Nella nostra epoca la democrazia si trova di fronte a nuove e inedite sfide: dopo aver vinto lo scontro con i totalitarismi del ‘900, rischia ora di indebolirsi e soccombere ad opera dei populismi reazionari, dei fondamentalismi religiosi e dei terrorismi. Movimenti di vario segno cavalcano la rabbia, l’aumento delle disuguaglianze – particolarmente accentuato nel nostro paese – e il disagio sociale, colpendo al cuore le istituzioni.
Allo stesso tempo irrompe nel mondo la soggettività femminile, in grado – se valorizzata – di rafforzare la democrazia e cambiare, nel segno dei diritti e della responsabilità, la qualità della nostra convivenza. I cittadini chiedono di prendere parte ai principali processi decisionali che riguardano la loro vita e la determinazione del futuro delle nostre comunità. Il referendum costituzionale del 4 dicembre ce lo ha detto in modo chiaro, così come quello sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Di fronte a grandi scelte i cittadini vogliono decidere, non concedere deleghe. Questo obbliga i partiti e le istituzioni a rinnovarsi per cogliere e valorizzare questa spinta che viene dal basso, a partire dalle fasi di costruzione delle proposte.
La democrazia non vive più nei soli Stati nazionali. Il nostro tempo richiede una globalizzazione dei diritti e delle libertà. L’impegno per una riforma ed un rafforzamento dell’Onu non è meta-politica ma compito attuale in primo luogo della sinistra.
Il rinnovamento della democrazia, la partecipazione dei cittadini, la governabilità sono possibili oggi, in questa parte del mondo, solo dando vita ad una democrazia sovranazionale europea. Questo obiettivo si realizzerà recuperando lo spirito e i valori su cui era sorta, se saprà saldarsi alle lotte per la libertà, i diritti, l’uguaglianza e per uno sviluppo ecologico in grado di offrire opportunità a tutti di un lavoro degno. È questo impegno, non la retorica del passato, che caratterizza la missione politica della sinistra nel XXI secolo. Dobbiamo prendere nelle nostre mani la difesa del ruolo dell’Unione Europea nel garantire, dopo secoli di conflitti sanguinosi e di due guerre mondiali, pace, libertà, diritti umani, democrazia e la bandiera per gli Stati Uniti d’Europa, intanto affidando all’Unione la politica estera e di sicurezza, il governo delle migrazioni, l’affermazione dei diritti sociali fondamentali, la risposta ai cambiamenti climatici.
Su queste materie il Parlamento europeo deve svolgere una funzione di indirizzo e controllo e la Commissione quella di un governo federale. Il suo presidente deve essere legittimato democraticamente dai popoli, non scelto tra i governi.
È importante, da subito, rafforzare una cooperazione tra istituzioni sovranazionali, quelle nazionali e regionali.
In Italia per il rinnovamento della democrazia e dei suoi strumenti, individuiamo quattro temi di rilievo.
– Realizzare nelle grandi imprese forme di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione, così come avviene nella Repubblica Federale di Germania. Norberto Bobbio sottolineava come non possa vivere in modo efficace una democrazia relegata nelle sole istituzioni, senza affermarsi anche nei luoghi della produzione.
– La legge elettorale è un aspetto decisivo per aprire o chiudere alla partecipazione. Il porcellum ha prodotto danni non calcolabili alle nostre istituzioni e al loro rapporto con gli italiani. Dal 2006 ad oggi, a causa delle liste bloccate che hanno sostituito gli eletti con i nominati, abbiamo assistito ad un crollo del prestigio e dell’autorevolezza del Parlamento. Non esiste più un rapporto continuo con i territori, un rendere conto a chi ci elegge, una conoscenza delle esigenze prioritarie.
