali si nasce condizionano in larga misura il destino dei giovani. La nostra è una società invecchiata, nella quale 600.000 bambini e ragazzi nati da genitori extracomunitari  – sono dati della Settimana Sociale – vivono tra noi, frequentano le scuole, ma giuridicamente non sono italiani.
La scuola e la formazione sono ancor più oggi il perno di una uguaglianza di opportunità e la via maestra dell’innovazione e del progresso.
In Italia si stanno accentuando i divari tra ricchezze e povertà: ma, come è ovvio, questa deriva non riguarda solo il nostro paese.
Darò tra un attimo alcune cifre dei divari tra privilegi e miseria, nel mondo.
Vengo ora all’altro, opposto, rischio che corre la sussidiarietà: è quello di una ingerenza dello Stato, nelle sue varie articolazioni anche territoriali, nella vita dei cittadini; un voler far coincidere con il pubblico e dunque con la garanzia di assicurare il bene comune, il solo momento istituzionale, non rendendosi conto che per questa via si sconta un eccesso di insostenibile burocratizzazione delle prestazioni e si favoriscono nei cittadini atteggiamenti di delega, di perdita di impegno e di responsabilità.
Scrive il Papa: “Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l’adesione, l’agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al ‘dare per avere’, proprio della logica dello scambio, e al ‘dare per dovere’, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato”.
3)    Vorrei ora dire, in modo altrettanto schematico, il contributo straordinario che, secondo me, può – potrebbe – venire alla cultura politica dall’Enciclica “Caritas in Veritate”. Intanto tutti questi aspetti a cui ho fatto riferimento – persona; sussidiarietà; bene comune – questa enciclica ce li riconsegna spesso arricchiti e inseriti nel quadro del nostro tempo: siamo di fronte alla prima enciclica dell’epoca della globalizzazione e della rivoluzione informatica e telematica.
L’Enciclica sollecita la politica a uscire dalle Colonne d’Ercole del XX secolo, al cui interno spesso ci attardiamo.
A)    A fondamento dell’Enciclica vi è la critica della separazione tra economia e società, tra un regno che legittima gli spiriti selvaggi, gli egoismi, il profitto senza regole, per i modi nei quali si realizza e per la sua destinazione, e un mondo del sociale al quale viene affidato – attraverso spesso la politica, ma una politica subalterna alla finanza – il compito di ridurre il danno, di risarcire per quanto possibile le disuguaglianze.
Questa divisione, sancita da secoli di teorie economiche e di storia concreta del progresso umano, non regge più: il Papa indica l’obiettivo di un suo superamento come condizione per l’umanizzazione dell’economia, per la realizzazione di una “economia civile e di comunione”.  Ne discende per noi una sollecitazione ad andare oltre le culture politiche del XX secolo, che avevano accolto tutte  (sia quelle conservatrici che quelle socialdemocratiche) la separazione tra economia e sociale, pur differenziandosi tra di esse – e non è certamente un aspetto marginale – rispetto al ruolo, alla priorità, alle risorse da assegnare al welfare.
Condivido dunque la valutazione di Giancarlo Zizola  secondo il quale siamo davanti a “un’enciclica post-capitalista”.
Si tratta allora, come compito concreto, di favorire anche nella vita economica – e nel welfare  – la presenza di una pluralità di soggetti, sia quelli che si muovono sulla base del profitto, correttamente inteso, realizzato e gestito, sia quelli che si organizzano sulla base della mutualità, e non dunque fondato sullo scambio di equivalenti.
Questa prima Enciclica del tempo della globalizzazione esprime l’inquietudine di fronte alla gravità della crisi che ha colpito il mondo, sul finire del primo decennio del nuovo secolo: si ricollega, aggiornandola, alla impostazione che aveva guidato la “Populorum Progressio” di  Papa Paolo VI.
Benedetto XVI sottolinea “l’importanza del Concilio Vaticano II  per l’Enciclica di Paolo VI e per tutto il successivo Magistero sociale dei Sommi Pontefici”. E aggiunge: “Il Concilio approfondì quanto appartiene da sempre alla verità della fede, ossia che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità”.
La “Populorum Progressio”, reca in sé  “lo splendore della verità e la luce soave della carità” ,  indirizza verso uno sviluppo umano integrale: permette agli uomini di cogliere il Vangelo di Cristo nel mondo moderno.
