La settimana scorsa avevo preannunciato un intervento sulle politiche ambientali, ma il dato sugli stipendi diffuso domenica scorsa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico mi sembra di più stretta attualità: l’Italia è al 23/o posto fra i 30 paesi membri dell’Ocse per livello dei salari. Lo studio prende in esame un lavoratore dipendente tipo che non ha famiglia a carico: in Italia guadagna 15.800 euro nette l’anno.
Nell’Europa a 15 membri la media è superiore ai 20.000 euro.
La cosa più preoccupante è che davanti a noi in quella classifica ci sono paesi come la Grecia, la Nuova Zelanda, l’Islanda. Solo Portogallo e paesi dell’est sono dietro di noi.

Un aspetto in particolare colpisce: la differenza tra il lordo e il netto delle busta paga incide pesantemente su questa nostra posizione di retroguardia. Nella classifica relativa alla pressione fiscale sugli stipendi siamo al 6/o posto, con un prelievo di imposte e contributi pari al 46,5%.
Il Governo Prodi aveva ben presente il basso livello degli stipendi degli italiani: il dato diffuso dall’Ocse non è nuovo. I nostri lavoratori guadagnano troppo poco da molti anni.
Già con la prima legge Finanziaria – pur dovendo affrontare un risanamento dei conti pubblici consistente, visto che la destra li aveva sfasciati – avevamo deciso, come promesso in campagna elettorale, di ridurre le tasse sia sui lavoratori che sulle aziende. In totale vennero stanziati 5 miliardi di euro. Per le imprese venne stabilita una riduzione del 3% applicabile sui lavoratori assunti a tempo indeterminato.

L’intervento in favore dei lavoratori venne fatto con una riduzione di tasse per la fascia di reddito inferiore ai 40.000 euro.
Il Governo Prodi aveva ben chiaro anche un altro aspetto: l’evasione fiscale costituisce una forma di comportamento sleale nei confronti di quanti hanno la trattenuta delle tasse alla fonte, cioè proprio quegli italiani che guadagnano in media 1200 euro al mese più la tredicesima.
Il Ministro Padoa Schioppa e Visco misero in campo una lotta serie e forte all’evasione fiscale, proprio per redistribuire le risorse a favore dei lavoratori e per ridurre il macigno del debito pubblico.

Era interesse dell’Italia che questa politica proseguisse. Invece il Governo di destra l’ha abbandonata. Non c’è nessuna politica dei redditi, se non l’inutile detassazione degli straordinari (siamo nel pieno di un crollo della produzione, chi fa gli straordinari?); sull’evasione è evidente un allentamento dei controlli.
Si deve porre al centro di una politica riformista la riduzione delle tasse sugli stipendi e l’aumento del potere d’acquisto.
Da più parti si sottolinea anche la necessità della riforma del sistema contrattuale, per legare di più i salari alla produttività. E’ un dibattito che ha un fondamento. Ma voglio aggiungere che deve anche essere l’occasione per un confronto e per costruire un’intesa tra tutte le parti sociali e il Governo. Compito della politica è di realizzare un equilibrio tra esigenze delle imprese e tutela dei diritti e degli interessi dei lavoratori, rappresentati dai sindacati.

Al di fuori di questo non si realizza nessuna concreta prospettiva di sviluppo. Dei sindacati, nelle moderne società democratiche, vi è un grande bisogno: attraverso di essi i lavoratori possono pesare nelle decisioni dell’economia e partecipare alla vita delle aziende. Un sindacato autorevole è indispensabile anche per isolare l’estremismo e qualsiasi forma di protesta violenta. Non sottovalutiamo quello che è accaduto pochi giorni fa alla manifestazione Fiat di Torino.