Dobbiamo ripartire da due punti fermi: collegi uninominali perché siano i cittadini a eleggere i loro rappresentanti in Parlamento, attraverso una attribuzione dei seggi con criterio proporzionale in base alla migliore cifra elettorale tra i candidati dello stesso partito o coalizione, ricreando un rapporto tra un nome, un volto, una personalità e chi esprime il voto; meccanismi che favoriscano la governabilità, senza imporla con forzature che mortifichino la rappresentanza. Come hanno sottolineato il Presidente della Repubblica e la stessa Corte costituzionale, è indispensabile avere leggi che garantiscano maggioranze parlamentari omogenee tra Camera e Senato.
In ogni caso, dovremmo cominciare a valutare un nuovo modello nel rapporto tra partito ed elettore, basato sull’offerta politica, costituita dal programma e dalla qualità delle candidature.
– Bisogna introdurre nuovi strumenti di partecipazione alla fase legislativa. I referendum di indirizzo, previsti dalla riforma costituzionale bocciata dal referendum, lo erano. Accanto al referendum abrogativo, è fondamentale creare strumenti democratici che intervengano nei rapporti con le istituzioni nazionali, regionali e comunali in una fase propositiva.
Il referendum ha detto NO alla riforma proposta, non ad ogni progetto di rinnovamento delle istituzioni. L’errore fatale è stato quello di presentare un progetto di riforma come espressione di un premier, un atto di fiducia o sfiducia nel governo, mentre la Costituzione è dei cittadini italiani. Dobbiamo riprendere con serietà quel cammino, non considerarlo un incidente di percorso, aspettando tempi migliori e fidando nel tanto peggio tanto meglio.
– In questa legislatura, nella quale rimangono ancora 9-10 mesi per lavorare, si potrebbe ancora tentare di portare a termine una mini riforma costituzionale su pochi punti ampiamente condivisi, al riparo dagli scontri polarizzanti dello scorso anno. Sarebbe essenziale, e possibile in pochi mesi, introdurre: la fiducia espressa al governo da parte delle due Camere in seduta comune; la sfiducia costruttiva, come in Spagna e Germania, per cui un governo può essere fatto cadere solo se le Camere sono in grado di esprimere una maggioranza che indichi un nuovo premier.
Anche autorevoli sostenitori del NO al referendum si erano impegnati su questa impostazione: spetta al Pd farsene carico, incalzare le altre forze politiche.
Per il futuro, occorrerà ripensare ad una riforma costituzionale complessiva, che riduca il numero dei parlamentari, affronti il ruolo del Parlamento, superando il bicameralismo paritario, i rapporti con le Regioni e le città senza ridar vita ad un centralismo anacronistico. Una riforma da presentare in testi legislativi differenziati, così da non chiedere ai cittadini, nel referendum, un “giudizio universale”.
È necessario infine riflettere sul nostro partito, sulla sua forma organizzativa, il suo pluralismo, le sue regole di partecipazione. L’articolo 49 della nostra Costituzione stabilisce che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». È ora, finalmente, di dare attuazione a questa disposizione. Questo tema è al centro della mozione di Andrea Orlando: il Pd deve darsi la forza, l’organizzazione, la partecipazione per potersi considerare a pieno titolo una comunità politica, un laboratorio di idee, un canale di individuazione dei problemi, delle esigenze, delle aspirazioni dei cittadini. Una democrazia parlamentare non vive in modo efficace senza i partiti.
Da noi si è smarrito il significato e il valore della militanza: gli iscritti, gli elettori da registrare realmente in un albo, devono diventare protagonisti. Non possiamo chiamarli a raccolta solo in primarie per scegliere le persone e ogni 4 anni per eleggere il segretario, salvo poi dire loro che il voto vero, che conta, è quello di quanti si affacciano ad un gazebo una domenica.
Il partito deve anche sapersi riappropriare, con continuità, di compiti di formazione politica, nelle forme adeguate alla società di oggi.
Anche il finanziamento pubblico, che per gli eccessi, gli scandali e i mancati controlli del passato ha avuto una sostanziale abolizione, va ripreso con una discussione seria. Si può guardare ad esperienze presenti in paesi europei, quali quelle della Germania federale, dove sono previste risorse a fondazioni di ricerca e di elaborazione politica, collegate ai partiti. Da noi avrà senso prenderle in considerazione nel quadro dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e introducendo obblighi di trasparenza e controllo, oggi assenti, su tutte le fondazioni.