La “Caritas in Veritate” contiene molte critiche ai punti forti dello sviluppo, se si vuole delle logiche che guidano l’attuale organizzazione del capitalismo: il fallimento dell’ideologia del puro profitto, svincolato da ogni responsabilità sociale e nei confronti del bene comune; lo scandalo delle disuguaglianze clamorose, della corruzione, del saccheggio delle risorse nel sud del mondo; l’assunzione del mercato a dogma assoluto, divino, anziché a strumento posto al servizio della persona; la deregolamentazione del mondo del lavoro, con la perdita di diritti fondamentali, la distruzione di risorse energetiche non rinnovabili.
Cito dall’Enciclica: “L’attività economica – dice Benedetto XVI – non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione”.
E ancora.
“Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano”.
Occorre, “una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo”.
Il Papa ha parole forti contro la mercificazione della cultura e l’impossibilità per molti di un accesso all’istruzione; il permanere della fame, che miete vittime innocenti; la sofferenza e le speranze che muovono i migranti e la concezione che li riduce a semplice merce; l’esistenza di guerre che, dietro il velo di motivi religiosi, nascondono una volontà di dominio.
Dietro a tutto ciò vi è anche la subalternità della politica e degli Stati all’economia e alla finanza.
È giusto osservare che dopo la caduta dei regimi del cosiddetto socialismo reale nell’Est europeo, le sinistre, le forze progressiste sono come divenute afone, in molte parti del mondo, certo in Europa, o comunque incapaci di una critica alle contraddizioni e alle ingiustizie dell’attuale modello di sviluppo. Sono stati Giovanni Paolo II con la “Centesimus Annus” e ora Benedetto XVI con la “Caritas in Veritate” a denunciarne con più forza e efficacia la insostenibilità.
4)    “La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”: in questa frase dell’Enciclica è condensato con efficacia e grande sintesi un giudizio sulla nostra epoca.
Non paura della globalizzazione o sottovalutazione delle sue potenzialità; non acritica accettazione di questa «globalizzazione», lasciata a sé stessa, senza regole, senza un governo che la finalizzi al Bene Comune.
La mancanza di fraternità – affermava già la “Populorum Progressio” – è la causa di fondo del sottosviluppo.
Oggi una globalizzazione senza regole priva di giustizia e di sicurezza le nostre società: da qui tanti preoccupanti sbandamenti, tante chiusure egoistiche nei confronti degli altri, in particolare degli immigrati e dei più deboli.
Nel mondo, nelle aree a minore sviluppo, milioni di persone sono private del diritto a una vita dignitosa, dell’accesso all’acqua, alla sanità, all’energia elettrica, all’istruzione.
È giusto avere davanti agli occhi almeno i numeri di questa tragedia umana, non dovuta a fatalità, ma agli indirizzi di questo modello di sviluppo: vedendo dietro i numeri le persone – bambini, donne, anziani – che ne sono vittime.
Su una popolazione mondiale attorno ai 7 miliardi, oltre 1 miliardo sono i denutriti in modo cronico; 2 miliardi quelli che non hanno accesso ai farmaci; quasi 900 milioni non hanno a disposizione acqua potabile; 924 milioni quelli senza tetto o che vivono in case precarie; 1 miliardo e 600 milioni quelli che non hanno accesso all’energia elettrica; 2 miliardi e mezzo quelli che non dispongono di sistemi di fognature; 774 milioni sono gli adulti analfabeti; 18 milioni muoiono ogni anno a causa della povertà, e in maggioranza si tratta di  bambini con meno di cinque anni; 218 milioni di bambini tra i cinque e i diciassette anni lavorano in condizioni di schiavitù, svolgono compiti pericolosi come soldati o sono costretti alla prostituzione.
Infine un dato complessivo, che riassume in sé  le tendenze di questo nostro tempo: tra il 1988 e il 2002 il 25% più povero della popolazione ha visto ridursi la propria partecipazione al prodotto interno lordo mondiale dall’1,16% allo 0,92%, mentre il 10% più ricco ha accresciuto il suo benessere passando dal 64,7% al 71,1% .
Questo solo aumento di ricchezza del 6,4% sarebbe sufficiente a duplicare il reddito a disposizione del 70% della popolazione mondiale, salvando vite umane e riducendo le sofferenze di milioni di persone.
Fino ad ora la politica è stata impotente anche di fronte a questa redistribuzione non delle ricchezze possedute, ma semplicemente del loro incremento nell’arco di poco più di un decennio.
In questo contesto l’Enciclica, riafferma non solo – come ho già richiamato – quella centralità della persona umana, che è un fondamento della dottrina sociale, e dalla cui ottica vengono valutati gli ordinamenti e il progresso della società: questione  sociale e questione antropologica sono strettamente unite.
L’ambiente, più che in ogni precedente documento, è assunto come priorità: la terra diviene – sottolinea l’enciclica – il Bene Comune del nostro tempo. Deve essere difeso e valorizzato per le generazioni che verranno, ancora una volta contro le tendenze di un modello di crescita, che lo considera una merce da consumare per ricavarvi un utile.
