Le elezioni regionali hanno rappresentato un terremoto politico. L’Unione non ha soltanto vinto: ha trionfato. Scrivo mentre si sta votando in Basilicata, ma non è un azzardo dire che vinceremo anche in quella Regione. E sarà un 12 a 2. Tanto per dare il senso di quello che si è verificato in pochi anni, si consideri che dopo le elezioni del 2000 la destra governava 12 Regioni su 20: oggi gliene restano 4 e in 2 di queste – Sicilia e Molise – non si è ancora votato. Altro aspetto politico di rilievo: ovunque la destra arretra e fortemente, anche dove, come in Lombardia e Veneto, riesce a conservare la maggioranza.
I cittadini hanno espresso la volontà di una svolta e la rabbia per una situazione sempre meno sostenibile, con il costo della vita tra i più alti in Europa, lo sviluppo bloccato, il lavoro precario o inesistente, le politiche per la salute e l’istruzione sottoposte a colpi di maglio e indirizzate verso una privatizzazione non dichiarata ma reale. Il Mezzogiorno cancellato dalle priorità, abbandonato a se stesso, avvertito come problema e non potenzialità. L’assunzione dei capisaldi della Lega – no al Mezzogiorno e sì alla devoluzione – come asse dell’azione di Governo, è stata la causa prima di una sconfitta senza appello.
Come era prevedibile la batosta elettorale ha spazzato via i veli che coprivano divisioni, contraddizioni, fallimenti della destra al Governo. Quello che emerge, quale che ne sia l’esito immediato, è una crisi vera e profonda della destra. Ciò che è messo in causa è la sua identità, non semplicemente le priorità di un programma. Lega Nord e Forza Italia hanno stabilito, un asse attorno ad un mix ideologico rappresentato da liberismo – populismo – devoluzione. Non è questo l’orizzonte di una destra europea. E’ un tale asse cultural-politico che rende per un verso marginale, per l’altro eterogenea la presenza dell’UDC. Alleanza Nazionale ha gestito invece la sua partecipazione al Governo all’insegna della ricerca di una definitiva legittimazione, scontando per questa via una subalternità e rinuncia su aspetti programmatici fondamentali, quali il senso dello Stato e la coesione nazionale. Da un lato il raggiungimento del traguardo del Ministero degli Esteri per Fini, dall’altro la perdita del 5% dei voti (circa un terzo) in quattro anni. Da una parte Fiuggi, la visita a Gerusalemme, la condanna dell’Olocausto; dall’altro le pesanti ambiguità sul 25 aprile e sulla Liberazione, la presentazione di una proposta di legge per equiparare miliziani di Salò, complici dei nazisti, ai partigiani.
E’ questa destra che sta implodendo, per le sue contraddizioni irrisolte. Ha pensato di sostituire ad un progetto per il Paese ed a un minimo denominatore di omogeneità politica e di prospettive, la gestione del potere, la spregiudicatezza nel calpestare le regole, il controllo sui media. Si è messa nelle mani di un padre-capo-padrone, che la tranquillizzava per l’abbondanza dei mezzi finanziari la disponibilità di televisioni, senza preoccuparsi di far vivere una coalizione degna di questo nome, al centro e nel territorio.
Questa destra è in crisi reale anche se, a dispetto dei doveri posti da una democrazia parlamentare, ad oggi non ha ancora aperto la crisi formale del Governo.
Ed è in stato confusionale. Berlusconi ha prima cercato di ignorare il terremoto determinato dal voto, poi ha provato a dare vita ad un rimpasto, con qualche ministro in più, tentando di promuovere addirittura qualche presidente di Regione sconfitto. Ha rilanciato, come se niente fosse, il suo programma (cambiamento della legge elettorale per le politiche, della par condicio, via libera allo sfregio costituzionale, riduzione delle tasse, moltiplicazione del risorse all’economia etc.) Il suo personale, e ormai non credibile, libro dei sogni. Poi ha acconsentito ad una cosiddetta discontinuità programmatica. Non voleva la crisi, per il timore che lo sostituissero alla guida del Governo.
La decisione dell’UDC e del nuovo PSI di far dimettere i propri rappresentanti nell’esecutivo, ve lo costringono. Berlusconi proverà a riappiccicare per 10 mesi la sua coalizione. Vi riuscirà solo se l’UDC si accontenterà di un successo di facciata: crisi anziché rimpasto con nuova fiducia in Parlamento; famiglia e mezzogiorno magari scritti prima di devoluzione. Intanto l’economia peggiora, si fa più difficile la vita della maggioranza degli italiani. La Commissione Europea contesta – come aveva già denunciato il centrosinistra – i trucchi nei conti pubblici e conferma il dissesto provocato dalla finanza creativa della destra.
No, non è tempo di comparsate nel teatrino della politica. L’Italia non può sopportare mesi di non Governo, tra un litigio e di un ricatto.
Né si pensi ad invenzioni di governi istituzionali: non siamo disponibili. Non servirebbero a risolvere le urgenze del paese, ma finirebbero per dare un colpo allo stesso bipolarismo, una conquista importante per la nostra democrazia.
Se non sono in grado di governare, si restituisca la decisione ai cittadini, che sono i veri sovrani.
L’Italia ha bisogno di serenità e di fiducia. Occorre saper mobilitare le sue energie migliori, rimboccarsi le maniche, riuscire ad invertire, come è possibile, il declino.
La destra italiana avverte essa stessa, ormai, che Berlusconi rappresenta un peso, ma non può o non sa metterlo da parte. Questa loro contraddizione non può essere fatta ulteriormente pesare sul paese.
Saranno i cittadini italiani, come già si è visto alle elezioni regionali, a determinare con il voto il congedo della destra. Prima sarà, meglio è.

Vannino Chiti

P.S. Purtroppo sembra si stia realizzando l’ipotesi indicata nell’articolo: Follini e l’UDC si sono accontentati di una “vittoria di Pirro”, un successo apparente e formale ed una sconfitta reale. L’asse Berlusconi – Lega è più forte che mai. La crisi nella coalizione di destra è tutt’altro che risolta.