L’esperienza ha mostrato che la coincidenza tra segretario e premier non funziona: svilisce e fa deperire il partito; lo riduce a strumento di sola propaganda dell’azione del governo; può snaturarlo a organizzazione personale del leader. Oggi, oltretutto, questa opzione è in contrasto con le soluzioni possibili per la legge elettorale, non più esclusivamente maggioritaria, e con governi che inevitabilmente saranno di coalizione. Le primarie vanno regolamentate e prima possibile previste per legge. Devono essere confermate aperte al mondo del centrosinistra per scegliere i candidati a sindaco, presidente di Regione, presidente del Consiglio. Non hanno invece senso in questa forma per eleggere il Segretario del partito e ancor meno l’Assemblea nazionale. Lo Statuto va cambiato. Agli iscritti va riconsegnata la possibilità reale di discutere, vivere, contribuire a decidere nei circoli la politica. Dovranno essere chiamati a esprimersi, attraverso referendum mai praticati, sulle grandi scelte che il Pd dovrà compiere. L’Spd in Germania ha svolto una consultazione dei suoi militanti per sottoporre loro l’accordo raggiunto con il partito della Merkel e dare vita ad una grande coalizione. La tecnologia ci aiuta: diamo ai circoli tutti gli strumenti per fare del Pd una rete, sempre connessa, attiva, ricca di idee, spunti, sensibilità, passione. Anche per il tesseramento il digitale va sfruttato per dare trasparenza. Pensiamo ad un processo annuale, non ad un tesseramento ridotto a inutile orpello. In occasione dei congressi deve però chiudersi al momento della loro convocazione: chi si iscriva dopo, deve poter essere eletto negli organismi dirigenti, ma non esercitare un diritto di voto attivo. Le tecnologie però devono aiutare per ascoltare, consultare, mettere a punto progetti anche alternativi: le decisioni devono essere prese dalle persone nelle sedi di partito. È così che si contribuisce da sinistra a rendere più robusta la nostra democrazia.
Vannino Chiti
- Nei commenti troverete i contributi che in tanti ci avete inviato e di cui ho tenuto conto per elaborare questo documento
Inserisco questo tema nella sezione “democrazia” in quanto la mia proposta vuole contribuire alla rilegittimazione della democrazia. A mio avviso questo può avvenire solamente garantendo a tutti (o alla maggior parte possibile del corpo elettorale) un sapere di base su materie che spaziano dal diritto all’economia, passando dalla lettura dei giornali, all’educazione civica e alla comprensione dei temi di attualità magari stimolando la discussione all’interno della classe (credo che la scuola sia l’istituzione migliore per favorire questo nuovo approccio dei ragazzi alla conoscenza, anche di base, della politica).
La mia proposta comprende quindi la nascita di una nuova materia scolastica che venga insegnata diversamente dalla matematica, letteratura o chimica ma che favorisca il dibattito, il sorgere dei dubbi e la loro risoluzione. Non sono necessari voti e pagelle, ma un approccio che faccia comprendere ai nostri ragazzi la Costituzione, l’importanza della politica, dell’economia e che faccia sorgere in essi un senso critico.
La mia è un’idea di base che spero venga presa in considerazione e trasformata in un’idea concreta da chi ha più mezzi di me per poterla sviluppare.
Lascio a voi i dettagli come ad esempio chi potrebbe “insegnarla” (ad esempio laureati in scienze politiche), quante ore a settimana (due?) e altri punti.
Grazie per l’opportunità.
Confesso che formulare la proposta è assai difficile.
Sul territorio non c’è più nessuno, sono rimaste le associazioni di volontariato.
La comunicazione si consuma sui social e il tempo massimo di una conversazione (anche nei media) è di 10 minuti. L’approfondimento è relegato ad articoli di giornale che in pochi leggono. Anche la campagna per le primarie e la presenza nei circoli PD evidenzia questo.