Si pone alla politica la necessità di costruire quella governance, anche  a livello mondiale, di cui l’Enciclica parla, ponendo la questione delle Nazioni Unite, della cooperazione internazionale, della stessa Europa.
È su questi obiettivi che deve misurarsi una politica all’altezza dei compiti del Terzo Millennio: in caso contrario permarrà una sfasatura tra la globalizzazione dell’economia, della finanza e non generalizzazione dei diritti umani.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è sostanzialmente la fotografia della Seconda Guerra Mondiale: ne mancano Stati che sono protagonisti – per forza economica e demografica – del XXI secolo. Basti pensare a India e Brasile.
Ne mancano aree-continente come è invece indispensabile: l’Africa in primo luogo. La stessa Unione Europea ne è assente in quanto tale, mentre ne fanno parte Francia e Gran Bretagna.
Il diritto di veto blocca i processi decisionali.
In queste condizioni l’Onu non riesce ancora ad essere quell’embrione di governo mondiale, di cui vi è bisogno, per costruire la pace, garantire ovunque il rispetto dei diritti umani, la sostenibilità ambientale dello sviluppo, indispensabile ad affrontare le sfide del clima, che già oggi accentuano divari nelle condizioni di vita.
Nel nostro continente ci è chiesto di portare a compimento la costituzione politica dell’Unione Europea, una democrazia sovranazionale che sappia renderla una grande potenza civile, protagonista nel contribuire a realizzare quegli obiettivi di sviluppo più giusto, sostenibile, di nuove relazioni internazionali, dei quali abbiamo parlato.
La crisi di questi anni ci dice quanto vi sia bisogno di Europa, e quanto l’Unione Europea sia ancora al di sotto dei due compiti: nel realizzare la pace, basti pensare al suo ruolo in Medio Oriente; nell’impostare e affermare non solo un risanamento attraverso riduzioni – pur necessarie – della spesa pubblica, ma anche attraverso un progetto di sviluppo.
Vi sono da colmare i deficit di efficacia nella decisionalità democratica, conseguenti all’allargamento, da 15 a 27 Paesi, nonostante i progressi del Trattato di Lisbona, in buona parte ancora da attuare.
Vi è soprattutto un’anima, una identità, che l’unione deve assumere, il senso di una missione, di un ruolo, che precede e orienta, cementandola, la coesione tra i suoi popoli.
Su questo aspetto tornerò tra poco, come ultima considerazione: esso riguarda anche un compito, per me indispensabile, delle religioni e in primo luogo del cristianesimo.
Intanto voglio sottolineare come una riforma degli Stati nazionali e delle loro istituzioni, deve guardare all’Europa ed essere coerente con la costruzione dell’Unione Europea: vale anche per quello che definiamo federalismo, se non  vogliamo nascondere dietro questa parola il ministatalismo del XIX secolo.
5)    Ancora alcune parole sul tema della sussidiarietà perché decisiva domani ancora più di oggi, proprio di fronte alle esigenze di costruire forme di governance mondiale e qui, nel nostro continente, una democrazia sovranazionale.
L’interpretazione della sussidiarietà contenuta nell’enciclica “Caritas in Veritate” a me sembra innovi profondamente rispetto alla formulazione che di tale principio diede Papa Pio XI, nel 1931, nell’enciclica “Quadragesimo Anno”.
Cosa è la sussidiarietà come definizione?
Come ho già notato, essa rappresenta una delle architravi della dottrina sociale. Già Papa Pio XI aveva messo in luce la rilevanza sociale delle opere espressione di una complementarietà tra pubblico e privato: “come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. L’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società è quello di aiutare in maniera suppletiva le assemblee del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle”.

Questo principio progressivamente è divenuto una delle regole fondamentali dello Stato democratico moderno e dei suoi rapporti con la società, fino ad essere assunto come riferimento guida e norma dell’Unione Europea. Allo stesso modo è entrato, anche formalmente, nella nostra Costituzione.
L’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione, così come modificato dalla riforma costituzionale del 2001, impegna Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni a favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Il dettato della nostra Carta fondamentale intende introdurre nell’ordinamento italiano, per via esplicita, la sussidiarietà orizzontale, stabilendo che la solidarietà non è prerogativa esclusiva dello Stato, bensì un compito dei cittadini, resi responsabili nella costruzione della convivenza più giusta e avanzata possibile.
