1. La destra ha varato il suo provvedimento per cambiare la Costituzione. Non mi sento di chiamarlo riforma: evitiamo tutti di farlo. È uno sfregio alla Costituzione.
Quello che ne esce è un mostro istituzionale, una soluzione avventurista e confusa. Se approvato snaturerebbe la nostra democrazia, la renderebbe incapace di funzionare, romperebbe la coesione sociale e istituzionale del paese.
L’unica via d’uscita è bocciarlo al referendum. Il referendum deve rappresentare per i cittadini l’occasione di riappropriarsi della Costituzione, di liberarla dal vassallaggio nel quale la destra l’ha imprigionata, ancora una volta a suo uso e consumo.
Ma non sarà facile. Inonderanno i cittadini di bugie. Cercheranno di convincere che cambiare è bello, che dopo sessant’anni era necessario e la destra – solo lei – ci è riuscita. Diffonderanno il leit-motiv che “chi si oppone, conservatore è”. Cercheranno di evitare le valutazioni di merito sul provvedimento. Noi proprio su di esse, con semplicità, dovremo inchiodarli.
Cominciamo dal metodo: la destra ha voluto costruire da sola lo stravolgimento di 53 articoli della Costituzione. Non solo votarli da sola, ma definirli da sola. Non vi sono precedenti per un tale modo di procedere. Nella passata legislatura il centrosinistra fu costretto ad approvare da solo la riforma del Titolo V e l’inserimento in Costituzione del federalismo. Si può discutere della giustezza di una tale scelta: è probabile che non lo fosse. Ma guai a fare confusione. La proposta di federalismo venne costruita insieme, maggioranza e opposizione, nella commissione bicamerale; fu condivisa dalla Conferenza delle Regioni e dalle Associazioni dei Comuni e delle Provincie. Unitariamente presidenti di Regione, di provincia, sindaci di destra e di centrosinistra intervennero sui gruppi parlamentari perché la riforma venisse approvata. Su quella impostazione espressero un loro consenso sindacati, Confindustria, associazioni di impresa, del mondo della cultura e del volontariato.
All’ultimo momento i gruppi parlamentari della destra si tirarono indietro: ma fu per il diktat della Lega, non per un dissenso nel merito delle scelte.
2. Anche la riforma del Titolo V approvata dal centrosinistra aveva dei limiti e delle parzialità.
Mancava in primo luogo il Senato federale, indispensabile in un ordinamento che sposta verso le Regioni e gli enti locali maggiori poteri legislativi e amministrativi, pena il venir meno di una sede istituzionale di costruzione responsabile e solidale dell’unità del paese.
Il decreto del 2000, concordato con le Regioni, per l’avvio del federalismo fiscale, doveva tradursi in una legge organica. La definizione delle materie di competenza tra Stato centrale e Regioni presentava alcuni aspetti di manchevolezza e di eccessiva frammentazione, rendendo necessario, anche sulla base dell’esperienza concreta, una più razionale riorganizzazione.
La destra si è mossa in senso contrario, ampliando ed esasperando le contraddizioni, producendo un mix di federalismo al limite della secessione e di centralismo al limite dell’autoritarismo.
Non è propaganda. Si veda il nuovo articolo 117. In esso la salute, l’istruzione sono a un tempo definiti materie di competenza esclusiva dello Stato centrale, materie concorrenti e materie esclusive delle Regioni. L’esito non potrebbe che essere l’esplodere di conflitti tra istituzioni.
Il federalismo fiscale viene rinviato di tre anni. Il Senato sarebbe federale perché vi sono invitati, senza diritto di voto, i presidenti di Regione e alcuni rappresentanti degli enti locali.
Il processo legislativo nazionale tocca vertici di farraginosità fino a risultare bloccato in una dialettica inconcludente e indefinita tra una Camera che dà la fiducia al governo e un Senato non più titolare di quella fiducia, ma sostanzialmente dotato delle stesse competenze.
Sminuito e politicizzato il ruolo del Presidente della Repubblica, che potrà salvare il governo dal veto del Senato, se “alleato” del Presidente del Consiglio. Viene di nuovo introdotto il riferimento all’interesse nazionale ma impostato in termini negativi, di sfiducia verso le Regioni e antagonismo nei loro confronti: un governo nazionale potrà bloccare leggi dei Consigli Regionali e addirittura bocciarle con il voto del Parlamento in seduta congiunta.
A rischio di forte politicizzazione la stessa Corte Costituzionale.
Ne viene così fuori un modello istituzionale sconosciuto sulla terra: una sfida alla convivenza democratica e all’intelligenza.
3. La proposta della destra non è in alcun modo emendabile. Bisogna cancellarla con il referendum.
Per poi riprendere con pazienza e serietà un cammino di aggiornamento di alcune parti della Costituzione. Si tratterà di portare a compimento il rapporto tra Stato centrale, Regioni e autonomie locali; di riformare il sistema parlamentare, trasformando realmente il Senato in Camera federale; di assicurare la stabilità di legislatura alle maggioranze scelte dai cittadini al momento del voto; di garantire ovunque lo Statuto delle opposizioni.
La Costituzione non si cambia a colpi di maggioranza, ma costruendo convergenze unitarie. E ci impegneremo perché anche sulle materie eticamente sensibili si proceda con intese ampie, ben al di là dei confini delle semplici maggioranze.
Noi vogliamo dare vita a riforme serie: non siamo né saremo conservatori. I processi di globalizzazione esigono un rinnovamento della democrazia: una sua capacità di realizzarsi ai livelli sovranazionali e di irrobustirsi a livello locale, come risposta a domande inedite, anche di identità, dei cittadini, di necessaria promozione delle potenzialità dei territori nella competizione mondiale.
Si, vi è bisogno, in Italia e altrove, di riforme serie. Le porteremo avanti noi, sconfiggendo intanto questo mostro istituzionale evocato dalla destra.

Vannino Chiti