Questo gap come si recupera? a chi spetta di colmarlo come si deve?
Sono sufficienti le “leopolde”, le “conferenze”, le “assemblee generali”?
Gli entusiasmi e le delusioni si consumano in un attimo e delle discussioni, delle vittorie e delle sconfitte rimane ben poco perchè tutto è rimosso.
Su cosa poggia la democrazia oggi è dato saperlo?
Rivoluzionare il sistema di finanziamento della democrazia partendo dal basso. Innovare i luoghi della partecipazione democratica. Destinare i 6 milioni del 2×1000 all’ICT dei circoli fornendo, in modo centralizzato, ogni circolo di collegamento ADSL, un numero telefonico di supporto ai cittadini, una rete Wi-Fi, un notebook, una stampante, un software per la gestione delle comunicazioni con iscritti ed elettori.
Le anomalie sul tesseramento al PD creano molto imbarazzo penso che trovare soluzioni per fare chiarezza ed evitare attacchi spesso leciti sarebbe un atto di vera democrazia proporrei il tesseramento elettronico annuale, biennale o triennale con una data ben precisa che non coincida con le elezioni ed avere un quadro chiaro sugli elettori iscritti al partito; non ha senso estendere a tutti l’elezione del segretario.
Voto agli studenti fuori sede.
Sarebbe molto importante aggiungere nelle linee programmatiche di Andrea Orlando anche la tematica del voto agli studenti fuori sede. Oggi gli studenti che studiano in una città diversa da quella nella quale risiedono devono necessariamente rientrare in sede per poter esercitare il proprio diritto di voto. Tornare a casa costa. Gli scarni rimborsi per treni, aerei, o altri mezzi di trasporto, falliscono il loro obbiettivo di garantire un effettivo sostentamento alle spese di viaggio. Sempre e comunque lo studente, o come spesso accade la sua famiglia, dovrà rimetterci di tasca propria. Senza parlare poi del notevole disagio logistico che si vive ogni qualvolta bisogna programmare un ritorno a casa: saltare lezioni (alle volte a frequenza obbligatoria), corsi di lingua, seminari, dover rinunciare a giornate di studio o addirittura a sessioni d’esami. Il voto agli studenti fuori sede è quindi, a mio avviso, una priorità. In una visione di bilanciamento tra prerogative costituzionali quali il diritto allo studio e la libertà di partecipazione politica, l’articolo 3, secondo comma della Costituzione stabilisce che l’ordinamento è tenuto a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’eguaglianza tra gli individui. Calandoci nel caso di specie, rimuovere questi ostacoli significa predisporre gli strumenti necessari affinché agli elettori, che per motivi di studio siano impossibilitati a recarsi nel loro seggio di residenza, possa comunque essere garantita la partecipazione democratica alla vita del Paese. La legge 52 del 2015 (il cd. Italicum) ha previsto un’innovazione di non poco conto: permettere ai soggetti che si trovino temporaneamente all’estero (almeno 3 mesi) per motivi di studio, lavoro o cure mediche di poter esercitare il loro diritto di voto attraverso i servizi consolari del Paese nel quale si trovano. Questo però crea una disparità, oltre che un evidente paradosso, nella nostra legislazione elettorale. Nello specifico uno studente che si reca in un Paese straniero per un Erasmus, potrà votare dall’estero; uno studente che, invece, si sposta da Torino a Napoli per studiare, sarà costretto a tornare per esprimere il proprio suffragio.
Chiedo, pertanto, che possa essere inserito questo punto nelle linee programmatiche del candidato. Auspico altresì che l’On. Andrea Orlando si possa far carico di questa tematica anche nelle sue vesti di deputato, membro del Governo e Dirigente nazionale del Partito Democratico.
#Alziamolavoce diciamo #Uguaglianza… di fatto.
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art 3 della Costituzione).
A chiedere l’aggiunta di quel “di fatto” nella formulazione definitiva del secondo comma dell’art 3 della Costituzione fu, nel corso dibattito finale in Aula, nel marzo di 70 anni, fa una giovanissima Teresa Mattei.