Ne discendono alcune conseguenze: la prima riguarda la riforma delle istituzioni. Non è sufficiente ridefinire e riorganizzare le competenze tra lo Stato centrale, le Regioni e le Autonomie locali. È indispensabile cambiare i rapporti tra Stato, nelle sue diverse articolazioni, centrali e locali, e cittadini.
Anzi risiede in questo obiettivo il senso e la giustificazione dello spostamento di alcune funzioni nelle Regioni, nei Comuni e nelle  Province.
L’affermazione del principio di sussidiarietà non determina una scomparsa, né una riduzione dello spazio delle istituzioni  pubbliche, bensì un profondo cambiamento del loro ruolo.
Alle istituzioni dello Stato spetta principalmente una funzione di programmazione e di controllo: la gestione dovrebbe intervenire solo quando sia indispensabile per garantire la destinazione universale e la qualità delle prestazioni.
A monte di questa impostazione vi è una radicale modifica nella cultura politica. L’interesse pubblico, il bene collettivo non sono esclusivamente una prerogativa dello Stato, non sono dovuti soltanto alla sua azione. Possono essere – e talora anche con più efficacia – perseguiti da organizzazioni di cittadini, da associazioni di volontariato, da imprese che definiamo del Terzo Settore.
È una innovazione non di poco conto.
La centralità passa da chi organizza e gestisce un servizio sociale, alla qualità e alla destinazione di quest’ultimo.

La definizione di sussidiarietà che dà la “Caritas in Veritate” non sviluppa la concezione originaria, per così dire “antagonistica”, della nozione: ne mette piuttosto in evidenza i profili per così dire “relazionali”.
Una prima indicazione in tal senso arriva dal contesto in cui tale nuova definizione è inserita, che è dato dalla collocazione all’interno del documento pontificio.
Sebbene infatti il termine sussidiarietà ricorra per tredici volte nell’intero documento, la trattazione più importante ed impegnativa di tale concetto si trova nel Cap. V, dedicato alla “Collaborazione della famiglia umana”, che inizia così: “Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudini. La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale”.
Il testo prosegue poi affermando che il tema dello sviluppo (che è poi quello attorno a cui ruota l’intera enciclica, tant’è che la parola “sviluppo” ricorre ben 250 volte) “coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell’unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace”.

È a questo punto del Cap. V, dedicato come si è già detto alla “Collaborazione della famiglia umana”, dopo aver a lungo e da diverse prospettive sottolineato l’importanza della relazionalità come elemento essenziale dell’umano, che l’enciclica afferma che “Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano”.

La sussidiarietà inoltre favorendo “la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità”, favorisce lo sviluppo di soggetti liberi, attivi, responsabili e solidali, capaci di prendersi cura del bene comune.
Questa concezione della sussidiarietà come principio suscitatore di energie, di capacità, in una parola di sviluppo, è poi ulteriormente rafforzata dall’affermazione secondo la quale “La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri”.
È un principio rispettoso da un lato dell’autonomia di ciascuno, intesa come capacità di operare scelte di cui ci si può assumere la responsabilità, dall’altro della sua dignità, perché ogni essere umano ha risorse che possono contribuire al proprio ed altrui sviluppo, ovvero è “sempre capace di dare qualcosa agli altri”.

Il nesso fra la sussidiarietà e lo sviluppo, che costituisce il tema di fondo di tutta l’enciclica, è fortissimo, in quanto “Lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana” (par. 17). E dunque la sussidiarietà favorendo “la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità” favorisce lo sviluppo di ciascuno e di tutti.

Ma la sussidiarietà non è soltanto manifestazione di carità e criterio ispiratore della collaborazione all’interno della grande famiglia umana in vista del pieno sviluppo di ciascuno. Essa è anche “espressione dell’inalienabile libertà umana”.

In conclusione, emerge nella “Caritas in Veritate” una prospettiva nuova della sussidiarietà, che si potrebbe definire al tempo stesso personalista e relazionale.
Come s’è visto, da un lato il principio viene in più modi fortemente ancorato alla persona umana, alla sua libertà e dignità, alle sue aspettative di sviluppo.
Dall’altro, questa stessa persona è sempre considerata come parte attiva di una comunità, all’interno di una fitta rete di relazioni intessuta di diritti e di doveri.
Anche per questo il paragrafo successivo a quello appena esaminato afferma con chiarezza che “Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno”.
E la solidarietà è definita con una bella espressione: “sentirsi tutti responsabili di tutti”.
6)    Quello di cui c’è bisogno, secondo Benedetto XVI, è un nuovo umanesimo, che non escluda Dio.
È questo il caposaldo sul quale è possibile fondare la promozione e la realizzazione di forme di vita sociale più giuste e avanzate.