Con straordinaria forza ella affermò che quell’aggiunta non era un pleonasmo, una cosa inutile ma lo strumento per rendere concretamente esigibili diritti che troppo spesso restavano una conquista sancita solo sulla Carta, per costruire le condizioni di un effettivo progresso e una concreta liberazione innanzitutto delle donne che volevano essere pienamente cittadine e protagoniste della costruzione della Repubblica.
Settanta anni dopo nonostante i grandi progressi avvenuti restano da colmare grandi distanze e quel di fatto resta lì a segnare lo scarto tra le nostre aspirazioni e la realtà.
Nel 2016 il World economic forum nel suo rapporto sul divario di genere ci dice che l’Italia è arretrata di cinque posizioni collocandosi al 50° posto su 144 paesi.
Se infatti in termini di rappresentanza politica il numero delle donne presenti in Parlamento dopo le elezioni del 2013 è sensibilmente aumentato, passando dal 22 al 31% e collocando l’Italia al 25° posto nel mondo, lo stesso non può dirsi per gli altri indicatori: istruzione, salute e partecipazione socio economica. Anzi se si prendono in considerazione solo gli indicatori che riguardano il lavoro scopriamo che il nostro Paese è all’89° per tasso di occupazione femminile; al 98° posto per reddito da lavoro, al 79° per numero di donne che ricoprono ruoli di direzione o manageriali e infine al 127° per “parità di salario per occupazione simile”.
Un Paese dunque dove ancora poche donne lavorano (l’occupazione femminile è circa al 46%, contro un’occupazione maschile che supera il 60%), quando lo fanno raramente riescono a raggiungere posizioni di direzione, e spesso guadagnano a parità di lavoro meno dei colleghi uomini.
Un divario dunque ancora impressionante che è anche un indicatore dello stato di salute dell’economia e delle possibilità di crescita dell’Italia tutta.
Sempre nel 2016 Bankitalia ha infatti calcolato che se raggiungessimo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona dell’occupazione femminile al 60% il nostro Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7%: promuovere la presenza delle donne sul mercato del lavoro non è dunque solo una questione di equità, è una questione di benessere, un investimento sul futuro di tutti.
Da anni parliamo degli strumenti che consentirebbero di avere una piena e buona occupazione femminile e che passano per una grande battaglia per rimuovere gli ostacoli culturali e sociali che limitano una piena realizzazione lavorativa femminile e per la messa in campo di un welfare con servizi innanzitutto agli anziani e ai bambini, in grado di sostenere le famiglie, per nuove politiche che favoriscano la conciliazione tra vita privata e professionale (flessibilità, part time, telelavoro, congedi parentali) e per interventi fiscali a sostegno dell’occupazione, soprattutto delle madri, e delle imprese al femminile.
Solo in questo modo potremo risalire la china che oggi lega insieme in Italia una bassa occupazione femminile e il più basso tasso di fecondità d’Europa (1,4 bambini rispetto alla media dell’1,9) e provare a ricostruire una relazione positiva tra professione e maternità.
Si tratta di pensare strumenti inediti in grado di offrire risposte ai bisogni e ai problemi, talvolta nuovi, di chi vive la crisi economica ma anche di fornire soluzioni possibili agli Enti locali che dovrebbero garantire i servizi alle famiglie e che hanno visto in questi anni ridurre sempre più i trasferimenti statali.
Le parole delle donne per un nuovo welfare. Solidarietà, condivisione, rete sono da sempre punti cardine del pensiero femminile che possono contribuire oggi a disegnare modelli diversi di servizi, favorendo sinergie tra il pubblico, e quei soggetti sociali che operano in nome di un interesse generale come sono le forme più o meno organizzate di cittadinanza attiva o il comparto del Terzo Settore, attivando meccanismi di sussidiarietà non solo orizzontale e verticale ma anche circolare, promuovendo una logica non di concorrenza ma di collaborazione e di cooperazione.
Chiamare in causa l’idea di rete significa pensare una società cooperativa e solidale, che si misura con le sfide della cura dello spazio urbano, dell’ambiente e delle proprie comunità.
Recuperare il concetto di cura significa recuperare anche quello di responsabilità e di partecipazione e costruire attraverso di esse nuove cittadinanze e nuovi spazi sociali, in grado di far emergere e valorizzare la ricchezza, la complessità e la diversità dei soggetti che popolano le nostre società.
Abbiamo bisogno cioè di più “pubblico” ma di un pubblico pensato e organizzato in modo diverso, capace, mentre dà le risposte al disagio e ai problemi, anche di creare quel circuito attivo, quella rete di solidarietà, di coscienza civile, di legami sociali la cui disgregazione è uno dei problemi più profondi delle nostre società.
Un “pubblico” quindi che sia anche promotore di emancipazione, altro concetto fondamentale nel pensiero delle donne: il rischio infatti è che la scarsità di risorse restringano sempre più l’intervento pubblico nel quadro della mera assistenza mentre proprio nelle fasi di crisi economica occorre che esso promuova opportunità e integrazione: in una parola che costruisca coesione sociale.
Nelle esperienze dei territori ci sono ormai numerosissime esempi spesso sottovalutati, che faticano a trovare piena valorizzazione e sviluppo dentro un quadro organico di progettazione e di investimenti e che invece potrebbero diventare la leva per costruire quella democrazia partecipativa che è il cuore della nostra Costituzione. Si pensi in particolare all’esperienza delle cooperative di Comunità, vive in particolare nei piccoli centri dove il vincolo della sostenibilità economica pone a serio rischio la sopravvivenza di servizi essenziali e tantomeno li rende attrattivi per un intervento privato rispondente ad una logica di mero profitto, accrescendo il rischio di un deterioramento complessivo delle condizioni di vita. Esse puntano a favorire il protagonismo dei cittadini nella gestione dei servizi e nella valorizzazione dei territori, creando spesso occasioni di lavoro per i giovani e sfruttando potenzialità di sviluppo locale In molteplici attività: servizi socio-assistenziali e di pubblica utilità, di tutela ambientale, gestione di attività turistiche, commerciali e agricole, rafforzando contemporaneamente la coesione sociale e il senso di appartenenza al territorio.
Così come la costruzione di una rete tra servizi pubblici può essere una grande, nuova e inesplorata risorsa, in grado di consentirci di rispondere ai nuovi bisogni della società.
Si pensi, solo per fare un esempio, alle potenzialità inespresse che potrebbero sprigionarsi in una collaborazione organizzata tra Consultori (gestiti dalle Regioni) e Nidi (di competenza comunale) nell’offrire alle madri, ai bambini e alle famiglie, in particolare a quelle più fragili, un supporto e un sostegno che li accompagni, dalla gestazione, alla nascita, alla crescita fino alla soglia della scuola.
#Alziamolavoce diciamo #Unità… e #Autonomia
Dieci anni fa le Democratiche si dichiararono co-fondatrici del Partito Democratico con l’ambizione di contribuire, attraverso la Conferenza delle Democratiche prevista nello Statuto, alla costruzione del nuovo Partito con la storia e la cultura delle donne.
L’ambizione era la stessa di Teresa Mattei settanta anni fa: di “sciogliere veramente e completamente tutti i legami che ancora avvincono le mani delle donne” perché “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile, non di singole personalità ma per tutte e non solamente nel campo giuridico, ma nella vita economica, sociale e politica del Paese.
Ci siamo riuscite? C’è riuscito il Partito Democratico?
Molti passi avanti in tema di democrazia paritaria sono stati compiuti, come dimostra lo stesso Rapporto sul Gender Gap, ed è un fatto storico che l’attuale Parlamento sia quello con il più alto numero di donne nella storia della Repubblica. Una conquista importante frutto di un lungo e duro lavoro che ha sempre cercato di mettere al centro autonomia, apertura all’esterno, unità.
Molte leggi importanti sono state fatte ma nel complesso quello stesso Rapporto ci dice che nella società italiana le condizioni materiali di vita delle donne non sono significativamente migliorate.