Ritorna nell’Enciclica un aspetto che è centrale nell’opera di Papa Ratzinger: la necessità di una reciproca purificazione tra fede e ragione, di un dialogo per “una cooperazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità” .
È qui che l’Europa torna ad affacciarsi, a rappresentare un riferimento fondamentale, il terreno su cui è importante realizzare una svolta.
Qui, nel nostro continente, correnti filosofiche e culturali come l’illuminismo hanno contribuito a valorizzare la persona umana, il suo ruolo centrale, recuperando concezioni che si erano sviluppate con il Rinascimento e il primo umanesimo: è un percorso difficile, conflittuale, attraverso cui nascerà quella che definiamo secolarizzazione e poi la laicità.
Vengono ridefiniti gli ambiti, i confini del potere temporale e delle istituzioni religiose.
Questo processo – come ha riconosciuto più volte lo stesso Pontefice – ha prodotto esiti fondamentali, acquisiti dalla modernità, sui quali poggiano la libertà religiosa, come diritto della persona e parte integrante della libertà senza aggettivi, e il pluralismo religioso.
Sono valori e conquiste dell’umanità, che oggi vengono posti con forza, giustamente, nei confronti di credi religiosi come l’islam, che ancora non riconoscono, salvo che in pochissimi paesi, l’autonomia della sfera politica e temporale.
Tuttavia, questo ci dice anche il Papa, in Europa, a differenza di altri paesi occidentali, la secolarizzazione e la laicità si sono accompagnate ad una privatizzazione della fede, ad una spinta che ha tolto alle religioni il diritto ad una cittadinanza pubblica, ad una dimensione pubblica, per ricacciarle nel segreto dei cuori e delle coscienze.
È questa la svolta, la correzione da operare.
Risiede in questo la possibilità di un mutuo riconoscimento e di una mutua correlazione, di un reciproco ascolto tra ragione e fede, di cui parlarono a Monaco, in un dialogo fondamentale, l’allora cardinale Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas. Sta qui una delle radici che possono contribuire a costruire un nuovo umanesimo: il riconoscimento di una presenza pubblica delle fedi religiose; la concezione della persona nella sua complessità, non costituita da una sola dimensione, quella fisica, visibile, ma anche da una trascendente, insieme da un’ansia di trascendenza e da un’aspirazione ad essa, quale che sia la risposta, religiosa o meno, che si venga a dare a questo bisogno. Trova qui ragione quella distinzione già richiamata, fatta dal cardinale Martini tra credenti e diversamente credenti; infine la capacità di accogliere la presenza delle fedi religiose non come un residuo di arcaicità, bensì come un sentimento, una convinzione che accompagna il cammino dell’umanità, dà risposta a domande insopprimibili dell’uomo non solo sulla sua origine ma anche su un dopo che segua la morte.
La politica deve liberare la secolarizzazione e la laicità in Europa da ogni pregiudizio anti-religioso: è così che l’Europa potrà ritrovare parole comprensibili anche per il resto del mondo, per i miliardi di uomini che vivono in Asia, inviando un messaggio forte di autonomia delle fedi religiose e della dimensione storico-temporale.
L’Oriente e il resto del mondo non comprendono invece un linguaggio che escluda la religione dalla dimensione pubblica. In questo senso l’aver rifiutato il richiamo alle radici cristiane dell’Europa nel Preambolo del Progetto di Costituzione, fu un errore: era il riconoscimento di una verità storica, non una negazione di laicità e pluralismo religioso. Al contrario avrebbe rappresentato un contributo per dare spessore ad una necessaria identità europea.
Senza un ruolo delle religioni, un dialogo ed una comprensione tra di esse, non sarà del resto possibile né porre le fondamenta per la pace né affermare i fondamentali diritti umani né assicurare una accoglienza e una integrazione positiva agli immigrati nelle nostre società né impostare uno sviluppo ancorato alla centralità della persona umana e alla sostenibilità ambientale.
Senza il contributo delle religioni non sarà possibile nel tempo presente “civilizzare la globalizzazione”.
È motivo di speranza  (e non deve rappresentare occasione di paura) per la politica – che ha bisogno di valori condivisi – il fatto che le religioni stiano prendendo una più grande consapevolezza dello stretto collegamento esistente tra ingiustizie sociali, disastro ecologico, questione antropologica.
È su questa strada, nel reciproco rispetto di compiti, responsabilità, autonomie, che si può operare per rendere la società più giusta e a misura della persona.

Discorso di Benedetto XVI, alla Curia Romana, per il Natale 2006.
“Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l’uomo di suoi specifici criteri di misura.
D’altra parte è necessario accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione”.