E contemporaneamente quell’autonomia, quella concretezza e quella trasversalità che erano state le caratteristiche e la forza delle organizzazioni femminili si sono smarrite, in parte per limiti della Conferenza molto perché stritolate nella dinamica interna tra le correnti e soffocate dalla logica ipermaggioritaria di questi anni che ha schiacciato il pluralismo e il confronto e dall’impoverimento del dibattito.
Nel PD che vogliamo ricostruire le donne con il loro patrimonio di idee e di cultura devono tornare protagoniste, innovando le loro forme organizzative ma recuperando la prospettiva prevista nello Statuto “di un luogo di elaborazione delle politiche di genere, di promozione del pluralismo culturale, di scambio tra le generazioni, di formazione politica, di elaborazione di proposte programmatiche”.
E soprattutto contribuendo proprio grazie alla loro autonomia, alla costruzione di un grande partito.
Inserire una voce, con la giusta mediazione, per i diritti delle regioni a statuto speciale non sarebbe male, premiando quelle virtuose magari.
Democrazia è da intendere, secondo me, soprattutto come trasparenza e partecipazione. Quindi sono essenziali: 1. Una legge sui partiti politici secondo il dettato dell’articolo 49 della Costituzione; 2. Una legge elettorale che risponda sia ai criteri di rappresentanza che a quelli di governabilità (secondo me, un doppio turno di collegio con correttivo proporzionale per i piccoli partiti, quelli conformi a quanto dice l’articolo 49 della Costituzione); 3. Una legge sul finanziamento pubblico ai partiti: equilibrata, trasparente, logica, funzionale.
RICOSTRUIRE LA RETE DEGLI ORGANISMI DI PARITA’ CHE IN ITALIA è ORMAI SOLO SULLA CARTA e tale situazione concorre a porre il nostro Paese nelle ultime classifiche di tutte le analisi europee per quanto riguarda il rispetto della democrazia di genere.
Riavviare il ruolo e la funzione della Commissione NAZIONALE DI Parità che era incardinata alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed aveva il ruolo di analizzare in termini di “gender vision” le leggi emanate anche al fine di una valutazione di impatto delle norme nella società al fine di costituire un punto di monitoraggio anche rispetto alla inadempienza italiana rispetto agli obiettivi europei in tema di parità e pari opportunità.
Nella Mozione il tema della rappresentanza di genere non viene trattato come area tematica quindi non ritroviamo un’area tematica DONNE e questo è molto condivisibile per tanti fattori ma, occorre in maniera trasversale, trattare il punto di vista di genere in ogni area tematica al fine di rendere la piattaforma veramente inclusiva per tutti.
Quindi non una piattaforma (mozione con il classico e scontato punto DONNE ma una lettura trasversale, anche dal punto di vista delle donne (di genere) in ogni area tematica al fine di renderla più inclusiva e rappresentativa per tutti/tutte.
Forse fuori tema ma non so in che altra forma comunicarla: il PD ormai da tempo è privo e privato di qualsiasi azione o riflessione rispetto alla tematica di genere che doveva essere portata avanti anche in risposta all’articolo 24 dello Statuto. Vorrei che il PD di ORLANDO rilanciasse l’applicazione di tale articolo. Aver ottenuto il 40% della presenza delle donne negli organismi l’alternanza nelle liste, pur essendo risultati importanti non sono i soli che permettono di affermare il PD come un partito che si occupa di uomini e donne. Articolo 24 con la costituzione ed il funzionamento della Conferenza Permanente delle donne puo’ essere la risposta corretta ed anche di allargamento ad altri contesti della società al fine di essere vicini e di affrontare i problemi e le grandi contraddizioni delle donne in Italia.
Lo so che oggi parlare di finanziamento pubblico dei partiti non è “figo” ma si dovrà pur cominciare a ragionare seriamente sul fatto che un partito non può essere alla mercé di finanziatori privati.
Ne va del futuro della nostra democrazia.
Ho letto con molto interesse la mozione.
Sul concetto di “fare la rottamazione che non c’è stata” che hai spiegato a La Spezia, legato alla capacità del PD di rinnovare automaticamente la propria classe dirigente, ho un’idea finora inascoltata. e che si lega molto al percorso Luoghi Ideali di Barca (la sua presenza nella tua mozione mi è piaciuta molto).
Si tratta di strutturare una Scuola Politica del PD permanente, di periodo annuale, e con diversi livelli territoriali:
– Nazionale: indica le linee guida della scuola e ne prescrive i temi nazionali, europei ed internazionali da trattare. Prevede uno o due momenti di scuola nazionale, magari un weekend di formazione, e magari facendo accedere a questi weekend i partecipanti alle scuole regionali che più si mettono in luce per costanza, competenza, brillantezza, con degli indicatori che permettano di fare quella selezione che non premi i più amici o fedeli, ma i più validi futuri dirigenti.
– Regionale: definisce il calendario, e i temi da trattare oltre a quelli indicati dal nazionale, anche a seconda del periodo in ci si trova rispetto al rinnovo del consiglio regionale. Il calendario della formazione regionale non deve essere intenso, ma di qualità.
-Territoriale: Legati a momenti importanti di formazione (regionale), devono esserci dei momenti di laboratorio politico, anche di pratica, in cui gli studenti della scuola si imbattono nei provvedimenti dei consiglieri (regionali o comunali) eletti sperimentando anche le varie modalità di ascolto e di stare tra la gente per studiare l’ascolto, la comunicazione (verbale e non) e la lettura della realtà. I laboratori si svolgono a livello provinciale, per permettere agli studenti minimi spostamenti e aumentare la capacità di fare squadra. Ogni regione garantisce e struttura i laboratori territoriali (provinciali).
Per i vari temi trattati, la scuola deve chiudersi con una sintesi del lavoro fatto, sia individuale che di gruppo, raccogliendo le osservazioni e le proposte degli studenti, da cui prendere spunto per aggiornare continuamente le proprie posizioni su quei temi.
Gli studenti più validi devono essere messi in condizione di poter entrare poi nel gruppo dirigente, quindi nei rinnovi delle segreterie, nei consigli comunali, nei consigli regionali.
A questa scuola politica, legherei un percorso più snello, ma interconnesso, di formazione continua per i nostri amministratori, consiglieri regionali e parlamentari, perché sia sempre chiaro a tutti la strada che percorre il PD senza lasciare che battitori liberi possano sentirsi indipendenti gli uni dagli altri.
Spero che questo contributo possa risultare positivo e resto a disposizione per aiutare anche in una definizione più articolata di questo piano di formazione politica.
Grazie dell’attenzione.
Testo del contributo: accanto alla legge sui partiti ragioniamo anche sull’opportunità di porre in essere quanto richiamato nell’articolo 39 della Costituzione sui sindacati ottenendo trasparenza da una parte e legittimandone la personalità giuridica dall’altra.
Richiediamo una legge elettorale con sistema proporzionale.
Non sarà facile farci dimenticare che non state facendo nulla per la legge elettorale, questo nulla di fatto produrrà una catastrofe su coloro che non hanno mosso un solo dito per avere una buona legge elettorale. Se il PD ha deciso di scomparire dalla scena politica deve fare i conti su questa situazione, niente legge elettorale significa elettori incazzati, perdita di potere e decollo di forze di protesta a discapito di tutta la sinistra. Bisogna non prendere in giro gli elettori, ci sentiamo presi in giro. Confidiamo in questa parte della politica “sana” nella realizzazione della legge elettorale.
Il cittadino deve essere al centro dell’azione del governo e andrebbe visto come attore principale, protagonista e non come oggetto dell’azione stessa. In questa ottica risulta determinante individuare strumenti di partecipazione attiva in grado di mantenere il contatto tra organi di governo e cittadini e di far esprimere le proprie opinioni. Andrebbe sperimentato su alcune tematiche un modello di democrazia partecipata (anche on line).